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A8N6: Il sesto annuale di narrativa

Class

Estratti dal romanzo in lavorazione di Francesco Pacifico.

Foto di Lele Saveri

Appunti di James Murphy, premio Pulitzer per The Rockwells, su Nicola Morelli Berengo, italiano, mantenuto dai genitori, residente nel Theatre District, Manhattan, New York.

LOTTA DI CLASSE.

Il parere di Daria, mi ha detto Berengo, è che lui, Berengo, sia un philosophe e un riformatore della borghesia, l’unico borghese medio-alto di sinistra che Daria conosca ad aver superato l’equivoco della “realizzazione personale”. Secondo Berengo, per cui il giudizio di Daria conta molto, Daria, che è marxista, ama che lui abbia accettato apertamente di trovarsi dalla parte sbagliata della lotta di classe.

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Berengo accetta per esempio che l’usher latino del suo palazzo non lo saluti e lo guardi storto quando rincasa. Il palazzo, un grattacielo anni Novanta color nocciola dall’odore pesante d’interni moquettati, ha un’intera squadra di portieri e uscieri: secondo Berengo, solo i più giovani lo salutano, i ventenni che lavorano la notte, probabilmente studenti universitari. Quelli di mezza età, o della sua età, appena sotto la quarantina, lo guardano con lieve disprezzo sia quando lo accolgono seduti al concierge in fondo al corridoio di specchi, legno chiaro e moquette, sia in piedi a capo appena chino sulla porta di vetro all’entrata. In particolare, il latino brizzolato con il pizzetto rotondo e lo sguardo calcolatamente languido non lo saluta mai. Non deve avere più di quarant’anni, è perciò della stessa generazione. Saluta invece sempre le ospiti di Berengo—che entrano a casa la notte sottobbraccio all’italiano basso, asciutto e stempiato, il padroncino che non sembra avere un’occupazione dati gli orari che si permette—e anche in quelle circostanze non saluta Berengo.

“Lui deve odiarmi. Ha la mia età. Sarebbe intollerabile essere lui e non odiare me.” Alcune amiche ci scherzano su e gli dicono che una notte scapperanno con il latino (ma non lo fanno). Ci scherzano perché Berengo fa sempre notare come l’usciere non lo saluti. “È vero: ti odia. A me fa bei sorrisi,” dicono loro.

Nico viene da una famiglia democratica liberale “dde sinistra”, come dice lui in italiano con accento romano che pare alludere al carattere bonario, facilone, viziato e illuso dei progressisti romani benestanti. È stato allenato fin dall’infanzia alla buona educazione nei confronti di tutte le classi sociali = di quelle inferiori. Perciò i primi tempi, a New York, salutava sempre uscieri e portieri. Ha però scoperto che loro consideravano un disturbo dover rispondere al suo saluto. Il capo dei portieri, un uomo dai capelli bianchi e gli occhi chiari, bello, con accento da italiano o ebreo locale, Bob, sempre seduto composto, ama guardarlo con aria da Buddha e non salutarlo, cosa che Berengo continua a trovare impossibile dopo anni, e da tempo non lo guarda più in faccia. Anzi, dice, a volte lo guarda in faccia, e spera in un suo sorriso come fosse un suo spasimante.

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Quando c’è un pacco per Nico, Bob prima lo lascia passare, poi appena se lo trova di sguincio, avviato alla zona ascensori, lo chiama: “Berengo? 8-D? A package for you.” Berengo dice che sapere che un uomo che non lo saluta mai conosca il suo nome lo riempie di turbamento. Il sovrapporsi dell’improvviso riconoscimento nominale all’innaturale estraneità del saluto negato è un piccolo incubo ricorrente della sua vita newyorkese. “È un’umiliazione dover ricevere da mani simili i miei acquisti: i pantaloni nuovi, le giacchette, i pacchi di fumetti, i poster. La vergogna.”

Berengo è sicuro che ci sia malizia nell’intera squadra di portieri e che fra loro commentino le sue reazioni, preferendole a tutte quelle delle decine e decine di inquilini americani e stranieri del grattacielo dietro Times Square. “Questa malizia è un’arma lecita per la lotta di classe,” mi dice Berengo. E anche: “Il latino odia che io porti a casa donne diverse. Lo so. Ci sta. Lui ha l’aria di uno che ama le donne. Io ho questo privilegio, di portarle a casa: non posso anche avere la sua simpatia.”

