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Il caso Cucchi dimostra che si può essere uccisi anche dopo la morte

Ho sempre considerato la morte di Stefano Cucchi come il caso di malapolizia per eccellenza. E la sentenza d'assoluzione per tutti gli imputati non fa che ricordarlo a tutti.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Ho sempre considerato la morte di Stefano Cucchi come il caso di malapolizia per eccellenza. E del resto non sono l'unico: a patto di non chiamarsi Carlo Giovanardi, chiunque sia minimamente informato su questa vicenda capisce che ci sono moltissime cose che non tornano.

Probabilmente è per questo motivo che la sentenza di appello che ha assolto i 12 imputati ha provocato un'ondata di indignazione collettiva, compresa, purtroppo, quella di alcuni commentatori e politici che da paladini di legge e ordine si sono improvvisamente trasformati in barricadieri dell'ACAB.

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Tuttavia, un simile esito ( in cui la verità processuale è lontana anni luce dalle foto del corpo martoriato di Cucchi che "parlano da sole") non è altro che la coda lunga di un abuso di potere portato avanti da un sistema che, di fatto, contempla un binario parallelo in cui non esistono tutele e diritti fondamentali.

La storia di Stefano Cucchi, infatti, è la storia dell'annientamento fisico e psicologico di un essere umano attraverso pestaggi, silenzi, omissioni, coperture e atrocità burocratiche degne di un regime sudamericano. Ossia di una lunga serie di fattori che, secondo la relazione ispettiva stesa nel 2009 dal magistrato Sebastiano Ardito, ha concorso a farlo morire "in modo disumano e degradante."

E su questo, nonostante la sentenza di assoluzione, ci sono pochi dubbi: come ha scritto il senatore Luigi Manconi, nella sua ultima settimana di vita Stefano Cucchi è stato ripetutamente "umiliato, spezzato, annichilito e messo in un angolo e abbandonato" dalle istituzioni e da una parte dell'opinione pubblica.

Il calvario di Stefano Cucchi, che in sette giorni ha attraversato dodici luoghi diverse tra caserme, celle e stanze di pronto soccorso, inizia la sera del 15 ottobre 2009, quando il 31enne romano viene fermato per strada dai carabinieri e trovato in possesso di erba e cocaina.

Il primo errore nella vicenda è contenuto nel verbale d'arresto dei militari, in cui Cucchi viene descritto come un soggetto "nato in Albania" e "senza fissa dimora," nonostante la sua abitazione fosse stata appena perquisita alla presenza sua e dei genitori. La "svista" dei carabinieri ha subito una conseguenza nefasta, dato che il giudice nega i domiciliari proprio per la "mancanza di una fissa dimora."

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Il giorno dopo Cucchi viene portato nel tribunale di Roma per l'udienza di convalida dell'arresto e rinchiuso in una cella di sicurezza. Qui, almeno stando all'accusa, Cucchi sarebbe stato pestato dagli agenti della penitenziaria. Durante l'udienza il padre, Giovanni Cucchi, nota uno strano "gonfiore" che la sera prima non c'era. Questa "stranezza" verrà in seguito accertata prima dai sanitari del Regina Coeli e poi dai medici del Fatebenefratelli, che riscontrano due vertebre fratturate.

Il gip e il pm, tuttavia, nel corso dell'udienza non si accorgono di nulla; anzi, non guardano neppure in faccia Cucchi. Questo episodio, come ha affermato l'avvocato della famiglia Cucchi Fabio Anselmo nel libro Il partito della polizia,"è una delle cose che mi sconvolge di più della vicenda Cucchi. È mai possibile che la giustizia non guardi neppure in faccia le persone che in quel momento non solo deve giudicare ma che le vengono affidate e quindi dovrebbe tutelare?"

L'avvocato Fabio Anselmo a Ferrara.

Dopo le botte, per Cucchi inizia una spola tra il carcere di Regina Coeli, l'ospedale e il reparto penitenziario del Pertini, dove le sue condizioni di salute precipitano giorno dopo giorno.

In tutto questo, ai genitori viene impedito di incontrare il figlio (il permesso arriva solo il giorno della morte), e Cucchi inspiegabilmente non riesce a parlare né con il suo avvocato, né con un assistente del centro di recupero che aveva frequentato in passato.

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Stefano Cucchi muore nelle prime ore del 22 ottobre, e il suo corpo viene trovato già rigido alle 6 di mattina. Ma in realtà, come ha detto la madre, Stefano Cucchi è morto, o è stato fatto morire, più volte nel corso di questi cinque anni.

In un intervento radiofonico di cinque anni fa, Giovanardi arrivò a dire che Cucchi era finito in carcere perché "era uno spacciatore abituale," e che più in generale era semplicemente uno scarto della società (un "anoressico," "tossicodipendente" e "sieropositivo") che si era lasciato "devastare dalla droga" fino a diventare una "larva" e uno "zombie."

Giovanardi (che ha sempre ripetuto quelle argomentazioni come un mantra) non è stato l'unico a tirare in ballo lo stile di vita di Cucchi, vero o presunto che fosse, come unica causa della morte.

Dopo la sentenza di appello, il segretario del Coisp (lo stesso che l'anno scorso ha manifestato sotto l'ufficio della madre di Aldrovandi) ha dichiarato i poliziotti sono solamente dei "capri espiatori" e che "se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure" si dovrebbe guardare "prima di tutto altrove, magari in famiglia."

