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Demented parla da solo

Scusi, dov'è il bar?

O sul perché per me il bar non è un posto fisico, ma una specie di buco bianco in cui quando entri varchi le soglie del possibile.

Illustrazione di Simone Tso.

“S-cusi dove il bar,” si chiede un agitato, sgrammaticato e sperduto Roger Waters in quell’LP misconosciuto chiamato The Final Cut: un sentimento che avrete provato tutti in questi giorni di canicola, cercando dove fermarvi, riposare le terga e raffreddare le cervella. Dare da bere agli assetati, da mangiare agli affamati—il bar ha una caratteristica che manco Gesù e il pronto soccorso. I pazienti in questo caso, quasi sempre è vero, pagano: ma un barista degno di questo nome sa quando e a chi somministrare cure gratuite. Un vero barista è uno sciamano, ti guarda negli occhi e sa cosa vuoi, riesce in poche impercettibili mosse a rigirare la tua giornata come un calzino, e quando è il caso a farti svariati crediti come un vero filantropo. Lungi da me però parlare del bar come hanno già fatto miei illustri predecessori—tra i quali Bukowski, Gibson e credo più o meno tutti su questo pianeta. Sappiamo, ahinoi, come l’epica del bar male interpretata abbia fatto danni soprattutto in Italia, vedi 883, Ligabue eccetera. Al contrario, per me il bar non è un posto fisico, ma una specie di buco bianco in cui quando entri varchi le soglie del possibile.

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Il mio bar di riferimento si chiama San Francisco, si trova a Torpignattara e Valerio Mattioli lo ha già citato in un suo articolo: il suo barista era un ex percussionista progressive—ha aperto addirittura concerti alla Pfm—si veste con un gilet di paillettes, ed è un vero uomo di spettacolo. Il bar è il suo palcoscenico. La mattina sa perfettamente prescrivermi il cornetto adatto alla giornata, manco mi chiedesse di dire 33. Dispensa sorrisi, sketch, surrealismo e perle di filosofia: stessa cosa il suo principale, un ragazzo che prima faceva l’agente immobiliare e che ora gestisce quello che lui chiama divertito un “fare cultura-fra virgolette- sulle rive del Gange”, descrivendo perfettamente un fiume di gente dai mille colori sociali che compone la via Casilina. I suoi tavoli all’aperto ti spiazzano, affacciati come sono ai binari del trenino per Termini, e la sua prevendita di biglietti vede affiancati sia i PIL quanto Mario Biondi.
Ed è sintomatico, battutine e personaggi di ogni risma fanno capolino per un caffè o un cordiale, senza differenza d’estrazione: ci trovi addirittura il sosia dello zio Tom o di Adolf Hitler che si mettono in bocca—alla fine—lo stesso cucchiaino. Se c’è un posto in cui l’idea di scambio, integrazione osmotica e autoregolamentazione ha un senso, quello è proprio il bar. Per fare un esempio spicciolo, ricordo un siparietto comico in un altro bar di riferimento della mia zona. C’è un vecchietto che, ovviamente sbronzo come un cammello, si rivolge in questo modo a un indiano con affettuosi buffetti: “Sei caro sei, sei simpatico… io so er Banana, piacere… te come te chiami?” “Roman!” “Eh? Che hai detto?” “Roman, mi chiamo Roman.” “Ma che me stai a pia’ per culo? Ma come Roman ao, ma n’eri indiano?” Il finale lo immaginate, tutti ‘mbriachi a braccetto.

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Anche i cani fanno colazione al San Francisco.

Il mio sogno proibito, d’altronde, è raggiungere la vecchiezza e passare le mie giornate seduto a un tavolino di un baretto, dicendo stronzate con gli amici del dopolavoro noise, dandomi a voli pindarici senza precedenti e criticando i giovani che passano mentre mi scolo una Peroni: “alla loro età io si che ero Demented, questi invece sono dementi e basta.” Certo non è tutto dipinto di rosa, anche se alcuni bar lo sono veramente, come a darti il benvenuto in una dimensione acidula da Alice in Wonderland, tale che sai già che te la puoi rischiare. A volte invece sono camaleontici: sempre a pochi passi da casa mia fino a poco tempo fa la faceva da padrone un bar che di giorno vestiva una patina anonima e di notte si trasformava, invece, in un simpatico dopolavoro di ladri e sbirri.
La tensione si tagliava col coltello e non era raro assistere in diretta a risse epocali fra tunisini e bangladesi davanti alle slot, con appunto poliziotti in borghese senza manco tesserino—forse sotto botta di cocco—gridare “Fermi, POLIZIA!” sedando il tutto come potrebbe farlo un matto che divide due suoi conoscenti che si strangolano. Volano letteralmente le scarpe, scene fra Martin Scorsese di Mean Streets e Buster Keaton. Dietro al bancone, il barista somiglia sempre più a un concertista col parrucchino, memore del famoso “non sparate sul pianista” del vecchio West. Dall’altra parte, le due categorie in un momento di pausa si scambiano pacatamente battute tipo “Ieri però al mio amico gli hai fatto…” “Eh, però il tuo amico ha rotto il cazzo così e cosà.”
Poco più avanti, girando l’angolo, una cinese eroica tiene quotidianamente testa ai tossici e ai giocatori d’azzardo in un “Chinese bar”—come quando un giorno, alla richiesta di abbassare il volume della tv da parte di un cliente in crisi di concentrazione ("ao è troppo alto, QUELLI LÌ non riescono a parlà!"), glielo alza d’improvviso del 34 percento senza muovere un muscolo del viso. In altri casi per due euro puoi occupare il cesso tutto il tempo necessario a farti una pera: a volte il bar è una chiesa e l’acqua santa cambia spesso colore e forma, mai sfidare i suoi devoti.

