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Intervista ad Antoine D'Agata

Due chiacchiere con una delle figure più controverse nel mondo dell'arte e della fotografia contemporanea.

Antoine D'Agata è una figura controversa nel mondo dell'arte e della fotografia. Assunto dall'agenzia fotografica Magnum, che si era appena resa conto del fatto che il fotogiornalismo portava pochi soldi, Antoine D'Agata realizza opere il cui contenuto, brutale e autodistruttivo, ha l'abitudine di dare fastidio alla gente.

Nato a Marsiglia nel 1961, D'Agata ha lasciato la Francia nei primi anni Ottanta. In seguito, ha studiato all'International Center of Photography di New York insieme a Nan Goldin e Larry Clark, con i quali condivide la passione per il lato squallido delle cose. D'Agata ha condotto una vita nomade e tetra. Come norma, ha la tendenza a immergersi nei suoi soggetti—che in genere sono prostitute e altri emarginati sociali—infilandosi spesso in situazioni permeate da droga e sesso.

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Abbiamo conversato di fotografia come arte, moralità, e di cosa significhi dipendere dalla meth mentre si convive con prostitute cambogiane.

VICE: Quali artisti ti interessano, tra i non-fotografi?

Antoine D'Agata: Rispetto gli artisti che hanno il coraggio di essere all'altezza della follia insita nella loro arte. Céline, Artaud, Rimbaud non sono geni per la complessità delle loro parole, lo sono per la verità delle loro parole. L'arte, per me, non è una gara o uno spettacolo, ma è uno spazio privilegiato in cui ognuno può dare una forma radicale alla prospettiva che ha del mondo. È da molto tempo che l'arte è tenuta in ostaggio dalla tecnica e oggi il criterio di valutazione sarebbe quello dell'intelligenza, per non dire "cinismo". Ma mi interessa l'arte che lascia spazio all'eccesso, alla disperazione. Penso all'arte di George Grosz perché lì percepisco la mostruosità della società, come trovo la mostruosità della carne in Francis Bacon. L'arte mi interessa quando è gridata, vomitata, non quando è concettualizzata o pubblicizzata.

Come descriveresti il tuo lavoro? Reportage, arte? Credi che le fotografie possano essere un modo onesto ed efficace di rappresentare una certa situazione?

L'unico tipo di legame che ho con la tradizione del reportage è di cercare i modi più efficaci di negare, denunciare, distruggere il pregiudizio che il reportage stesso implica. Al di là della pretesa umanistica, il reportage comunica sempre valori distorti e insidiosi. La sua sopravvivenza economica è sempre dipesa da strategie logiche tese a perpetuare l'efficienza e la redditività di un sistema controllato dall'élite a beneficio dell'élite stessa. E bisogna anche ricordare che nessuna fotografia può pretendere di mostrare la verità. Un'immagine mostra soltanto una data situazione sotto una prospettiva molto specifica, che questo avvenga in modo conscio, plateale, rilevante o meno. I fotografi devono giungere a patti con la consapevolezza che possono solo rappresentare frammenti di realtà illusorie, a cui legare la propria intima esperienza del mondo. In questo processo di finzionalizzazione di una verità irraggiungibile, sta a loro la scelta: imporre i propri dubbi sulla verità fotografica, o accettare di essere pedine impotenti del gioco mediatico.

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In passato hai detto che la fotografia non è arte. Cosa ne pensi della fotografia come arte? Puoi spiegarci in che modo, secondo te, la fotografia si oppone all'arte?