"CORTE AMOROSA".

Così Berengo definisce il suo giro di amanti e amiche. Sembra nel complesso una persona amata, di cui gli altri hanno cura. Non sembra cinico, né un nichilista, ma non capisco come faccia a sopportarsi: è piacevole passare il tempo con lui, ma non tutto il tempo. E lui passa tutto il tempo con sé. Come fa?

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“Corte amorosa” non è una battuta = “ho un harem”: Nico si considera un idealista, vive ogni sua relazione in un preciso quadro filosofico che ha chiamato C.A. in onore del suo antecedente medievale. Come i nobili che si radunavano per comporre e recitare poesie d’amore e interrogarsi sul senso misterioso della passione, Berengo crede nell’incontro amoroso come esperienza composita: parte atto, parte conversazione sull’atto in corso o lì da venire, parte racconto ex post. Ogni storia è collegata alle altre, tutti partecipano all’esperienza collettiva della passione, le storie con alcune amanti sono raccontate ad altre amanti in un ciclo narrativo boccaccesco di cui Berengo va fiero. (Ma la sua amante principale, Daria, non viene mai informata delle altre esperienze. Questo è uno dei punti fondamentali a sfavore di Berengo, per quanto io mi stia impegnando a rispettare la sua richiesta di capire il senso profondo di quello che fa.)

LA VISTA DA CASA
(APPUNTI AUDIO PERSONALI DI BERENGO).

Di giorno: “Il grattacielo che stanno costruendo a duecentro metri dalla mia finestra, a ore 2, è arancione dentro, nelle parti in costruzione non ancora coperte di vetro scuro antracite, arancione dentro con file verticali di luci gialle. Antracite o, quando il sole è a est, un misterioso, mmm, turchese scurissimo. In cima, una torre con una lucetta rossa. 4 aerei e un elicottero nello stesso momento. Sotto di me, sul terrazzo grande del settimo piano, ogni due metri sui lati, luci calde, sui vasi. Di fronte a sinistra, il Belvedere Hotel: vecchio, marroncino, dieci piani. Poi l’hotel con simbolo “W” in cima: sulle finestre si riflettono lucine rosse gialle azzurre verdi, le pubblicità di Times Square. Passa un altro aereo da sud a nord. Un altro grattacielo ha 4 piccoli penthouse illuminati e come incastrati uno nell’altro tipo rompicapo, su due piani. Sul New Jersey, nuvolette. Un aereo altissimo. Quando non ci saranno più le rotte degli aerei ma solo i palazzi, come residuo dell’uomo, gusci abbandonati, l’umanità sarà ancora grande.”

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Di notte: “Percepire in uno sguardo solo le stanze illuminate di case e uffici: la visione iniziale di New York come città costruita su vari livelli. Ciò che emerge è lo sforzo colossale, dove però la vanità dello sforzo è la fonte della mia tenerezza per il panorama e per le piccole persone che lo abitano: perfetti modellini di esseri umani camminano sotto i neon negli uffici del NYTimes Building di Renzo Piano. Si vedono distintamente i neon sui soffitti degli uffici. E la torre è coperta dalle nuvole e in cima al pennone la lucetta rossa intermittente. Stanno passando a gran velocità nuvole grosse illuminatissime. Una sembra la Gran Bretagna.”

Di giorno: “Oggi mi sono di nuovo svegliato avendo l’impressione che ho spesso qui: siamo spiriti incarnati ed è assurdo sia il fatto che siamo incarnati sia il fatto che poi non lo saremo. […] Ho il desiderio tremendo che la vita dopo la morte sia assolutamente piacevole, un luogo dove desideri ed eventi coincidono sempre.”

Di notte: “È terribile che di colpo Michael Jackson non esista più. Spero si senta il rumore dei condizionatori, che è assolutamente il rumore dominante. Ora mi allontano dalla finestra. Non riesco a pensare al di fuori di un’idea di Dio la migliore possibile, la più piacevole, tutta esaurita nella speranza disperata che ti prende quando ti metti a pensare al fatto che effettivamente ci sarà un momento in cui dovrai staccarti dal corpo.”

