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Attualità

Perché stiamo sbagliando tutto sul caso di Tiziana Cantone

Dopo la morte di Tiziana Cantone il dibattito si è polarizzato sul "web malvagio". Abbiamo cercato di capire con il professore Giovanni Ziccardi perché è sbagliato dare la colpa a "Internet", e cosa invece si può fare per evitare altri casi.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

A tre giorni di distanza dalla notizia del suicidio di Tiziana Cantone è sconfortante registrare la scarsissima qualità del dibattito che ne è scaturito. Basta leggere i titoli dei giornali di ieri, o i commenti che sono girati di più: è stato il Web Malvagio; no, sono stati i giornalisti sciacalli; anzi, siamo stati tutti; aspetta, è stata la "reificazione capitalistica della società dello spettacolo"; o peggio ancora, nella torsione più ripugnante, "se l'è cercata" la vittima stessa.

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E se sul caso in sé verrà fatta chiarezza dalle indagini, soprattutto a livello di dinamica ed eventuali responsabilità penali, non può però essere ignorato il perimetro esterno della notizia, il suo contorno, e la nostra reazione collettiva a questa morte.

Per questo motivo ho sentito un esperto che questi temi li studia da parecchio tempo: il professore di informatica giuridica Giovanni Ziccardi, autore del recente saggio L'odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete. Con lui ho cercato di approfondire tutte le questioni sollevate da questo fatto di cronaca, per provare a capire cosa dovremmo—e non dovremmo—imparare da una vicenda che in fondo ci riguarda tutti.

NO, NON È STATO INTERNET

Come detto in apertura, la stragrande maggioranza della stampa ha impiegato la solita lettura dell'Internet Cattivo Che Uccide per spiegare quello che è accaduto. Il corollario che ne deriva è sempre il solito: servono più controlli, più interventi dall'alto, e più repressione.

Per Ziccardi è "un grosso errore" sia tentare di chiudere "le comunicazioni e la rete," sia indicare Internet, i social, WhatsApp e altre strumenti come un qualcosa in grado di generare automaticamente odio.

"È fondamentale infatti distinguere tra i fatti (un'offesa, un'aggressione, un'estorsione) e le conseguenze di tali fatti se connessi alle tecnologie," mi dice. "I fatti sono di solito risultato di deficienze culturali o di educazione, di mancato rispetto della legge, di mancanza di civiltà non solo giuridica ma anche sociale."

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Chiaramente le tecnologie hanno la capacità di "garantire la persistenza del dato" e di "amplificare gli effetti dannosi"; ma, prosegue il professore, "additare come colpevoli le tecnologie significa non comprendere a pieno l'essenza del problema, che è un problema di cultura del rispetto, di legalità e di civilità."

ESISTE LA RESPONSABILITÀ DI CHI HA CONDIVISO I MEME?

Chi non ha messo sul banco degli imputati il "Web" ha allargato la ricerca del capro espiatorio a chiunque abbia visto il video, fatto parodie su YouTube o condiviso i meme con la famigerata frase. La domanda è dunque la seguente: ci può essere una responsabilità diretta e personale?

"Questo aspetto è molto delicato," risponde Ziccardi. "L'odio oggi può essere anche 'social', ossia causato da una moltitudine di persone che si 'uniscono' in rete e prendono di mira un'altra persona con un'azione che, in pochi istanti, diventa potentissima ed estremamente violenta, fatta di tweet, messaggi e circolazione di informazioni. Chi ha continuato a perseguitare la ragazza burlandola per l'accaduto, creando fotomontaggi, contribuendo a far circolare immagino video, ha certamente avuto un ruolo attivo nel contesto generale che alla fine si è risolto tragicamente. Anche comportamenti apparentemente 'leggeri', in rete, possono causare gravi danni, a causa di quell'amplificazione immediata del danno di cui si parlava prima."

