"Protagonista di fatti di un'eccezionale violenza" - la mia vita dopo gli attacchi di Parigi

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"Protagonista di fatti di un'eccezionale violenza" - la mia vita dopo gli attacchi di Parigi

Benedetta è una nostra collaboratrice. È Italiana ma vive a Parigi, davanti al Bataclan, e la sera del 13 novembre era in casa. Questo è il suo racconto di ciò che è successo dopo gli attacchi, nei giorni immediatamente successivi e oggi.

Un blocco delle forze dell'ordine nei pressi del Bataclan, 14 novembre 2015. Tutte le foto di

Etienne Rouillon/VICE News.

Benedetta è una nostra collaboratrice. Vive a Parigi, davanti al Bataclan, e la sera del 13 novembre era in casa. Questo è il suo racconto di ciò che è successo dopo gli attacchi, nei giorni immediatamente successivi e oggi, a poco più di un mese di distanza.

Sembrerebbe che io faccia parte dei sopravvissuti di uno dei peggiori attentati di Parigi degli ultimi quarant'anni, o almeno così mi assicurano tutte le persone che ho incrociato dopo il 13 novembre fissandomi negli occhi, aspettandosi probabilmente di trovarci qualche lacrima. In realtà non sto dando molte soddisfazioni, perché piangere mi è ancora impossibile. Anzi, a forza di riavvolgere il racconto di quelle tre ore di angoscia, sto persino iniziando a dubitare che qualcosa sia accaduto davvero, qualcosa dal quale sarei addirittura uscita indenne: mi accontento di constatare che sono entrata in una nuova fase della mia vita, quella in cui controllare le uscite di emergenza dei bar in cui vado a bere un caffè e preferire le scarpe da ginnastica ai tacchi per poter scappare meglio sono diventati comportamenti ragionevoli.

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Più di un mese dopo quei 130 morti, sto iniziando a capire che essere viva è diverso dall'essere una sopravvissuta. Non sono l'unica: i servizi di urgenza psicologica che sono stati attivati a Parigi subito dopo gli attentati stanno accogliendo proprio in questi giorni la seconda ondata di pazienti, composta dalle persone che hanno semplicemente fatto finta di niente. Sono in molti, tra quelli che hanno agitato cartelloni "Non abbiamo paura," ad ammettere con reticenza che forse non stanno proprio bene.

Della prima settimana della mia nuova vita ricordo poco o niente, sballottata da una casa all'altra e incapace di sottrarmi a un sonno profondo che mi ha preservata dagli incubi con cui devo fare i conti oggi. Dai divani degli amici ho chiamato gli altri abitanti della mia palazzina per sapere come stessero. Per avere una conferma dell'orrore, forse. La sola a rispondermi è stata l'anziana del primo piano, quella che avevo trovato più di una volta dietro la mia porta armata di uno spazzolino, intenta a raccogliere una polvere che vedeva solo lei. Ha cinguettato nella cornetta che stava bene, aggiungendo che "la vita è così, triste a volte." Le ho invidiato l'Alzheimer.

I miei amici mi hanno preparato da mangiare, hanno finto di voler guardare Top Chef, hanno organizzato cene sforzandosi di parlare delle loro vacanze, mi hanno fatto ingoiare delle aspirine e costretta a una normalità apparente tentando di non cedere alla gravità di quello che succedeva ancora dappertutto: l'assalto di Saint-Denis, che si è trascinato fino alle dichiarazioni del primo ministro Manuel Valls su possibili attacchi chimici o batteriologici a venire, sfumate poi nello stato di allerta a Bruxelles. Giorni e giorni di angoscia sottotitolati da una guerra che sembrava stessero dichiarando tutti in mondovisione.