Vedo la fotografia come un linguaggio artistico perfettamente legittimo, ma credo che troppo spesso sia usata poco e male. Il mondo non è fatto di quello che vediamo, ma di quello che facciamo. I fotografi che ignorano lo stato delle cose—e sono in molti a farlo, oggi, come in passato—riducono la fotografia alla sua capacità di registrare la realtà. Non si assumono la responsabilità della posizione che prendono mentre guardano il mondo, e finiscono per stabilizzarsi su posizioni voyeuristiche, sociologiche o estetiche. Al contrario di quello che si fa quando si scrive o dipinge, mentre si fotografa ci si trova a confrontare la realtà. L'unica maniera onesta in cui farlo è quella di estrapolare il meglio della propria esistenza. Da un punto di vista morale, devi inventare la tua stessa vita, contro la paura e l'ignoranza, attraverso l'azione. L'intelligenza e la bellezza non compensano la passività. L'unico modo di mantenere una propria dignità è quello di confrontarsi con la condizione umana e con il contesto sociale attraverso l'azione diretta. È complicato, ma è necessario mantenere un equilibrio tra la creazione di situazioni da vivere in prima persona e lo sviluppo di una tecnica narrativa per condividere la propria prospettiva. Nel processo, a un certo punto l'arte supera la vita, l'arte snatura la vita.

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Pensi che il tuo lavoro abbia molto in comune con quello di, mettiamo, Nan Goldin?

I pochi fotografi, come Nan Goldin, che mi hanno influenzato mentre cercavo di esplorare la storia del mezzo fotografico sono quelli che hanno lottato per riportare nella fotografia un po' della crudezza del mondo. Nan Goldin mi ha insegnato a resistere nella lotta esistenziale e politica per la sopravvivenza. Non la sento vicina perché ha vissuto esperienze simili in comunità marginali, o per la presunta ossessione per sesso e droghe: la sento vicina perché non si è mai arresa. Non ha mai evitato di compromettere la sua salute o la sua sanità mentale per il lavoro che faceva, e le sono grato per il coraggio e la cocciutaggine, per essere rimasta fedele ai suoi dolori, ai suoi desideri, alle sue paure.

Hai parlato della fotografia come linguaggio: ti senti mai intrappolato negli stili con cui hai cercato di comunicare in passato, o ti trovi bene nell'avere una voce unica nel suo genere?

Non credo che avrò mai la forza di farmi capire in maniera chiara e coerente. I miei libri sono fatti in maniera disattenta, sono pieni di difetti, le mie fotografie sono confuse e scrivo in maniera goffa. Ma sono solo strumenti-da me poco assimilati, finora-in una ricerca assolutamente specifica, che non concede sconti o compromessi. È difficile essere eccessivi quanto lo sono io nel mio lavoro ed essere al contempo completamente efficienti. Ogni libro, ogni mostra, ogni commissione, comportano un compromesso in più con cui devo venire a patti.

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Una volta Nan mi ha detto che tutti le parlano di quanto il tuo lavoro sia tetro, ma lei pensa che tu ti diverta molto.

Credo che la realtà non sia mai stata tetra quanto il modo in cui la dipingevo, ma non riesco a ignorare le sensazioni che prendono il sopravvento su di me quando attraverso gli orrori del mondo. Allo stesso tempo, lascio fuori dalle immagini gli elementi più sordidi e drammatici, le condizioni sconcertanti in cui vivono la maggior parte dei protagonisti delle mie foto. Cerco di esprimere, nel modo più meticoloso e arbitrario, l'indefinibile e insostenibile bellezza di sopravvivere fisicamente, mentalmente ed emozionalmente per tutti coloro che non hanno niente all'infuori dei propri corpi, che sono costretti a vendere per andare avanti.

Le mie strategie fotografiche puntano a raggiungere i più alti stati di piacere e incoscienza e, sotto quest'ottica, il sesso e le droghe sono dei metodi di lavoro altamente produttivi. Vivo la mia vita accanto a persone che usano il piacere come modo di imporre la propria esistenza e identità in un mondo che nega loro ogni diritto. Ma il piacere non può essere separato dal dolore e dall'alienazione. Il piacere, per me, è ancora un territorio piuttosto oscuro, ed è estenuante esplorare i suoi limiti. È solo un percorso: la soddisfazione non è lo scopo. Il "sentire" potrebbe esserlo. Sono schiavo dell'adrenalina.

Ho letto di quando parli delle "immagini innocenti". Le fotografie che scatti sono innocenti a tuo parere?

