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Música

I pupazzi ribelli del Rock

Il recente gesto di "rivolta" dei Green Day ci ha ricordato ancora una volta un concetto fondamentale: "Il rock è fatto da deficienti per il piacere di idioti.”

La musica a volte è una cosa davvero brutta. Il modo in cui è radicata nel tessuto sociale tende molto spesso a tirare fuori il peggio della gente. Per la musica ci si piglia a capocciate, e soprattutto ci si gonfia l’ego in maniera pesante e pallosa. Il fatto è che abbiamo inserito una forma di espressione capace di sfiorare contemporaneamente gli istinti più alti e bassi dell’uomo in un sistema capace di pervertirla e renderla contemporaneamente bottino di guerra, arma, e territorio di scontro. Un macello, in pratica. Una guerra che si combatte su tanti fronti. Primo fra tutti quello sul quale si decide chi è il più ridicolo e chi invece, caso raro, può ancora vantare integrità artistica dopo essere passato attraverso decenni di monnezza. Queste amare lagne me le ha ispirate, e mi servono a introdurre, l’ultima cagata in ordine di tempo compiuta sul palco da una rockstar incazzata. Non serve nemmeno che vi spieghi cos’è successo, l’avete già visto tutti Billie Joe Armstrong dei Green Day che si incazza come una iena al momento di chiudere il set della sua band sul palco dell’IHeartRadio festival. In un gesto di riottosità elettrica, ha mandato tutti affanculo perché un solo minuto in più di set non era sicuramente abbastanza per concludere in bellezza l’esibizione. Probabilmente a qualcuno di più commerciale avrebbero dato il permesso di sforare coi tempi, ma ai Green Day no, perché sono un gruppo scomodo che fa musica rumorosa e pericolosa. Punk, capito? Allora mi incazzo, spacco la chitarra e dico un botto di fuck.

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Ecco, direi che c’è da scervellarsi su quale sia l’aspetto più ridicolo di tutta la faccenda. Anche tralasciando tutte le disquisizioni semantiche, estetiche e politiche sulla parola punk che, ancora, nel 2012 viene associata ai Green Day. Il fatto è che episodi del genere sono tutt'altro che nuovi. Anzi, rientrano perfettamente in quello che ci si aspetta da una band del genere ma non perché si tratta di riottosi rocker pieni zeppi di sentimenti veri, tutt’altro. Stiamo parlando dei Green Day, e mi sembra quasi superfluo starvi a ricordare che si tratta di gente che ha fatto soldi a palate con canzoni catchy per adolescenti, che non ha mai disdegnato nessun aspetto del sistema musicale, dalle major a mtv alla partecipazione, appunto, a festival pop-mainstream come l’IHeartRadio. Insomma, giocano e hanno giocato nella stessa divisione di tutti i Justin Bieber della storia. Fin qui cazzi loro, senza dubbio. Però ecco, a tentare di ricordare a uno solo di questi tanti ex-giovani con la chitarra arrivati in cima allo stardom che i fatti stanno così, si rischia che l’interessato/a ti metta le mani addosso. Per capire meglio, mi pare il caso di analizzare attentamente una parte del gesto compiuto da Billie Joe: alla fine del suo sclero piglia la chitarra e, non senza fatica, la spacca per terra fino a lasciarla lì in due pezzi (a onor del vero anche il bassista Mike Dirnt ha fatto altrettanto, ma lui non lo inquadrano perché è brutto). L’atto di spaccare tutto alla fine di un concerto, storicamente, risale agli Who, inventato dal chitarrista Pete Townshend per cercare di capitalizzare su un incidente di percorso, e da lì ripetuto quasi ogni giorno della sua vita. Altro demolitore di chitarre fu Jimi Hendrix, che in maniera quasi religiosa arrivava fino a incendiarle.