Ed è qui che emerge un altro enorme problema—quello del controllo della propria immagine e della propria reputazione in quello che è l'Internet odierno. "Ciò che veniva percepito come uno 'scherzo' o una burla era in realtà qualcosa che contribuiva ad alimentare l'offesa e far crescere il danno," dice Ziccardi. "È fondamentale distinguere tra operazioni innocue di diffusione di informazioni e, al contrario, di partecipazione alla 'catena' di odio che, analizzata poi complessivamente, causa danni ingenti alla persona."

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LA LEGGE NON SEMPRE RIESCE A STARE DIETRO ALLA TECNOLOGIA

Stando a diverse ricostruzioni, Tiziana Cantone si è recata subito in procura e i suoi legali si sono rivolti a un giudice con un procedimento d'urgenza per cercare di bloccare la diffusione dei video. L'ordinanza tuttavia è arrivata a diversi mesi di distanza, ossia quando non c'era più nulla da fare. Questo porta inevitabilmente a interrogarsi sull'adeguatezza delle leggi che regolano o contrastano questi fenomeni.

Anzitutto, spiega Ziccardi, "il diritto da sempre arranca nei confronti della tecnologia; se è indubbio che le leggi ci siano, e che tutelino abbastanza, è spesso il problema dei tempi di applicazione e di efficacia del diritto a creare i maggiori problemi. Un video oggi si può diffondere in pochi secondi, con milioni di visualizzazioni in poche ore. Non esisterà mai un rimedio giuridico così rapido da poterlo 'bloccare' nello stesso lasso di tempo. Molto spesso, quindi, le vie giuridiche si rivelano inefficaci."

Proprio per questo, avverte il professore, bisogna agire a monte e "comprendere che non appena il video o l'immagine o la conversazione esce dalla disponiblità del soggetto ed è in formato digitale, inizierà sicuramente a circolare. Un'analisi preventiva del rischio è oggi indispensabile, così come comportamenti che puntino a proteggere il dato sensibile, e a mantenere la sua privacy, più che a diffonderlo."

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NON SI PARLA MAI ABBASTANZA DEGLI ELEFANTI NELLA STANZA

Un altro grosso tema che non è venuto fuori abbastanza—se non in brevi accenni, spesso fuori focus—è il ruolo che hanno i grossi provider e le piattaforme come Facebook, Google e altri in vicende di questo tipo.

Oltre al caso di cui si parla in questi giorni, poco tempo fa c'è stato quello della cosiddetta " Bibbia 3.0," un archivio porno composto da immagini e video spesso e volentiere diffuse senza il consenso delle dirette interessate. Il dossier era stato caricato su Google Drive e Dropbox e girava su parecchi gruppi Facebook o nei commenti delle pagine.

Il punto, dunque, sta nel capire quanto potere abbiano Facebook e altre aziende private nel decidere quali contenuti devono essere rimossi e quali siano le vittime da difendere. "I provider e le piattaforme hanno un potere enorme," spiega Ziccardi, "possono essere investigatori, giudici ed esecutori nello stesso tempo e spesso con maggior rapidità rispetto al diritto. Questo è il motivo per cui da tempo stanno studiando metodi, anche automatizzati, per gestire contenuti delicati ed espressioni d'odio."

C'È UNA GROSSA CONFUSIONE SU REVENGE PORN, CYBERBULLISMO E DIRITTO ALL'OBLIO

Leggendo molti commenti, sia sui social che sui media, è facile accorgersi di una cosa: l'enorme difficoltà a classificare questi fenomeni d'odio. Si usano indifferentemente parole come revenge porn, cyberbullismo e diritto all'oblio, che a tratti assumono caratteristiche interscambiabili. Per il giurista sono termini che "spesso indicano fenomeni che si sovrappongono, quindi è normale che vi sia un po' di confusione." Quali sono, dunque, le differenze?

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"Per i 'puristi', si parla di revenge porn quando si evidenziano comportamenti connotati da una voglia di vendetta (revenge) basata sul possesso di materiale pornografico ( porn) che possa mettere in grande imbarazzo o addirittura colpire e far soffire la vittima. Il caso tipico è la pubblicazione su un sito di immagini o video compromettenti della ex fidanzata a puro scopo di vendetta," spiega Ziccardi.