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Nous sommes en guerre ! Une guerre nouvelle –extérieure et intérieure– où la terreur est le premier but et la première arme. — Manuel Valls (@manuelvalls)19 Novembre 2015

Le persone che mi hanno ospitata erano preoccupate per me più di quanto lo fossi io stessa, ed è stato per puro riguardo che ho evitato di verbalizzare la sola certezza con la quale dovrò fare i conti per il resto della mia vita, ossia che fra un bicchiere di vino e una raffica di kalashnikov c'è meno spazio di quello che siamo pronti ad accettare. Nomade, lontana dal mio appartamento, ho seguito l'iniziativa #jesuisenterrasse con un misto di stupore e incomprensione, chiedendomi come fosse possibile pensare di fermare le pallottole con uno spritz.

"À la bonne bière", il primo locale colpito dagli attacchi ad avere riaperto. Dicembre 2015.

Le risate mi hanno ancorata al reale. Le prime, quelle isteriche, sono arrivate il giorno successivo agli attentati, al tavolino di un bar a pochi passi dai luoghi delle sparatorie, su un boulevard deserto. Le poche persone in strada si guardavano negli occhi dopo una notte in bianco, le facce gonfie, tirate. All'amica venuta a confortarmi ho raccontato di come avessi sfidato le pallottole qualche ora prima, verso mezzanotte, per strisciare fino al telefono fisso che continuava a a suonare, convinta che si trattasse della polizia. Quando ho sollevato la cornetta, una tizia che sosteneva chiamare dalla Colombia ha provato a vendermi qualcosa. È stata la mia amica a cominciare a ridere, avanzando l'ipotesi che si trattasse di una cellula dormiente dello Stato Islamico in Sudamerica. Ho riso anch'io, a lungo.

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Poi mi è arrivato il messaggio di un caporedattore che mi chiedeva come stessi. "Ho letto la tua testimonianza sul giornale," diceva. È stato così che ho scoperto che a quell'amico giornalista che mi aveva chiamata la sera prima, quando ancora i terroristi ricaricavano le loro armi, non interessava sapere se fossi al sicuro. Mi aveva intervistata senza chiedermi se fossi d'accordo. E poi aveva scritto la sua versione dei fatti. Le sue domande risuonano ancora da qualche parte nella mia testa, il vantaggio dello stato di shock è che ci si ricorda tutti i dettagli, anche quelli più inutili. "Ma sei nei cessi del teatro?" "No, sono a casa." "Vedi i corpi?" "Sì, una decina. Tirano ancora." "Ma sei nei cessi?" "No." Aveva poi scritto che ero nei cessi, firmando la testimonianza con il mio nome, un nome talmente raro a Parigi che ho dovuto rassicurare molte persone spiegando che no, non sono mai stata nei cessi del Bataclan.

Ho capito che qualche cosa non andava all'inizio di dicembre, quando—proprio nel momento in cui constatavo con stupore di avere traccia di qualcosa che si chiamava Safety Check sul mio muro Facebook (apparentemente, ero stata proprio io a "segnalarmi in sicurezza")—davanti alle mie finestre, affacciate sui camerini del Bataclan, avevano ripreso a sfilare le tute bianche della Polizia Scientifica. La strada si era riempita dell'odore acre del cloro e di diverse camionette con il logo del comune, ma per capire cosa stesse succedendo non ho avuto la forza di scendere i due piani di scale che mi separavano dall'uscita di emergenza del teatro. Mi sono collegata al sito di un quotidiano, dove ho appreso che avevano appena ritrovato la gamba mancante di uno dei terroristi, nascosta dietro un amplificatore. E ho realizzato che da due settimane vivevo così, incastrata nel flusso delle flash news, disconnessa dal reale.

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Giornalisti nei pressi del Bataclan, 14 novembre 2015.

I flash back arrivano sempre quando sto facendo altro—i due terroristi, gli ostaggi, quella ragazza appesa alle grate del secondo piano, i corpi a terra. La calma irreale che ha avvolto tutto in un silenzio sinistro, rotto solo dalle minacce di fare saltare tutto in aria e i fasci di luce delle torce delle teste di cuoio. Sento di nuovo gli spari, i primissimi, quelli che pensavo fossero petardi. Siamo stati in molti a sentire dei petardi prima di renderci conto, alla seconda raffica scomposta, che stavamo vivendo qualcosa che poteva persino essere una sparatoria. Molti particolari li ho capiti dopo, incrociando gli eventi che avevo solo potuto imaginare mentre qualcuno mi dettava per telefono degli ordini chiari. "Stai lontana dalle finestre." "Nasconditi." "Spegni la luce."

