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A8N9: La strana scienza

Chissenefrega dei discorsi esistenziali: intervista a Giuseppe Lippi

Intervista al direttore di Urania, la collana che ha insegnato la fantascienza agli italiani.
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Foto di Paul Herbst.

Aggiornamento del 15 dicembre 2018: Giuseppe Lippi, conosciuto soprattutto per il suo ruolo alla guida della collana di fantascienza Urania, è scomparso questa notte. Vogliamo ricordarlo attraverso questa intervista, realizzata nel 2012.

Si ringrazia Fabio Massimo Manini della Fondazione Rosellini, Roberto Corso, Stefania Guglielman e il forum Urania Mania.

Dice che non è un caso se il primo titolo Urania è uscito nove mesi prima di lui. Nel senso che lei, l’Urania, si è presentata al pubblico nell’ottobre 1952, mentre lui, Giuseppe Lippi, è nato nel luglio 1953. Nove mesi d’intervallo come quando si aspetta un bambino. Lippi, da improbabile-figlio-del-destino, è diventato con il tempo amorevole padre della collana Mondadori che negli ultimi sessant’anni ha insegnato la fantascienza agli italiani. So che sembra una frase fatta, tipo quando si dice che Mike Bongiorno ha insegnato la lingua ai nonni, ma qui è vero: a parte gli inevitabili Dick, Ballard, Asimov, Sheckley, Matheson, Clarke, Zelazny, sotto il marchio Urania sono state stampate grandi pagine di Dean Koontz, Douglas Adams e pure di Lafayette Ronald “Ron” Hubbard (che ormai non possiamo evitare di considerare, semplicemente, uno dei più folli artisti del secolo passato). Fin qui, si potrebbe obiettare, siamo dalle parti dell’ordinaria amministrazione: una bella collana di fantascienza è roba che avrebbero potuto fare anche altri. Ma c’è qualcosa che porta Urania sopra le nuvole, dalle parti del paradiso dell’editoria (che non è comunque un granché, come posto). Le copertine illustrate: all’inizio da Curt Caesar e Carlo Jacono—in libera uscita dai gialli—poi soprattutto da Karel Thole e, nell’ultimo decennio, Franco Brambilla. Tutti disegnatori terribilmente perfetti, ognuno a rappresentare lo stile di un’epoca.
Dentro e fuori, insomma, Urania è rimasta consistente nel corso degli anni. Qui si pone il dilemma: o hanno avuto un gran culo, o grandi editor. Io propendo per la seconda. Giuseppe Lippi è il curatore della collana dal 1990, il quarto in sessant’anni a fare questo mestiere: si avvia a eguagliare il record di longevità di Fruttero & Lucentini, che hanno occupato il posto per circa venticinque anni. Basta questo a renderlo praticamente la più importante autorità italiana sul tema fantascienza. In realtà poi ne sa moltissimo anche di Lovecraft, Kubrick e un sacco di altre cose e persone e artisti di cui non si parla nell’intervista qui sotto. Ah, sembra pure un tipo sincero. Oppure finge davvero bene.

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VICE: Mi piace molto questo fatto che tu per vivere curi la più importante collana di fantascienza della storia dell’editoria italiana, però dici spesso cose tipo: “La fantascienza è in salute per quanto riguarda le arti visive, ma per quanto riguarda la letteratura, un po’ meno.” Sincero. Ma così non difendi proprio la tua posizione.
Giuseppe Lippi: Eh, ma cosa dovrei dire? È un dato di fatto che la fantascienza letteraria abbia perso colpi sul mercato, e mica solo in Italia. Anche nell’Europa del nord, per esempio. In Svezia non esistono più collane di fantascienza. Non che abbiano smesso di pubblicare romanzi di genere, solo non esistono più spazi dedicati. Anche in Italia, dove resistono Urania e qualche altra collana, la situazione è comunque imparagonabile anche solo a quella di vent’anni fa, quando la proposta era molto più varia sia in edicola che in libreria, e soprattutto la fantascienza letteraria aveva una ricaduta culturale molto più rilevante: se ne interessavano i giornali, si leggevano un sacco di recensioni. Adesso molte delle case editrici storiche o non esistono più o hanno cambiato faccia, come la Nord che oggi pubblica soprattutto thriller fantastici o fantasy, o Fanucci che è diventato un editore generalista.