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VERA.

Photoreporter, cittadinanza americana, padre israeliano, va nelle zone di guerra o dietro al traffico internazionale di droga. Una delle preferite di Berengo tra l’estate 2010 e l’inverno 2011.

(Il patto) Conosciuta a una cena di fotografi. Vera non cucinava, rimaneva seduta al tavolo, si comportava da uomo, seduta stravaccata, pigra, fumantina, non lesbica, lunghi capelli biondi crespi. Vestita in caffetano bianco! Poser? Un po’, anche se per Berengo erano poser tutti i fotoreporter presenti alla cena. Frasi da poser di Vera: “Yeah, dude, I mean I had to leave Los Angeles, they were spacing the whole time. I like the New York vibes more, you know.” Per tutta la cena, Vera risponde con sufficienza a Berengo e si mostra infastidita. Poi il giorno dopo gli scrive su Facebook che lo vuole vedere, lui accetta. Due passi a Greenpoint fra negozi e alberghi con nomi polacchi, al tramonto. Vera l’ha trovato molto gentile, dice, perché le ha rivolto domande personali. Lui obbietta che lei pareva non sopportarlo. Dopo un paio d’ore di conversazione, dopo che si è già sentito dire “You’re funny” e che i due sembrano ormai intimi amici, si trova a parlarle come per caso (ma in realtà con l’obiettivo di capire se Vera è il tipo di donna che può far parte della Corte Amorosa) delle proprie idiosincrasie sessuali: le parla con la sua voce informativa, non da corteggiamento, non da bullo, baritonale ma al tempo stesso leggera, finché non le dice: “Ormai sarà mezz’ora che trattengo a fatica la frase Sono qui per farmi abusare. Sono totalmente alla mercé del tuo potere psichico, ti trovo una donna gigantesca.” Vera è più alta di lui, e solida. “…E voglio che mi usi come vuoi, mi usi e poi mi butti via, ma resti mia amica.” Questo è il momento del “patto”, ossia il momento, che Berengo sistema attentamente al principio di ogni sua storia, in cui ritiene in buona fede di aver stipulato un patto che stabilisca i limiti del rapporto, il suo campo da gioco; di aver fatto capire i limiti del suo coinvolgimento, la grammatica dell’incontro. Succede, con alcune amanti, che dopo gli rinfaccino di tirarsi indietro, di non volere una storia con loro, oppure di essere troppo sicuro di ciò che vuole, di non sapersi lasciar andare. Al che Berengo ricorda loro la frase che per lui rappresentava la messa in chiaro. Nel caso di Vera: “Sono qui per farmi abusare / Sono totalmente alla mercé del tuo potere psichico.” È di regola una frase iperbolica che le donne rivelano poi, quando tempo dopo si ritrovano a parlarne apertamente, di aver considerato iperbolica, da prendersi in senso ampio, non letterale, anche se è effettivamente emblematica di come poi è andata in sostanza la relazione (in questo caso: gli abusi auspicati da Berengo si sono materializzati nell’abitudine a fare la lotta grecoromana, una passione di Vera, durante l’amore), e che magari nella sua buffa comicità è servita ad accelerare il processo, a spianare la strada, a rendere tutto un po’ comico e semplice da gestire. La frase che suggella il patto nella testa di Berengo, “Sono qui per farmi abusare,” seguita da, “sono totalmente alla mercé del tuo potere psichico e voglio che mi usi come vuoi, mi usi e poi mi butti via,” viene ricordata e fatta presente da Nico, mesi dopo, nel corso di una discussione scaturita da uno sfogo di Vera che persa la pazienza gli ha chiesto di suggerire una direzione di qualche tipo al loro rapporto: “Sì, ok, Nicolino, che ti devo dire, mi ricordo una cosa buffa che hai detto sul fatto che volevi che ti facessi del male, che ti dominassi, ma non era mica un pezzo di carta, è una singola cosa tra mille cazzate che dici ogni momento…”