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Le mie fotografie sono innocenti perché sono accidentali. Ho usato ogni metodo possibile per perdere il controllo. Uso qualsiasi cosa (l'alcol, le droghe, la rabbia, il sesso, la paura) per spingermi oltre ai limiti; nel farlo mi assicuro che il risultato finale non si limiti all'illustrazione o all'affermazione. Il che non vuol dire che non cercherò maniacalmente di costruire la coerenza del mio lavoro, più avanti. Ciascuna immagine è, a qualche livello, indipendente dal mio volere. Nasce più dal mio sistema nervoso che dal mio cervello. E nel mondo in cui viviamo, questo tipo di innocenza è sovversivo, nella lotta contemporanea tra le oscene forze dell'astrazione, della morale e della religione e la meccanica della carne.

Quindi farsi concorre attivamente alla creazione di quell'innocenza?

Nella tensione che viene rilasciata dallo stato indotto dai narcotici, in quei momenti di nuda fragilità emozionale, riesco a esplorare un senso di annichilimento che non potrei raggiungere altrimenti. Scopando e drogandomi, mi riduco in uno stato che è uno strano miscuglio di carne, vuoto interiore e panico. Uno stato d'essere completamente spoglio di ogni cosa, il modo più innocente di avere esperienza di quel mondo che è veramente essenziale, prima di trovarne un senso.

Quando Nan era fattissima credo vedesse e fotografasse il mondo in maniera diversa. Pensi che il tuo lavoro sia impostato così?

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Come Nan, voglio creare un mio percorso. E come lei, non mi piace l'idea di guardare il mondo e parlare delle mie esperienze. È accettabile, di tanto in tanto, l'idea di essere uno spettatore, ma uso le droghe perché mi permettono di agire e reagire in modo diverso. Non bisogna ridurre le droghe a un modo mistico di spalancare le porte della percezione della realtà. A me interessano le droghe più pesanti, quelle più fisiche, che alterano e intensificano il confronto con la realtà. Non quelle che ti concedono una fuga in un qualche comodo, esotico stato mentale. Consumare droghe nel modo in cui si consumerebbe un reality show non aiuta. Le droghe mi aiutano a percepire, con i nervi e con lo stomaco, il luogo in cui c'è la vera vita. Non so cosa sia la vera vita, ma non sopporto più l'idea di sentirmi anestetizzato. Cerco ogni giorno di estrarre le forze pure dell'istinto. Nella società moderna, l'unica norma è il piacere. E si fa di tutto per sradicare ogni traccia di desiderio, rabbia, violenza, dolore, paura: tutti i tipi di istinto animale. Con le droghe, con gli eccessi, cerco di ricadere a questi livelli di emozione incontrollata.

Che scopo pensi che abbia questo, all'interno del tuo lavoro? Ad esempio, avevi uno scopo preciso in mente quando sei andato a lavorare in Cambogia?

Non stavo cercando un contesto esotico per delle perversioni specifiche. Ma avevo in testa l'idea di un luogo dove ci sono poche barriere, e sapevo che lì avrei incontrato più vittime della violenza sociale globale e avrei trovato, nella loro disperazione, la forza di inventare nuovi modi di sopravvivere. In Cambogia questo accade con l'uso di una nuova generazione di droghe da strada, tutte sulla falsariga delle metanfetamine. L'idea della trasgressione mi ha stancato. Ma mi interessa l'immoralità, il modo in cui è stata definita tradizionalmente. Al centro di ognuna delle mie mosse c'era sempre l'interesse a trovarmi dalla parte dell'innocenza. Non è un'ideologia, è una filosofia intima, che ho maturato dall'esperienza e dal dolore. In molti mi hanno accusato anonimamente, su internet. Attacchi codardi e insidiosi. Io conosco la mia posizione e sento di dovermi giustificare.

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Cosa ne pensi di chi critica il tuo lavoro sostenendo che sei tu stesso uno sfruttatore?