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Probabile che la spiegazione più semplice sia vera: la fantascienza non è più cool. Nel senso che si pubblicano romanzi di medio successo che hanno chiare aderenze al genere fantascientifico, ma non sono etichettati come fantascienza. Cormac McCarthy, Ernest Cline, potremmo mettere in mezzo anche Murakami.
Ovvio che la gente segue le tendenze, e forse dal punto di vista culturale oggi le tendenze sono più forti che un tempo, ma chi legge fantascienza di solito non è interessato alle classifiche e spesso nemmeno al nome dell’autore. È uno che vuole leggere quel genere di racconto, quel tipo di storia fantastica. Molti autori che possiamo considerare parte del mainstream letterario hanno adottato tematiche fantascientifiche, ma chiaramente non è la stessa cosa: La strada di McCarthy che dicevi tu—un romanzo che ha avuto un impatto culturale, che ha venduto in libreria, che è diventato un film—è solo in parte fantascienza, no? Poi intendiamoci, io sono contento che esista questa produzione che attinge a piene mani dalla fantascienza.

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Immagino.
Però il romanzo di fantascienza classico, un po’ come il giallo classico, portava a compimento un’operazione di scarnificazione: si liberava di tutto ciò che era superfluo, sia detto con molte virgolette, come prolungate descrizioni psicologiche dei personaggi, degli ambienti, riflessioni filosofiche o parafilosofiche, e ti metteva davanti al problema. Una bella incognita al centro, che fosse scientifica o, nel caso del giallo, poliziesca. Bisognava confrontarsi con quel problema, ovviamente attraverso un gioco di incastri e di specchi magari anche molto intricato, ma quello era il nocciolo della questione. Per questo anche, che ne so, Ammaniti può anche fare un romanzo a sfondo fantascientifico, ma non sarà mai un romanzo di Asimov.

Su questo siamo d’accordo, direi…
Sì, ma nel senso che l’autore letterario mainstream pesca il materiale e lo ricombina liberamente secondo le tendenze, le sue tendenze. L’autore di genere fa un’altra scelta, ha come una precisa volontà di mettere l’operazione fantastica al centro della narrazione, spogliata del resto, spesso usando— non sempre, sia chiaro—uno stile apparentemente dimesso. O forse sarebbe meglio dire aveva, visto che oggi vengono scritti, pubblicati e pure premiati racconti che potrebbero essere considerati più mainstream.

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Che poi si potrebbe discutere su cosa significhi “mainstream” nel 2012.
In realtà io per mainstream intendo quella letteratura più o meno contemporanea che fondamentalmente ci scoccia con problemi esistenziali, con personaggi rattrappiti su se stessi e sulle loro considerazioni più o meno eloquenti di natura psico-sociale. Ma chi se ne frega di questi discorsi? Il discorso della fantascienza era un altro, e noi oggi rischiamo di perderlo. Però non è che il racconto di genere fosse meno ombelicale. Magari in maniera diversa, ma lo era comunque.
No, era anche ombelicale, a volte decisamente ombelicale. Però era strano, come se il parto avesse generato invece di un bambino un bambolotto, che ombelico non ha. Ora, questo potrebbe portare a fare della facile ironia sul fatto che sia meglio un bambino di un bambolotto. Ma credo che un bambolotto abbia i suoi pregi estetici, tanto quanto un essere vivente ha i suoi pregi biologici. Non facciamo del moralismo su questo. Credo di avere capito il discorso, che però mi suona vagamente integralista: questa ricerca della forma pura del racconto, del nocciolo fantascientifico… Oddio, in fondo è anche normale. Tutti gli appassionati di qualsiasi cosa sono un po’ integralisti.
Certo, anche io lo sono. Ma solo se per integralismo si intende rigore estetico, amore per una forma narrativa. Mica integralismo spurio, di quelli che vogliono leggere oggi le stesse cose che leggevano quarant’anni fa. Voglio dire, anche Borges rifiutava il giallo all’americana perché gli sembrava poco rigoroso e difendeva quello inglese che riteneva più interessante. Qui non si tratta di grandi dispute teoriche, di questioni generazionali, ma di semplice gusto letterario personale. Se uno cerca una particolare qualità nei libri che legge, credo sia suo diritto farlo. Per tornare al discorso dell’eccesso di autobiografismo nei libri che leggiamo oggi, credo sia una malattia dovuta a diversi fattori, non ultimo l’enorme mole di libri che viene pubblicata ogni giorno, da chiunque. Ma il punto non è che gli scrittori non debbano ripensare anche a se stessi, anzi. L’unico problema è come farlo: puoi raccontare una storia che sembra oggettiva, senza fronzoli, tutta plot e nient’altro, e in realtà nasconde la tua esperienza e la tua sensibilità. Parlando molto in generale, gli argomenti della letteratura sono sempre gli stessi, poi tutto dipende dal taglio, dall’angolazione che scegli per guardare al mondo e al romanzo.