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Comunque, per ora, nel gennaio del 2011, i rapporti sono ben attivi anche se conflittuali. Il conflitto viene spesso risolto con incontri improvvisi di lotta grecoromana sul pavimento, dove spesso vince Vera, molto forte, specie se arrabbiata. Nico è soffocato dai suoi capelli, dai muscoli di lei che gli si impilano addosso come tappeti (impolverati quando a terra Nico non ha passato l’aspirapolvere e i corpi nudi raccattano di tutto: capelli e cenere e briciole e caccole e frammenti di kleenex). Vera fa la lotta con Berengo perché è gelosa di una cuoca inglese che è un altro membro prominente della Corte Amorosa nell’inverno del 2011. Le volte in cui è Berengo a vincere, le si siede sulla faccia e se lo mena guardandola negli occhi. A volte ha paura, sentendo un’extrasistole, di non arrivare in fondo all’incontro. Quando le siede sul petto è felice e ha il fiatone. Cercando di respirare e calmare il respiro dopo la lotta qualche volta riesce a venirle sulla guancia: Vera ha la pelle molto sensibile e Berengo è felice di lasciarle la pelle arrossata almeno fino al mattino dopo.

(Corpo) Deforme: alta uno e 85, con seno come sgonfiato, che rimane in mano, seno con le rughe. Bel culo. Iniezioni annuali di botox sul viso. Poche rughe, espressività non ancora compromessa grazie ai grandi occhi azzurro scuro. Gambe lunghe, forti. “Pare come di infilarlo in una strada, o nel tronco di un albero. La verticalità predomina. La rotondità associata alla donna, all’uovo, all’utero, al bozzolo, si perde: con lei si entra in qualcosa di verticale, non di rotondo. Il che è reso ancora più assurdo dalle tette, che essendo come sgonfie e deperite, eliminano un altro elemento di rotondità. Sembra di farsi un uomo.” Presa da dietro, “la vedi muovere la schiena come la barra di ferro che spinge la ruota di un treno, la schiena più lunga che ho mai visto. Le tiro i capelli per tenerla vicina a me. Vista da dietro, inginocchiata, sta a una donna come una limousine sta a una berlina.” Vagina dura, anche se Berengo ammette di non averne un’idea precisa perché costretto al preservativo dall’inizio alla fine del rapporto. Vera ha molta paura delle malattie, non vuole sfioramenti genitali, fin dal primo incontro ha parlato di “mucose che si toccano.”