Sull'assoluzione è intervenuto anche un altro sindacato di polizia, il Sap, che pochi giorni fa aveva detto che "le parole spesso fanno più danni più delle manganellate" per giustificare le violente cariche agli operai dell'Ast di Terni.

Foto di Federico Tribbioli.

In un nota diramata subito dopo il verdetto, il segretario Gianni Tonelli si è rallegrato del verdetto d'appello e ha affermato che "bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato la responsabilità […] di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la sua condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze."

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Non soddisfatto di questo comunicato, ieri Tonelli ha rincarato la dose dicendo che Cucchi non solo non è stato pestato da nessuno, ma che al massimo "può essersi battuto la testa sulle sbarre da solo."

Queste dichiarazioni sono spesso e volentieri liquidate come semplici "provocazioni" di poliziotti politicizzati e un po' mattacchioni, ma tutto sommato innocui perché non contano un granché. Quello che in pochi fanno notare è che il Sap ha più di 18mila iscritti, e il Coisp circa 7mila. Questo vuol dire che, su un totale di circa 90mila poliziotti iscritti a un sindacato, quasi 1/3 si riconosce potenzialmente in posizioni del genere.

Ad ogni modo, il gettare fango sulla vittima si tratta di una procedura ormai collaudata in questi casi di malapolizia. Luigi Manconi lo definisce il meccanismo della "doppia morte," ossia quando la morte fisica "viene seguita da un processo di degradazione dell'identità della vittima, un linciaggio della sua biografia."

Un caso piuttosto eclatante di questa "doppia morte" è quello di Dino Budroni, ucciso il 30 luglio 2011 in circostanze poco chiare da un poliziotto al termine di un lungo inseguimento sul Grande Raccordo Anulare. Dopo tre anni di indagine, il pubblico ministero aveva chiesto una pena di due anni anni e sei mesi per omicidio colposo, ma questa estate il tribunale (con una sentenza di undici pagine di motivazione) ha assolto l'agente per "uso legittimo della forza."

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A differenza della vicenda Cucchi, però, nella vicenda Budroni c'è almeno un colpevole: Budroni stesso. Nel luglio del 2013, nonostante fosse morto da due anni, Budroni è stato condannato a due anni e un mese di reclusione per "rapina e detenzione illegale di armi" per fatti risalenti al 2010. Nel marzo del 2014 il defunto Budroni si è beccato pure una seconda condanna: un'ammenda di 150 euro perché in casa aveva armi (una carabina ad aria compressa e una balestra) non denunciate.

Recentemente, inoltre, un altro presunto caso di malapolizia è arrivato a sentenza: quello di Michele Ferrulli, un 51enne morto nella periferia di Milano durante un fermo effettuato da quattro agenti di polizia dopo la segnalazione di "schiamazzi" notturni. Anche questa volta tutti gli imputati sono stati assolti in primo grado, a fronte di una richiesta della Procura di sette anni di carcere per omicidio preterintenzionale.

Nelle motivazioni della sentenza si legge che i "colpi" sferrati dagli agenti a Ferrulli si erano resi necessari per "vincere la [sua] resistenza all'arresto," e che l'uomo è stato colto da una "tempesta emotiva" che ne ha causato l'arresto cardiaco.

I giudici di primo grado hanno anche pesantemente criticato la Procura, dicendo che il pm ha seguito la "vox populi" che parlava di un uomo "ammazzato di botte," e hanno puntato il dito contro l'"atteggiamento" di Domenica Ferrulli (figlia di Michele), accusata di essere responsabile del "condizionamento negativo" di alcuni testimoni.

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Fondamentalmente, comunque, questa strategia punta sia alla creazione di un clima particolarmente pesante, sia alla pressione mediatica sui processi, che restano difficilissimi a livello probatorio (le indagini iniziali, quelle decisive, sono svolte spesso e volentieri dai colleghi degli imputati).

L'accertamento della responsabilità, già complicato di per sé, è aggravato anche dal comportamento della politica, che da un lato offre copertura agli abusi negandone sistematicamente l'esistenza, e dall'altro si trincera dietro il silenzio (il governo Renzi non ha niente da dire sul caso Cucchi?) per non alienare il consenso delle forze dell'ordine.

Tanto per fare un esempio, in 25 anni (nonostante il G8, la Diaz e Bolzaneto) il Parlamento non è mai lontamente riuscito a introdurre il reato di tortura, e la legge che è in discussione ora alla Camera è tutt'altro che perfetta.

Tuttavia, a mio avviso l'aspetto peggiore del meccanismo di rimozione dei casi di malapolizia è il tentativo, spesso riuscito, di eliminare alla radice la possibilità che l'opinione pubblica possa immedesimarsi nella vittima.

Secondo l'avvocato Anselmo, questa linea "trova terreno fertile in una massa che deve e vuole avere fiducia nelle forze dell'ordine e allo stesso tempo ha bisogno di differenziarsi dalla vittima. Perché se ci si accorge che sono come noi allora può subentrare il panico."

Tanto, questo è il ragionamento di base, la gente normale non si droga come Cucchi, non fa casino come Ferrulli, e non torna a casa alle cinque del mattino come Aldrovandi. Non se la va a cercare, insomma, e quindi non ha nulla di cui aver paura.

Peccato che siano propri i casi di abuso come quello di Stefano Cucchi, in cui una persona viene distrutta senza che si riescano a trovare i colpevoli, a essere decisamente più terrorizzanti del disturbo del quieto vivere.

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