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Ok, torniamo alla roba concreta, al mercato. Dicevi che c’è crisi, ok. Magari si potrebbe provare a esplorare nuovi mondi, nel senso proprio geografico: tipo, io ho letto fantastica fantascienza giapponese a fumetti, ma di letteratura non so niente. Magari ci sono cose splendide.
Sarebbe giusto guardare oltre l’area anglosassone, perché ad esempio i paesi orientali hanno una bella tradizione sul genere. Per dire, in Giappone c’erano pubblicazioni specializzate anche prima della seconda guerra mondiale. Solo che gli esperimenti fatti finora non sono andati tanto bene dal punto di vista editoriale. Io stesso ho curato un’antologia di fantascienza cinese che ha venduto pochissimo. Però c’è roba molto interessante in giro, in Giappone, in Russia…

Negli anni Settanta, quando hai iniziato a lavorare con la fantascienza, non c’era crisi, anzi: il genere attraversava un bel momento. C’erano un sacco di riviste stupende, tipo la tua, Robot.
Inizio col dirti una cosa che mi fa sempre strano: tutti si ricordano di Robot, e quasi nessuno di tutte le altre bellissime riviste dello stesso periodo o del decennio precedente, tipo Gamma. Lì forse dipende dal fatto che Gamma era degli anni Sessanta, decade che in Italia non è di culto come i Settanta… Comunque, Robot aveva stampato il primo numero nel 1976 e effettivamente aveva un’impostazione che per i tempi era fresca e interessante: racconti brevi e non romanzi, molta saggistica e soprattutto molte illustrazioni. Il direttore, Vittorio Curtoni, parlava con i lettori non con modalità da rivista letteraria, ma con familiarità, come Stephen King nelle introduzioni ai suoi romanzi. Parlavamo di cinema e di fumetti… e si trattava di una rivista molto, come dire, opinionata: avevamo idee precise non solo sulla fantascienza, ma sulla politica, sull’esistenza. Si rivolgeva a lettori che volevano vedere il genere che si rinnovava, che esplodeva come una nova. Era quello che interessava a Robot: l’esplosione alla fine di un ciclo di vita. Un discorso a tratti violento, dirompente. Era una rivista di fantascienza di sinistra.
Sì, infatti poi fra i lettori dell’epoca c’era anche gente tipo quella del collettivo Un’ambigua Utopia, che partiva proprio dalla fantascienza per leggerla in chiave politica, pubblicava anche una rivista. Robot non era apertamente schierata fino a quel punto, ma era facile capirne la posizione politica. Non credo però sia stato questo il motivo per cui Robot viene ricordata. Se Robot viene ricordata, se Robot in realtà esiste ancora [ solo in libreria, tre numeri all’anno pubblicati da Delos Books] è perché ha rappresentato un modello di rivista insostituibile per un certo tipo di lettore.

Quando hai cominciato con la collana Urania, era la fine degli anni Ottanta. Quindi sei venuto, come curatore, dopo Fruttero & Lucentini e dopo Gianni Montanari. Si citano sempre i primi due, e molto raramente il secondo…
No, il lavoro di Montanari è stato molto importante. Rappresentava l’ortodossia fantascientifica, ma dall’altra parte aveva una personalità aperta e fu capace di mettere ordine all’interno della collana. Lui era la persona giusta per interrompere il ciclo lungo, forse troppo lungo, della gestione Fruttero & Lucentini: loro erano stati molto inventivi all’inizio, e per un periodo non breve, anzi per i primi dieci anni hanno fatto fuochi d’artificio continui. Poi però si erano un po’ sclerotizzati.

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Dopo i fuochi d’artificio che dicevi tu e dopo sessant’anni di Urania, siamo qui a parlare di appannamento della fantascienza in letteratura. Forse non è poi così male: altri generi non sono durati tanto. E sono morti, mica solo un po’ appannati. E poi, l’appannamento è giustificato: non sarà anche—vorrei trovare un modo meno idiota di dirlo, ma non mi viene in mente—che il futuro non è più quello di una volta?
Sì, lo spirito dei tempi… Chiaro che il futuro per noi non rappresenta più quel traguardo che poteva rappresentare per gli uomini degli anni Cinquanta e Sessanta. Quelli pensavano di costruire il futuro che oggi noi stiamo vivendo, oggi non sappiamo cosa stiamo costruendo. Ma vorrei concentrarmi su fatti più concreti. C’è un problema di struttura dell’industria culturale: in passato i veicoli per la narrativa di fantascienza erano numerosi e rigogliosi, eravamo negli anni d’oro della stampa periodica, anche della stampa libraria economica, e il pubblico di massa in cerca di evasione convergeva verso il libro. Oggi il pubblico trova narrativa popolare, fuga, intrattenimento anche di alta qualità, in altre forme: visive più che letterarie, come dicevamo all’inizio. La fantascienza e il giallo erano figli di un’editoria popolare capillare, molto presente sul mercato, che non esiste più. Oggi appaiono più appetibili romanzi che affondano le radici in misteri e complotti sepolti nel passato, piuttosto che romanzi che raccontino il futuro. La letteratura popolare ci parla delle profezie dei Maya sulla fine del mondo. Ma in realtà, quella, sembra sia già arrivata.

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