Per diritto all'oblio "s'intende un procedimento individuato dalla Corte di Giustizia nella famosa e recente decisione Google Spain che consente di domabdare la de-indicizzaizone da parte di motori di ricerca o archivi, di dati di persone che non siano più interessanti per il pubblico e per la cronaca e che continuino al contempo a danneggiare, per le informazioni contenute, un soggetto."

Per cyberbullismo, conclude il professore, "di solito tra adolescenti, s'intende un comportamento che intercorre tra due soggetti, uno forte e uno debole, caratterizzato da molestie, percosse, minacce, tentativi di estorsione, diffusione e trattamento illecito dei dati e altri reati." A questo proposito il caso di Carolina Picchio, ricostruito nel video qui sotto, è probabilmente quello più drammatico ed esemplificativo.

COSE DEL GENERE NON SUCCEDONO "SOLO IN ITALIA"

Un'altra convinzione comune è che casi del genere si verifichino solo in Italia, perché la nostra cultura è fondamentalmente bigotta, retrograda e sessista. Ma per quanto siamo sicuramente arretrati a livello culturale, la situazione all'estero non è così rosea come si possa pensare. "Il fenomeno è esteso in tutto il mondo (soprattutto in Nordamerica) ed è strettamente collegato alla evoluzione tecnologica," mi dice Ziccardi. "Molti dei problemi che stiamo affrontando in Italia già sono evidenziati, da tempo, in Paesi più evoluti tecnologicamente del nostro."

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Gli esempi in questo senso sono numerosi. La settimana scorsa, ad esempio, Facebook è stato portato in tribunale da una ragazza nordirlandese di 14 anni con l'accusa di non aver rimosso tempestivamente delle immagini intime circolate su alcune pagine. Questa estate è stato invece arrestato Edward Majerczyk, uno degli hacker responsabili del Fappening (il leak delle foto private di celebrità); e anche se rischia fino a 5 anni di carcere per accesso non autorizzato agli account iCloud, non ci sono prove che sia stato lui a diffondere le immagini su Internet.

NON C'E NULLA DI VIRTUALE NELLO STARE SU INTERNET

Se ancora ci fosse il bisogno di ribadirlo, Internet non è un'entità astratta e immateriale—è un luogo reale, che abitiamo e frequentiamo ogni giorno della nostra vita. Tuttavia, come ha detto il garante della privacy Antonello Soro, non ci accorgiamo "delle insidie che affrontiamo ogni volta che consegniamo alla Rete pezzi sempre più importanti della nostra vita privata."

Il professore Ziccardi ribadisce che bisogna essere consapevoli del fatto che "non c'è nulla di virtuale né nei comportamenti né nelle conseguenze," e che "ogni azione che si compie in rete ha un effetto reale, concreto, 'fisico'. Il dolore che si arreca a una persona con un commento diffamatorio è reale, vero. Il tormento psicologico portato facendo stalking via Whatsapp è reale, vero, fisico e concreto, per la vittima."

E sta esattamente qui il nodo di fondo che continua a non essere affrontato. Addossare la responsabilità ad una "Rete" eterea e sfuggente—quasi come se non c'entrasse nulla con le persone che la frequentano—è molto comodo e fa fare dei bei titoloni; ma è profondamente sbagliato perché porta all'autoassoluzione, alla deresponsabilizzazione e a norme pasticciate come quella in discussione sul cyberbullismo.

"Non esiste l'educazione digitale," ha scritto Ziccardi su Facebook. "Esiste l'educazione. Non esiste la cultura digitale. Esiste la cultura. Magari del rispetto. Non esistono un piano "virtuale" e un piano "reale": esistono uomini, donne e reati." E forse è davvero arrivato il momento di capirlo una volta per tutte, prima di ritrovarci alle prese con altre tragedie e di infognarci in discussioni che non portano a nulla.

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