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Però a me quel gesto fa venire in mente più un altra epoca rispetto agli anni Sessanta. Sto parlando dell’epoca a cui di fatto appartengono i Green Day, gli anni Novanta. Vent’anni fa, infatti, la moda di sfondare strumenti e amplificazione era al suo massimo storico. Campioni assoluti erano i Nirvana, che spessissimo riuscivano pure a farsi male come degli scemi; seguono a ruota Nine Inch Nails e Smashing Pumpkins. Più tardi arriverà sul podio anche Marilyn Manson. In sé, il gesto di fare gratuitamente a pezzi strumentazione da migliaia di euro rappresenta in tutto e per tutto la contraddizione di quegli anni: andava di moda il rock, in particolare quella cosa informe che qualcuno ancora chiama “grunge”, e le multinazionali discografiche giocavano a pescare col retino dalla scena indipendente per offrire contratti milionari a brillanti sfigati con le pezze al culo.

Allo stesso tempo, però, avevano imparato dagli anni Ottanta che un botto effimero è decisamente più redditizio di una carriera fatta di ascese e declini, atteggiamento che alla lunga si tradusse in un'ecatombe di band scaricate nella piazzola di sosta. Si trattava, comunque, per lo più di artisti che qualcosa di autentico da esprimere ce l’hanno avuto. Magari poco e poco a lungo, ok, però ce l’hanno avuto. Erano incazzati. Contemporaneamente avevano un pacco di soldi messi a disposizione dalla label di turno, per cui quale miglior modo di esprimere il dolore che spezzando in due una Les Paul da tremila dollari? Tanto ne ho altre venti nel camion. Personalmente credo che la tomba di questo comportamento da cattivoni l’abbia scavata Brian Molko quando ha sfasciato il suo set sul palco di Sanremo, durante un playback. Dopo di quello hanno iniziato a farlo anche gli 883.

Gli anni Novanta, appunto. Non è per niente un caso che i più accaniti difensori dello status “alto” della musica rock rispetto al pop plastificato siano patetici rimasugli di quegli anni lì. Un altro Billy, ad esempio: Billy Corgan, sono anni che ci scuce la sacca maronaica su quanto la gente non ascolti più la "musica vera". Altrettanto storiche sono le lagne di quel troglodita di Dave Grohl. Da un certo punto di vista ci si sentirebbe in dovere di zittire questi signori, ricordare loro che, appunto, fanno parte dello stesso gioco milionario delle (furono) boyband e (oggi) Justin Bieber. Però no, dai, è proprio quello di cui hanno bisogno per continuare a stare a galla, per giustificare la loro presenza nel mondo del pop. Sono gente del ROCK, suonano le chitarre e le sfasciano, si incazzano e litigano, e i pochi che ancora ci credono o semplicemente ancora apprezzano, non vogliono altro. Sarebbe ben ovvio rimarcare come anni e anni di questa roba abbiano svuotato un genere e una cultura di tutto quanto c’era di autentico in essa, non trovate? Il conflitto macchiettistico della musica “vera” contro quella “commerciale” continuerà—non so quanto a lungo ancora, ma tant’è—ad autoalimentarsi. Dipende tutto ancora da quei vecchi cliché: la chitarra, i capelli colorati, i jeans, i tatuaggi. Innovare non solo non è possibile ma nemmeno auspicabile, e niente importa che l’autenticità non sia effettivamente più di casa da tanto tempo. Chi ha di queste preoccupazioni, di solito, guarda direttamente altrove. Al limite certe scenette strappano un mezzo sorriso. L’epilogo di questa buffa faccenda dei Green Day conferma i fatti. Il frontman sarebbe stato ricoverato ieri per disintossicarsi da non si sa bene cosa. C’è tutto: la rabbia, la violenza, la droga. Ci manca il sesso, ma quello è assente già da un bel po’. Ecco, quindi, che il padre di famiglia Billie Joe Armstrong si ritrasforma in ragazzo cattivo della musica, incendiando la promozione di un album che altrimenti non si sarebbe inculato nessuno.
La musica è brutta, dicevo. Bruttissima. Ma non perché suona male, e nemmeno perché i chitarristi tendono a smontare il loro attrezzo all’attaccatura del manico, quanto perché poi va a finire che il “pubblico” si scanna e ammazza, sputandosi addosso veleno internettiano come se servisse a diecidere deifnitivamente se B.J. è una principessina viziata o un duro e puro che non si piega al business. Vorrei tanto evitare di fare lo snob per una volta, ma è sempre vero che, per citare Peter Bagge, “Il ‘rock’ è fatto da deficienti per il piacere di idioti.”

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