Come accade alla maggior parte dei fotografi, per me è essenziale meritarmi la fiducia delle persone che approccio. Ma a differenza degli altri fotografi, la mia ambizione è quella di abolire ogni tipo di distanza politica, emozionale o fisica rispetto ai miei soggetti. Ed è un processo che può innescarsi solo se, costantemente, vengono mostrati rispetto, amore, compassione. Il mio lavoro sta sempre più diventando un diario autobiografico. C'è un po' di codardia nella posizione tipica della fotografia documentaristica, che si pone in un terreno a metà tra il voyeurismo e l'incolumità personale: è lì che si trova lo sfruttamento. In questi ultimi anni ho sperimentato nuovi metodi di lavoro, abbandonando gradualmente la mia posizione dietro la macchina fotografica per entrare io stesso nell'immagine, diventando personaggio delle mie fotografie. È l'unica posizione legittima. La fotografia è l'unico linguaggio artistico che dev'essere elaborato nello stesso istante in cui avviene l'esperienza che si ha intenzione di ritrarre. Cerco di usare la fotografia nel modo più coerente, mentre sperimento il mondo nel modo più intenso, cercando di assumermi la responsabilità delle mie azioni e riconoscendo l'esistenza e le emozioni delle persone che ritraggo.

"Cambodian Ice Triangle" riprende alcuni aspetti ben noti nel tuo lavoro: droghe, donne e immagini che, a volte, sono estremamente inquietanti. Fino a che punto il tuo lavoro è premeditato? O si sviluppa in loco?

L'unica strategia è seguire le persone in tutto e per tutto nel loro stile di vita eccessivo. Non so mai dove sto dirigendomi con un lavoro, ma usare la fotografia nel modo in cui la uso mi permette di fuggire dal mondo letargico che ci circonda. Cerco sempre più di affidarmi ad altri per scattare le fotografie; io tengo sotto controllo, nel limite delle mie possibilità, la luce, la prospettiva, la posizione della macchina fotografica, l'angolazione della lente rispetto al soggetto, la velocità dell'otturatore. L'essenziale, nella natura della situazione che provoco, è la tensione che viene rilasciata, al di là di ogni mio controllo. La mia strategia personale, per vivere la violenza del mondo, non è di evitarla ma di cercarla e di non fare del male a nessuno se non a me stesso, sulla strada.

Le tue fotografie sono molto intense, a volte quasi violente. Questo riflette le relazioni che hai con le persone ritratte?

La violenza delle comunità di persone in cui mi immergo è proporzionale alla violenza dell'élite politica ed economica. Credo che il sesso, le droghe e la criminalità siano modi perfettamente legittimi di stare in vita se vieni trattato come un'entità di nessun conto. Il modo più autentico di condividere il tempo con i miei soggetti è quello di andare oltre la simpatia e l'empatia. Non voglio capire le persone che fotografo. Voglio essere con loro, dentro di loro. Non voglio vedere il dolore, voglio sentirlo. La solidarietà deve passare attraverso la carne. Le parole e i pensieri non valgono molto. Aiutano solo a identificare la natura del divario tra me e l'altro. L'esperienza comunitaria di sesso e droghe mi aiuta ad annullare il divario. Le prostitute e i drogati resistono all'oppressione economica e all'alienazione sociale con i propri corpi, con il proprio destino. La violenza è parte del processo; è parte di quel mondo. La maggior parte delle persone che incontro ai margini delle città non avevano altra scelta e si sono adattate alle condizioni di una vita imposta loro.

Per quanto mi riguarda, nel mio caso è stato un processo più conscio, ma in fin dei conti abbiamo la stessa posizione nel mondo. Io ho imparato ad accettare meglio la scandalosa e legittima natura dell'estasi o della violenza. Ho imparato a tollerare il dolore fisico, nervoso, emozionale. Faccio quello che posso per continuare a essere vulnerabile. Faccio quello che posso per far sì che la paura non prenda mai il sopravvento sul desiderio, e il desiderio non prenda mai il sopravvento sulla compassione.

Da anni non ho una casa. È tutta la vita che ho abitudini nomadi. La mia Odissea personale non consiste nel tornare in alcuna casa mitica. A definire l'esistenza umana sono la paura di ciò che è sconosciuto, l'istinto di sopravvivenza, il muoversi verso il vuoto. Cerco di essere all'altezza, cerco di sopravvivere alle mie convinzioni, ai miei errori e dubbi.