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Demented parla da solo

Memorie random sui Daft Punk

Cosa aspettarsi dal prossimo disco, e perché non mi fregheranno anche questa volta.

Illustrazione di Simone Tso.

Teaser. Virali. Pubblicità lampo. Parole tecniche che poco hanno a che vedere con la sostanza della musica, ma nel caso dei Daft Punk tutto cambia. Più che un gruppo oramai un’operazione commerciale—nella più classica delle tradizioni della musica pop—dopo vari anni sono pronti a sfornare il nuovo disco, a breve negli ultimi negozi rimasti sulla terra e anticipato da un singolo che sta già creando più di una sensazione. Ebbene, a questo punto mi tocca parlare non tanto dei Daft Punk—che di loro si parla già abbastanza (non credete?)—quanto del mio rapporto con la loro musica. Rapporto, diciamolo, di amore e odio.

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Il primo approccio che ebbi con loro fu nel 1997, col famoso video di “Da Funk”: un cane zoppo che gira per la città con tanto di ghetto blaster, un pezzo che ricorda i vecchi fasti del power funk ma con una ritmica grassa e pompata, in qualche modo house ma più che debitrice dell’ hip hop anni Ottanta e delle produzioni di Quincy Jones. Subito mi feci doppiare una cassetta dal batterista della mia band di allora e fu inseparabile compagna di giornate di ascolti fra un disco noise e uno di jpop, di pomeriggi primaverili e di feste improvvisate a ubriacarsi con vino di scarsa qualità. Era qualcosa di fresco e divertente che allo stesso tempo trovava spazio per deliri accartocciati di bassline acide e urlanti, con una pompa non sottovalutabile. Ancora lontani dai futuri paraculismi, i Daft Punk erano evidentemente eredi di quell’approccio alla “De La Soul” e della house low-cost da cameretta. E infatti questi “compiti” mantenevano la spensieratezza di chi prova a farsi la sua musica anche a costo di rubare agli altri in perfetto stile rap. È questo il caso di “Daftendirekt”, "WDPK 83.7FM” e appunto, ”Da Funk”, tre brani messi su con lo stesso campione ("Bounce Rock Skate Roll" di Vaughan Mason & Crew): è il caso anche del fortunato singolo che conoscono pure i sassi, cioè “Around the world”. In tempi in cui i Chemical Brothers plagiavano senza problemi i Pink Floyd e i Beatles e il campionamento era oramai legalizzato, nessuno ci faceva/voleva far caso. Tutto a posto quindi: sta emergendo il fenomeno del “French touch”. La cosa sconvolgente è che se li ascoltavano tutti, di tutti i colori e credo politico: in qualche modo parlavano la lingua universale dei tempi che cambiano.

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Detto questo, possiamo parlare di loro come innovatori? O semplicemente di gente che fa la propria cosa lavorando sui limiti e limando il già esistente? Ascoltando l’embrione di quello che diventeranno i Daft Punk (ovvero i Darlin’) potremmo pensare a quest’ultima opzione; si tratta di un semplicissimo ma efficace power pop lo-fi rumoroso e gonfio che va, ovviamente, in loop eterno. Da qui il nome della successiva ragione sociale, dopo che una critica definì la loro roba daft punky thrash”.

Del look invece cosa c’è di innovativo? Nulla: vestiario copiato/citato da Mandre, vecchia gloria della disco Settanta, dai Droids ecc. Un tentativo di rinverdire la tradizione della space disco, piuttosto—genere che vede nei francesi dei veri e propri capiscuola.

È certo che questa tradizione viene rivista con intelligenza: tant’è che il disco successivo, Alive 1997 (pubblicato nel 2001), è un sorprendente documento dei loro concerti/dj set nei quali, sulla base di alcuni brani di homework, si stagliano variazioni sul tema che trasformano in maniera irriconoscibile gli originali. Quasi una free trance acida, con il preziosismo di usare remix di altri. Un “buona la prima“ che rivela tutto il talento improvvisativo dei due, manco fossero jazzisti.

Ma attenzione: nello stesso anno arriva il secondo album: Discovery coll’inevitabile singolo di punta, “One more time”. Al primo ascolto per me fu subito disgusto. La ragione è che la musica sembra un tentativo di portare Cher nel dancefloor, il tasso commerciale è altissimo, le atmosfere kitsch ai limiti dell’improponibile. Come una specie di vaso cinese da due euro spacciato per vaso Ming. Ma questa cineseria paradossalmente sembra all’altezza delle aspettative, perché costa poco e sta bene in salotto: un perfetto prodotto pop. Stabilizza quello stile che poi diverrà una vera e propria epidemia, imitato da praticamente tutti i nuovi musicisti da club e anticipato dai progetti paralleli degli stessi Daft Punk (Stardust in primis). A livello compositivo è per buona metà fregato—spesso senza manco risuonarlo—a brani minori dei Settanta/Ottanta (tra i quali anche i nostrani Rondò Veneziano). Ma appunto la gente che ne sa? Non stiamo a guardare il capello. C’è da dire che uno di loro, ovvero Thomas Bangalter, vede un illustre precedente in suo padre, Daniel Vangarde, abilissimo contraffattore pop che nel suo eccellente progetto Yamasuki Singers fingeva addirittura di fare pop giapponese e di ESSERE giapponese.

