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Non riesco più a stare dietro a questo ciclo di notizie

Filtrato dagli schermi dei nostri computer il mondo ci sembra pericolosamente in bilico, sull'orlo di qualche disastro epocale. Così, molto spesso, la risposta a questi eventi che fatichiamo ad afferrare diventa subito emotiva.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Il venerdì sera di due settimane fa ero fuori a bere una birra con degli amici. Dando distrattamente un'occhiata su Twitter, mi sono trovato la timeline invasa da tweet e immagini del tentato colpo di stato in Turchia. Senza pensarci su due volte, sono tornato a casa per seguire spasmodicamente tutti gli aggiornamenti. Più o meno lo stesso mi è successo lo scorso venerdì con la sparatoria di Monaco, e in troppe altre occasioni.

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Solo nell'ultimo mese, infatti, la dicitura che si usa per le breaking news davvero importanti—"++++ QUALCOSA DI SPAVENTOSO È SUCCESSO IN QUALCHE PARTE DEL MONDO ++++"—mi è apparsa talmente tante volte che ormai ho perso il conto.

Oltre ai due avvenimenti menzionati sopra, dalla fine di giugno in poi il Regno Unito ha votato per lasciare l'Unione Europea; due treni si sono scontrati in Puglia, causando decide e decine di morti; a Dallas un ex militare nero ha ucciso cinque poliziotti per vendicarsi degli omicidi della polizia americana; Donald Trump è diventato il candidato ufficiale dei repubblicani, e per la prima volta ha sorpassato Hillary Clinton nei sondaggi; bombe, attacchi e attentati di ogni tipo hanno sconvolto l'Europa e il Medio Oriente. Ieri, in Giappone, un uomo ha accoltellato e ucciso almeno 19 persone. E questa non è nemmeno una lista esaustiva.

Filtrato dagli schermi dei nostri computer e cellulari il mondo ci sembra pericolosamente in bilico, sull'orlo di qualche disastro epocale ed apocalittico. Ora, posto che non credo sia effettivamente così, non ho la pretesa di tracciare chissà quali collegamenti geopolitici, né di azzardare analisi onnicomprensive. Quello che mi interessa è piuttosto la nostra reazione a questa esposizione continua. Insomma, quali sono i suoi effetti? E soprattutto: ci stiamo davvero capendo qualcosa?

Naturalmente, ogni evento è così complesso e sfaccettato che richiede una competenza specifica in campi diversissimi tra loro. Inoltre, la rapidità con cui si sono susseguiti questi eventi nell'ultimo mese—almeno a quanto ho potuto provare direttamente—ha reso impossibile la sedimentazione dei fatti, e dunque la loro comprensione.

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Viviamo in una specie di eterno presente, in cui siamo sommersi da una marea di informazioni contrastanti e annaspiamo nel tentativo di trovare una spiegazione—e non una spiegazione esaustiva, ma quella che sia più rapida possibile, nonché quella più conforme alla nostra opinione.

Questo riguarda le persone che seguono le notizie, ma in primo luogo chi quelle stesse notizie le produce. Con la sparatoria di Monaco il meccanismo si è visto all'opera in maniera lampante, ed è proprio per questo che ho deciso di prenderlo come esempio delle dinamiche che sempre più spesso accompagnano l'uscita e l'evoluzione di una breaking news.

Nell'ansia di dover buttare fuori qualcosa a tutti i costi quando ancora le operazioni di polizia erano in corso, i media italiani—e non solo—non si sono fatti troppi scrupoli e hanno pubblicato foto false, raccolto e rilanciato voci senza il minimo fondamento, e pubblicato video fuorvianti e non verificati.

Quando è così, questo affastellarsi di errori si riflette inevitabilmente sul flusso delle reazioni, per cui la risposta innescata automaticamente non è quella di cercare di capire, ma di avanzare giudizi modellati sulle proprie convinzioni pregresse. Qualcuno, infatti, poco dopo la notizia di Monaco aveva già capito tutto e aveva sciorinato il solito campionario di soluzioni precotte: aveva ragione Oriana Fallaci, ci vogliono uccidere e i "buonisti" continuano a non capirlo, l'Islam è il Male, dobbiamo fare come Israele, e così via.

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Il medesimo atteggiamento si è replicato, sempre in assenza dei fatti, anche sul lato opposto: in diversi hanno "sperato" che il jihadismo non c'entrasse nulla, e in base a frammenti d'informazione (cioè la frase pronunciata da Ali Sonboli, "io sono tedesco") hanno suggerito che potesse trattarsi di un attentato neonazista o suprematista. E questo, come ha efficacemente descritto questo tweet, è il sintomo di una profonda "malattia culturale."

It's a cultural sickness that one side wants it to be a Muslim and other side wants it to be a white male. — Mike Cernovich (@Cernovich)July 22, 2016

Le cose non sono cambiate nemmeno dopo che la polizia tedesca ha escluso ogni collegamento con il terrorismo e ha parlato di una "classica" sparatoria di massa. È stata fin troppo evidentente la tendenza a rientrare nel più "rassicurante" alveo della malattia mentale da un lato, e dall'altro negli steoreotipi che questo fenomeno (nonostante sia stato studiato in lungo e in largo) porta ancora con sé—come ad esempio i " videogiochi violenti" che avrebbero influenzato il killer.