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Il bar notturno, d’altronde, è una certezza: un sollievo senza precedenti ci cattura quando lo vediamo in lontananza, pronto a soddisfare le nostre carenze e a riempirci pancia e testa. Qui davvero c’è la sensazione che sogno e veglia siano la stessa cosa, il tempo un continuum e che alla fine una bomba ripiena sia la migliore delle droghe, queste ultime ovviamente spacciate spesso in segreto dietro il bancone. Quanti bar peruviani notturni con sorrisi a 36 denti delle bariste e personaggi usciti da un quadro di Ensor, quante luci viola, quanti trans in assetto di guerra—anzi, del suo opposto—giunti per decomprimere una dura giornata ci sono rimasti nel cuore: un libro fatto di quattro mura, insomma. C’è anche chi si è nutrito di cappuccini per vivere, come il padre di un mio amico: al bar si deve spesso la vita.

“Il pensare è uno dei pochi piaceri concessi al genere umano,” recita una citazione di Bertolt Brecht a caratteri cubitali sulle pareti di un bar in una ridente località laziale: più che altro è una condanna inevitabile, come giustamente mi fa notare il mio amico Infidel. Ma tale condanna nei bar è spesso definitiva: impossibile non darsi a congetture anche solo facendosi una birra. Non è un caso che le origini del bar siano connesse coi ritrovi di studiosi, intellettuali, scrittori, gente votata a raccontare. Ci troviamo sempre a drizzare le antenne verso il tavolo altrui, cercando di carpire cosa succede, come se farlo significasse capire il mondo.
Fondamentalmente è vero; il bar invece di azzerare il pensiero lo amplifica, lo prende, lo isola e lo sparge a pezzettini attorno come coriandoli. Poi fa una gincana e tu recuperi questo carnevale appena ti alzi per andare a casa, se una casa la possiedi e non è il bar stesso. Vagare di bar in bar corrisponde infatti al viaggio del paguro Bernardo in cerca di conchiglia, soprattutto se non sai dove stai andando: spesso con alcuni dei miei affezionati amici fino alle sette di mattina, bar dopo bar come biologi vetrino dopo vetrino, si è trovato qualcosa come il senso dell’alba, puntualmente dimenticato appena poggiata la testa sul cuscino.

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Come i due del San Francisco, spesso dietro al bar ci sono personalità che hanno fatto e che fanno di tutto: musicisti, piazzisti, ballerini, video maker, manager, gente che ha un’esperienza fuori dal comune, che è ripartita dalle macerie dopo essere forse morta mille volte. Soprattutto un’esperienza “deragliata”, come affluenti che invece di buttarsi al mare decidono di provare il fiume e cercano pure di tornare indietro come i salmoni. I clienti, le mosche da bar, anche loro fanno e hanno fatto di tutto, ma dietro la barricata: sono e rimangono i discepoli. Agli occhi dei baristi spesso appaiono come gli affezionati mostracchioni del bar di Star Wars, dove Ian Solo incontra Luke Skywalker, e come loro fanno affari con forti strette di mano e idiomi incomprensibili.

Questo alla fine è il succo del bar, una specie di Zerolandia spaziale—per citare il più amato dai bar romani, Renato Zero—in cui non ci sono vincitori né vinti, ma solo una vecchia canzone degli Hong Kong Syndikat. E non c’è politica che tenga di fronte a un grappino, gli scambi di idee si consumano con una pacca su una spalla, per quanto di grana grossa sia: nei bar ci trovi i pazzi, tollerati in maniera pressoché esemplare, ci trovi i vip, come quando incontrai uno Schicchi tirato a puntino in un bar dell’Olgiata, perfettamente mimetizzato fra i "freak". Il bar è un luogo spesso osteggiato dal potere, storicamente sede di moti rivoluzionari, dove ti arrestavano per reati di semplice libero pensiero accusandoti di “adunata sediziosa” (mio nonno durante il regime ne sapeva qualcosa). Un posto dove anche se puzzi e hai lasciato il cervello nel paese dei puffi troverai il tuo paradiso, magari una barista di cui sei segretamente innamorato e che si prende cura di te e degli altri, come una famiglia della quale nessuno dei componenti—spesso loro malgrado—può fare a meno.
Sì, lo so, pecco di romanticismo: in realtà non volevo scrivere un pezzo sul bar, ma sul concetto di morte che ultimamente mi ha un po’ turbato. Ma stamattina quando ho visto due bambine giocare con vistosi ombrelli aperti, in piena estate, dentro un bar di questo ridente paesino lontano da Roma, mi sono illuminato. Ho pensato che la vita alla fine è un bar: non può chiudere se tutti ci vanno, al massimo cambia gestione.

Segui Demented su Twitter: @DementedThement

Nel post precedente: Quanto sono svizzeri gli svizzeri?