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(Mestiere) Oltre ai numerosi lavori di cameriera a Los Angeles, dagli zii, dopo il liceo, mentre i genitori litigavano troppo e lei si è trasferita lì, ha poi lavorato, sempre a Los Angeles, come stagista in un’agenzia per attori e poi è andata a passare un anno in un kibbutz in Israele, poi ha fatto giornalismo alla Columbia, è tornata nel kibbutz, è tornata alla Columbia a fare la grad school e ha cominciato a viaggiare con i soldi del padre per scrivere reportage non commissionati. Durante questi reportage è diventata fotografa, con successo. È insomma stata in guerra, e quando Berengo è con lei il suo pensiero fisso è: “Il fatto che Vera sia con me significa che quello che fa non conta nulla. Non puoi vedere la morte in faccia e poi scoparti me. Io sono la non verità, la non importanza. E non sono nemmeno tuo marito, nel qual caso capirei il tuo desiderio di domesticità rispetto alla vita avventurosa. Io sono la prova che Vera non impara niente dal suo lavoro, non vede la verità.” Forse, gli ho detto, lei vede in te un senso di morte molto vicino a quello che prova quando va in guerra. Berengo ha risposto: “Così stai proprio dando la lettura più lusinghiera. In realtà il mio problema è che io penso che quei fotografi siano dei poser. Tutta la loro vita sembra una posa. Hanno conversazioni in cui si chiamano fratello, sono premurosi gli uni con gli altri. Fanno queste cene stupende. C’è quello che cucina da dio e quello che fa così schifo in cucina che gli vogliono tutti bene. Si cena sempre al lume di candela. La gente è sempre appena tornata da una festa di Vanity Fair, cui non avevano voglia di andare, o da un block party di beneficienza ad Harlem. O dal Libano. Tornano dal Libano e dalle feste di Vanity Fair con lo stesso spirito: laggiù è un inferno. Le conversazioni non sono interessanti perché ciascuno di loro dice solo la cosa giusta. Sono intensi. Si abbronzano occupandosi di cose terribili. Si vestono bene. Sono affiatati. Il pane alle noci è gustoso. È fatto in casa. Poi, mentre stai lì a odiarli, all’improvviso telefona un loro amico, e senti la seguente scena: ‘Ehi, buddy, you dickless cunt’ dice Vera. Parla con uno dandogli del frocio, poi passa il telefono a un altro fotografo, che si mette a dire: ‘Ehi, sega, due mesi in ospedale a non fare un cazzo, non ti vergogni?’ Intanto gli altri si guardano tra loro e Vera ha gli occhi lucidi e l’espressione rabbiosa, e uno si alza e sparecchia la tavola portando via il tagliere con i formaggi, il tutto sempre a lume di candela, e al telefono si dice ancora: ‘No no, vengo io personalmente a infilartelo nel culo!’ Dopodiché attaccano il telefono e si scopre che era un amico loro che ha perso una gamba non so dove, zona di guerra, e ora gli hanno fatto più di trenta operazioni e gli hanno anche staccato un pezzo di pelle dal buco del culo per usarlo per tappare non so che buco nello stomaco o nella gamba, non ci ho capito niente. E loro per cameratismo si trattano così fra di loro, e piangono con il loro coraggio. Ma Vera scopa con me, il che vuol dire che tutto quel coraggio è una posa. Dovrebbe disprezzarmi. Insomma questi ti fanno pensare che Dio è un poser, perché permette a gente così affiatata e non personale di vedere la verità. La verità sarà rivelata ai poser. Con i loro raduni calorosi, la cena perfetta, la luce perfetta, il discorso perfetto su quanto è dura in definitiva stare al fronte, ma anche quanti ricordi. Allora mi resta solo la possibilità di pensare che se scopi con me allora forse sei solo una truffa. Cioè, scusa se insisto. Loro sono persone vere. Persone vere. Capisci cosa mi fa impazzire?”

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(Gusti) Vesti lunghe in casa (poi copiate e migliorate da Nat, un’altra della Corte Amorosa). Fuori, in città, abbigliamento pratico un po’ da lesbica ma costoso: quasi sempre porta addosso zainetto di sopravvivenza con coltello taglia-cintura di sicurezza bloccata e semi di zucca e felpa sottilissima e kway e torcia e assorbenti interni. Bicicletta costosa.

(Genitori) Madre upper west side, ebrea, solitaria, tre spaniel, varie associazioni filantropiche, si occupa anche dei fundraiser di Harper’s. Padre funzionario politico inquisito in Israele, ex Onu, genitori mai legalmente separati ma separati da due continenti, non si lasciano.

(Precauzioni) Bere Kombucha antiossidante; non far toccare mai le mucose della propria vagina al pene degli uomini, neanche per la strusciata che ora va di moda in America, quella da film porno, un po’ minacciosa, in cui lui fa sbattere il pene tipo sbeng contro la vagina, a mo’ di introduzione: quindi preservativi subito addosso, anche se non durante i pompini, il che significa che non ha un approccio interamente razionale.

TERRORI NOTTURNI.

Sono il motivo fondamentale dell’andirivieni di donne a casa di Berengo, che indispettisce l’usciere.

La notte si agita e fa certe esperienze come vedere nel sonno la vera faccia di suo padre. Dice di ritrovarsi davanti agli occhi della mente la faccia del padre—e, più raramente, della madre—e di capire che faccia ha come se lo incontrasse per la prima volta. Le rughe, la profondità delle guance, d’improvviso fatte come di gomma.

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Ogni tanto sogna i genitori e si sveglia piangendo. Sogna che “perdono le forze,” o muoiono, sogna di “capirli fino in fondo.” Allora si sveglia e rendendosi conto di piangere si dice di aver compiuto fino in fondo il proprio dovere di essere umano piangendo per la mortalità stessa, la mortalità degli altri, che “negli altri provoca sul fondo del cuore una malinconia che non ti comunicano quasi mai e che puoi capire soltanto nell’intimità che crei con loro in sogno.” Perché chiama “altri” i suoi genitori?