Uno dei miei vicini di casa, un signore alto e distinto, è stato ucciso da una pallottola vagante. Il suo televisore è rimasto acceso tutta la notte, e recentemente uno degli ostaggi ha raccontato che la luce blu che usciva da quella sola finestra rimasta aperta gli aveva permesso di pensare per qualche istante a qualcosa di diverso dalla morte. La mattina dopo il massacro ho incrociato due Pompieri che si apprestavano a sfondare la porta del suo appartamento, mentre trascinavo giù per le scale una valigia che l'angoscia mi aveva fatto riempire di cose inutili. (Un'agenda. Un balsamo per capelli. Un costume da bagno che avevo scambiato per una maglietta). Quando sono rientrata a casa, la settimana successiva, quella porta era stata messa sotto sigilli. Un foglio A4 riportava "Vittima: Monsieur Hache - Causa della morte: omicidio legato a un'organizzazione terroristica." Ho raggiunto di corsa uno dei poliziotti che pattugliavano la via per chiedergli cosa fosse successo, ed è stato più o meno in quel momento che mi sono accorta di urlare. Mi ha mentito. Mi ha detto "Stia tranquilla, signora, il suo vicino è morto di un attacco di cuore." Poi ha sussurrato qualcosa nel suo walkie talkie e mi ha scortata fino a casa per farmi prendere un paio di mutande e lo spazzolino da denti, dicendomi che avrei fatto meglio a starmene lontana per un po'. Assicurandomi che capiva come mi sentivo, perché provava le stesse cose. Se io avevo visto fuori, lui aveva visto dentro, e da allora non smetteva di pensare a sua madre, e alle madri di quei ragazzi.

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Il 22 novembre ho riaperto l'appartamento, tremando. Ho chiamato tutti i numeri che l'amministrazione aveva fatto scivolare sotto la mia porta. Quello di un commissario della Polizia Giudiziaria che mi ha chiesto molti dettagli, confermandomi che avevo visto in faccia due dei terroristi, e quelli delle cellule psicologiche di urgenza aperte per le vittime degli attentati. Un'organizzazione perfetta che si teneva pronta da mesi, temendo un attentato multiplo, rodata nel 1995, quando la guerra civile in Algeria aveva colpito anche la capitale a più riprese. Pronta per quell'"undici settembre francese" che l'ex giudice dell'anti-terrorismo Marc Trevidic aveva prefigurato già da maggio a chiunque gli tendesse un microfono. Ho aperto la lettera del sindaco dell'undicesimo Arrondissement che ci teneva a sottolineare che ero stata "protagonista di fatti di un'eccezionale violenza," e quella della Prefettura che mi invitava a non restare sola, e ad andare in Municipio per parlare con uno specialista.

Ce soir, 769 personnes ont été accueillies et aidées psychologiquement en — François Vauglin (@FVauglin)November 16, 2015

Diverse equipe si tenevano a disposizione un po' dappertutto, 24 ore su 24, all'Ecole Militaire (dedicata ai parenti delle vittime), nei principali ospedali e nel mio quartiere. Mi hanno persino comunicato la lista degli psicologi privati pronti a ricevermi gratuitamente. Alla fine, ho preferito non intasare le urgenze e ho contattato l'Association Française des Victimes de Terrorisme con un vago senso di colpa, perché non mi sentivo legittimata ad approfittare delle stesse cure di quelli che si erano presi una pallottola. Quella notte c'è chi ha perso un amico o un parente, chi ha dovuto camminare sui cadaveri o strisciare in un controsoffitto o parlare con i terroristi. C'è chi non è mai uscito dal Bataclan. La psicologa che mi segue sostiene che è un grande classico, si tratterebbe della "sindrome del sopravvissuto." Mi ha detto che è normale aver voglia di far scomparire i turisti che stazionano davanti al mio portone per scattarsi i selfie accanto ai fori delle pallottole cerchiati col gessetto verde. Sostiene che la rabbia fa parte di un processo di guarigione del quale per il momento ignoro tutto, ma mi invita ad accettare che ci siano persone che hanno bisogno di "appropriarsi del dramma per comprenderlo."