Molto semplicemente la realtà, a maggior ragione in casi di questo tipo, è irriducibile a una singola spiegazione o a un singolo motivo. Per questo tendiamo ad aggrapparci a qualsiasi cosa—male che vada, poi, possiamo sempre convincerci che quello di Nizza è stata una false flag, o che il golpe in Turchia se lo sia fatto Erdogan da solo.

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Del resto, come spiegava l'autore svizzero Rolf Dobelli in un articolo del 2013, "i nostri cervelli sono alla disperata ricerca di storie che 'hanno un senso', anche se non corrispondono alla realtà." E i media non fanno altro che offrirci storie di questo tipo, perché ormai sono strutturati per vendere emozioni e sempre meno "notizie" – almeno quelle "oggettive" e incontestabili.

La tragica equazione: più immigati uguale più attentati. Un solo modo per salvarci — Quotidiano Libero (@Libero_official)July 25, 2016

A tutto ciò è strettamente collegata la speculazione politica che sistematicamente si abbatte su eventi di questo tipo—lo abbiamo visto con Monaco, ma ormai vale per qualsiasi cosa—e lo fa a prescindere dai fatti, ad un livello tale che per alcuni ci troveremmo in un'epoca "post-fattuale," dove la realtà è così frammentata da diventare sostanzialmente incomprensibile.

E qui arrivo alla domanda che mi assilla in questi giorni: come si può sopravvivere a questa spaventosa quantità di notizie negative, e alle relative strumentalizzazioni che aggravano un quadro già di per sé complicato?

Anche qui la questione riguarda indistintamente sia chi produce professionalmente l'informazione, sia chi ne usufruisce e la diffonde sui social. Anzitutto, visto che le breaking news influenzano così pesantemente la narrativa dell'intero accaduto, da parte della stampa bisognerebbe quantomeno essere prudenti ed evitare di sacrificare l'accuratezza sull'altare della velocità. Tanto si può sempre modificare in seguito, no? Ecco, no.

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A questo proposito, nel 2013 On the media aveva stilato una specie di manuale sui mass shooting americani che si adatta bene anche in altre situazioni. Si tratta di consigli davvero basilari—come quello di "non credere alle fonti anonime" o di "confrontare diverse fonti"—ma che evidentemente faticano a fare breccia nel modo in cui ci approcciamo a grossi eventi traumatici, specialmente in Italia.

In secondo luogo, la scelta di approcciarsi in un certo modo alle cosiddette "hard news"—vuoi per scarsa etica professionale, vuoi per soddisfare una domanda del pubblico, vuoi per scelte commerciali—ha conseguenze ben precise. Come ha scritto il professore di media Charlie Beckett, le notizie che "sconvolgono, spaventano, disturbano e allarmano possono alienare il lettore e renderlo indifeso, apatico, insensibile, e addirittura refrettario a conoscere quello che sta succedendo nel mondo." Insomma, perché sbattersi se tutto fa schifo e il mondo va a rotoli?

Si tratta di una reazione assolutamente normale—e sicuramente in queste ultime settimane è stata provata da parecchie persone, me incluso. Come molti, anche io mi sono sentito sopraffatto. E all'ennesimo attentato, all'ennesima persona che riversa le sue frustazioni su persone inermi mi sono detto: basta, non ne posso più, vorrei solo staccare tutto.

Ma, diciamoci la verità, nel 2016 è semplicemente impossibile "staccare"; così come è irreale—e non auspicabile—confinarsi in bolle dove non c'è spazio per queste notizie. I media si sono sempre focalizzati su certe cose, e hanno sempre cercato di avere la nostra attenzione in ogni modo. E noi siamo ben disposti a dargliela, come dimostrano recenti esperimenti psicologici.

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In un articolo del New York Magazine sugli effetti delle "bad news," l'autore sosteneva che "c'è una differenza tra l'essere informato e l'essere ossessionato, ed è una linea molto facile da oltrepassare in un'epoca in cui circola liberamente così tanta informazione terrificante."

Nell'esatto momento in stavo chiudendo questo articolo, la mia timeline si è riempita nuovamente con quanto è successo in Francia. In una chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray (vicino a Rouen) due uomini hanno preso in ostaggio un prete, due suore e due fedeli. Il prete è stato ucciso, e i due sequestratori sono stati "neutralizzati" dalla polizia.

Le informazioni sono ancora poco chiare, ma sembra che si tratti di un attentato terroristico. Anche oggi, quindi, la spirale di morte e di violenza ci ha risucchiato; e anche oggi quella linea di cui parlavo poco sopra verrà oltrepassata, e sarà molto difficile fare ordine, contestualizzare il tutto, e non sprofondare nell'isteria generalizzata.

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