Questa tristezza non lo prende se dorme in compagnia. Addormentandosi tra le braccia di una donna, comincia a “sentirne la santità assoluta, la preziosità assoluta.” Sente “degli attacchi di tenerezza fortissimi non negativi.”

Quando cena da solo mangia troppo in fretta sul divano, troppo inclinato all’indietro, e oltre a sporcarsi magliette, maglioni e camicie ha paura di strozzarsi e morire lì da solo. I dolori allo sterno per aver mangiato in fretta gli mettono paura di morire. È sempre su Facebook, specie durante i pasti.

ACQUISTO DELLA CASA.

La casa è stata comprata nel 2008, e l’incontro decisivo per la firma è avvenuto fra due avvocati e i genitori di Berengo in un giorno d’autunno.

Il padre ha lasciato tre chiamate non risposte nel cellulare di Nicola (“non corrisposte”—unrequited, dice ironicamente Berengo riferendosi al romance che ha con suo padre). Nicola, a Roma, a casa sua al Pigneto, sta contemplando l’audio dell’intervista a Lenny Kravitz fatta il giorno prima per telefono, ora salvata su iTunes, e non ha alcuna voglia di mettersi a sbobinarla. L’iPhone (uno dei primi iPhone visti a Roma) aveva la suoneria bassa ed era sopra il portariviste accanto alla vasca da bagno. Quando, tornando al cesso perché lavorando a casa faceva pipì ogni mezz’ora (aveva un’incontinenza virtuale: non sapeva quasi più trattenere le funzioni corporali visto che non aveva mai motivo di farlo, che si trattasse di orinare, evacuare o sfogare l’eccitazione montata cercando notizie su Jessica Alba), ha trovato le tre chiamate del padre da New York e angosciatissimo aveva telefonato da Skype sul cellulare del padre, il padre ha risposto: “No, niente, non importa, ciao, lavora bene.”

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“No, papà, che ciao, così non riesco più a scrivere, dimmi che hai.”

Il padre ha già attaccato.

Il figlio l’ha incalzato con l’sms: Papà, così mi impedisci di finire il pezzo che devo consegnare. Dimmi cosa succede. Sono in pena per te.

Il padre ha richiamato: “Volevo dirti che… abbiamo comprato la casa. Ti volevo sentire, amore.”

“Ah che bello. Ma stai piangendo?”

Al telefono è comparsa la voce della madre: “No, non sta piangendo, Ciccio, abbiamo preso la casa, sei contento?”

“Mamma. Sta piangendo. Lo so. Se non siete in grado di sopportare le implicazioni dei gran gesti, non fate gran gesti, preferisco di no!”

“Ma cosa dici, Ciccio, piantala.”

“Lo sai cosa intendo: gli viene il tuffo al cuore a pensare ai continenti, all’oceano, al tempo che passa, ai voli intercontinentali. Lo so io e lo sai tu.”

“Nico non ti agitare.”

“Dai, mammina, ti voglio bene, non fatemi stare in pena, devo consegnare un pezzo.”

“Ah che bello, che pezzo?”

“Un’intervista a un cantante.”

“Che bello. Americano? Quando veniamo a New York insieme?”

“Presto, mammina, presto.”

“Che bello. Lo puoi intervistare da qui, la prossima volta. L’hai intervistato per telefono? È in Italia? Che cantante?”

“Lenny Kravitz.”

“Ah, il nero ebreo?”

“Il nero ebreo. Che ne sai? Perché lo sai?”

“Boh. Vanity. D. L’hai trattato bene?”

“Eh? Dai, di’ a papi di non piangere se no sto in pena e non riesco a lavorare. Per telefono l’ho intervistato.”

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“Ti dico che non sta piangendo. Allora lo sai bene l’inglese se fai le interviste per telefono.”