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I mazzi di fiori e i messaggi lasciati a poca distanza dal Bataclan nei giorni immediatamente successivi agli attacchi.

In questi giorni, degli addetti del comune passano regolarmente a raccogliere i disegni e i messaggi che i passanti lasciano davanti ai luoghi degli attentati, e degli archivisti lavorano senza sosta nella sede degli Archivi di Parigi, Porte de Lilas, per pulire, fissare, asciugare e conservare gli omaggi di cui nessuno ha ancora capito cosa fare. "Ho l'impressione di creare una materia che, fra cent'anni, racconterà la storia," ha spiegato a Le Monde uno di questi esperti, aggiungendo che legge tutto, soprattutto i messaggi dei bambini. Ne ho ricevuto uno anch'io, a casa, firmato da un bambino belga. Una lettera su un foglio rosso, indirizzata al mio immobile. "Non siete soli," diceva, "nella speranza che tutto vada bene di nuovo, presto." Mi ha fatto bene, eppure non sopporto più le tonnellate di fiori appassiti riversati per strada. La gente che abita nel quartiere si sta organizzando per chiedere alla Prefettura di pulire questo cimitero a cielo aperto, che ci impedisce di evitare l'angoscia e il dolore persino quando andiamo a comprare le sigarette. Viviamo tutti i giorni il ritorno incessante di quel 13 novembre, e per qualcuno creare un memoriale altrove è l'unica soluzione possibile per riprendere a vivere.

La cosa più difficile con la quale fare i conti, dopo, non è l'orrore. È la banalità dell'orrore. Dopo la strage di Breivik nel 2011, il primo ministro norvegese ha detto: "Ovviamente, non cambieremo nulla di quello che siamo." Inizio a capire tutta l'impotenza nascosta dietro il suo apparente coraggio. Non possiamo cambiare niente, ma niente sarà più come prima: trascino questo paradosso tutti i giorni camminando per le strade in cui le sirene non smettono di urlare. Il mio cuore sobbalza ogni volta che qualcuno corre, che qualcuno urla, che una macchina accelera, che una finestra sbatte, che un boato risuona in lontananza. Che un vagone della metropolitana schiocca sulle rotaie con quel battito meccanico irregolare che sembra altro.

Da quel 13 novembre ho cancellato qualche numero dalla mia rubrica. I complottisti. Quelli che mi hanno detto che "almeno ora sappiamo cosa è la guerra," e quelli che hanno continuato a fare come se niente fosse. E mi sono intestardita a cercare di dare un nome all'uomo di mezza età abbattuto davanti all'uscita di soccorso, quell'uomo che ho fissato fino all'alba per tutto il tempo in cui il trauma mi ha tolto la parola.

La settimana scorsa, l'avvocato dell'associazione mi ha consigliato di andare al 36 Quai des Orfèvres, sede della Direzione Generale della Polizia Giudiziaria, per sporgere denuncia, come stanno facendo tutti gli altri sopravvissuti. Costituirsi parte civile mi permetterà di seguire il processo che ci sarà fra qualche anno, trovare le risposte ai dubbi che ho ancora sulla dinamica di quella notte e far pace con quello che è successo. Ho finito di bere il caffè che mi aveva offerto, ho preso nota. A metà frase, ho sollevato la penna e le ho chiesto: "E quindi chi devo denunciare, l'ISIS?" Ha riso. Mi ha detto che starò meglio. Che devo solo avere pazienza.

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