“Ma perché devi mentire! Lo so che sta piangendo. Sta pensando alla casa in un altro continente tipo astronave, tipo non si torna indietro: sta facendo i calcoli sul tempo!” (Per timore sacro dell’argomento tempo-morte, si è tenuto sul generico invece di dire alla madre: Sta calcolando quante volte ci verrà con me prima di morire.)

“Smettila, Ciccio, parli a vanvera,” ha detto la madre, che aveva capito benissimo.

“Non credo proprio. Dai, adesso mi devo concentrare e mi avete fatto arrabbiare.”

“Ma non ti arrabbiare, amore, siamo contenti, abbiamo preso la casa! Dai, veramente, ti prego, non ti arrabbiare, che fai intristire papino.”

(Il figlio è tutto suo padre e ha l’abitudine di piangere di fronte ai familiari, ciò che è causa di sconforto per la mamma. Quando i genitori sono a New York con lui, e lui lascia loro la stanza e dorme in soggiorno, c’è sempre almeno una sera in cui Nicolino si mette a piangere di nervi mentre racconta ai genitori settantenni la sua vita newyorkese. Mentre gli colano le lacrime sopra le guance giallicce rasate e rugose dice: “È molto difficile,” e poco altro. “È difficile ovunque,” dice la madre. Secondo suo padre, Nicolino è un “profeta dei tempi ultimi;” sua madre invece passa la notte sveglia dopo quei pianti—e dopo lo dice al figlio: “No, non ho dormito, ero proccupata per te.” Berengo, l’indomani, dopo un’ora in palestra fra le otto e le nove, è fresco e si meraviglia che la madre si sia tanto preoccupata per i suoi “sfoghi fisiologici”. Secondo il padre—un ex benedettino uscito dal convento per amore di una donna—, Nico ha trovato l’unica vera soluzione emotiva al problema di vivere in un mondo “regolato dalle società segrete responsabili dell’eccesso di progresso e dell’instaurazione di un mondo giusto e libero a parole e ingiusto e libero nello spirito, dove si è costretti a consumare. L’astinenza non è più una virtù,” dice il padre, che al pari del figlio si dedica da una vita a un’elaborazione personale della fede cristiana: “Dobbiamo consumare tutto il consumabile, tutti i prodotti della civiltà occidentale e delle altre che ci stanno imitando, con abnegazione, senza sforzarci di pensare al futuro adesso che non è più pensabile. Bisogna esaurire il ciclo. È come saper morire.” Secondo la madre questo approccio è una causa persa e la complicità filosofica di padre e figlio è un vero impedimento alla crescita di Nicolino, che la madre—e Daria, e altri—chiamano “Il Delicatino”. Come può un figlio fuggire dalla malinconia di un padre?)

"LA RESURREZIONE DELLE COSE".

Se ci dev’essere la resurrezione dello spirito ci dev’essere anche la resurrezione del corpo perché sono proprio io qui che sento la mancanza di Daria che è in un altro continente e il mio corpo sente l’oceano di mezzo fra Roma e New York molto più di quanto lo senta la mente, e quindi il corpo possiede memorie importanti e si merita la resurrezione.

“E il fatto che sto in questa stanza che contiene questi libri e questa libreria che sono importanti per me, soprattutto questa libreria fatta di tre pezzi Lack neri che hanno significato così tanto per il fatto che sono andato a comprarli con i miei genitori all’IKEA di Red Hook, in autobus, un giorno d’inverno, e perché abbiamo ordinato di portarceli a casa, facendoci trovare lì all’arrivo dei fattorini IKEA, per poi montarli insieme seduti per terra sul parquet di un appartamento all’ottavo piano di un palazzo così lontano dai nostri affetti, dalla nostra Roma, dalla nostra Milano, ritrovandoci noi, nucleo di tre corpi cadenti di una famiglia che non si riprodurrà, ritrovandoci a rappresentare qualcosa ai nostri occhi, così lontano dai luoghi che hanno reso possibile che ci rappresentassimo come nucleo per la prima volta 36 anni fa in una foto scattata da un parente nella clinica in cui ero appena nato, il fatto che io stia in questa stanza con questa libreria componibile che tanto significa per me rende veramente difficile pensare che non ci sia pure la resurrezione delle cose.”