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A salvare la faccenda, appunto, ci pensa il sol levante. C’è la geniale idea di affidare a Leiji Matsumoto, il padre di Capitan Harlock, un cortometraggio che racconti una storia dal disco, e non viceversa. In questo caso si tratta di un film che incredibilmente vede il nostro alle prese con colori fluorescenti, pop, quasi sull’orlo dell’acidume: l’opposto della sua filmografia di solito ultradark. Discovery, visto come un progetto video/sonoro nella sua totalità, acquista maggiore smalto. Ed è per questo che Interstella 5555 (il nome di questo film) con le sue citazioni a manetta dai cartoons giapponesi e dal Fantasma del palcoscenico di De Palma diventerà, nel tempo, uno dei miei musical a cartoni animati preferiti. Citazione per citazione. Ancora una volta uno a zero per loro.

Passa il tempo passano gli eroi, e i nostri si riaffacciano nel lontano 2005: Human after all.

Stavolta la mia reazione al singolo “Robot rock” fu di scandalo totale. Oramai la pratica di campionamento dei due è arrivata al loop puro e semplice di un intero pezzo: neanche la fatica di scomporlo. I Breakwater, autori originali del brano, sono omaggiati senza dubbio. Il video di accompagnamento è accattivante, ma la sensazione di paraculaggine è oltre il rosso: chi li riconoscerebbe nel 2005 i pezzi dei Breakwater?? Gli altri brani sembrano tutti fatti col culo in due minuti, in genere mandando in loop un'intuizione, un brano fregato ancora una volta da qualche poveretto seppellito dalle classifiche negli anni Settanta/Ottanta o plagiando storici giri pop/rock (vedi la title track, praticamente “A forest” riveduta e corretta). Loro stessi ammettono di aver registrato in fretta e furia, probabilmente fra un festino e l’altro—datosi che non si capisce cosa facciano durante il giorno a parte dormire.

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Ma oggi, 2013, posso dire che mi sbagliavo di grosso. Human after all è probabilmente il loro disco più coraggioso in quanto anticipa le tendenze del campionamento selvaggio—vedi con le dovute differenze Demdike Stare, quindi una manna per gli appassionati di cacce al tesoro musicali—e nello stesso tempo critica e fa letteratura del concetto di” skip attention” insito nella fruizione di mp3. Se si ascolta attentamente il disco ci si rende conto che è l’agonizzare di un robot che alla prima emozione ha la nausea ("Emotion") o che gli frigge la testa appena prova a pensare, per cui la musica è mera meccanica. Uno sguardo amaro sulla tecnologia, sugli uomini che stanno diventando stupidi. Ed è proprio questo che esce dal disco, quel “brainwasher” citato nella omonima canzone. Autismo, isolazionismo, Orwell e malinconia di un passato emotivo che non esce fuori dal nastro magnetico neanche mettendolo in anello: nello stesso tempo è quello che paradossalmente la gente vuole. Qualche critico lo osannò all’epoca, qualcuno in buona fede, qualcuno per fare l’alternativo. Ma in generale stava sul cazzo a parecchia gente. La cosa incredibile è che tutti i pezzi (oddio, più che pezzi. loop) sono ottimi, a parte "Television rules the nation" che è un po’ "buttato là" (figurarsi).

Ma non dimentichiamoci—ancora una volta—l’aspetto filmico dei due. Esce subito dopo Electroma, un film capolavoro che fa del vuoto un valore e della tecnologia perdita di se stessi. Due robot in un easy rider elettronico che cercano in tutti i modi di diventare umani senza riuscirci. La favola di pinocchio vista al contrario, nell’era della desertificazione dei sensi. Appena lo vidi mi diede la stessa scossa de L’uomo che cadde sulla terra con David Bowie.

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Ed è verissimo che il cinema ha una parte importantissima nella visione dei Daft Punk. Da D.A.F.T. fino a Electroma i due appaiono come registi e sceneggiatori. Non male per due apparenti caciaroni come loro. D’altronde Guy Manuel de Homem Christo fa anche il regista: la visione artistica è a 360 gradi e include anche la moda, come dimostrato dai loro vestiti disegnati appositamente da stilisti di grido.

Ad ogni modo, dopo questa ultima “fatica” discografica—che come andazzo possiamo avvicinare ai capolavori dei Megadeth e dei Pil, dischi fatti con l’intento di inculare i soldi alle case discografiche—i nostri pubblicano un altro live. I live, pezzo forte della carriera dei Daft Punk, sono praticamente dei dj set in un’astronave. La cosa importante è che Alive 2007 è basato sul mash up selvaggio di tutti i loro pezzi, però a cazzo. Uno sull’altro, scomponendo, incollando, copiando a se stessi: un’operazione di “papier collè ”in musica. Un album paragonabile in positivo al Live at brixton academy degli Atari Teenage Riot in quanto a massacro creativo della propria stessa idea musicale, serbando ai sample dei loro stessi brani l'identica sorte di quelli altrui. Forse l’unica loro uscita che mi ha convinto fin dall’inizio, anche e soprattutto per l’intro a voce robotica sola, citazione perfetta dei Rockets live di “Beta-gamma”. Have you ever seen UFO? Un disco a parte, diciamocelo. Addirittura si permettono una specie di cover dei Bronsky Beat infilata di peso in” Steam Machine”.

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Da questo momento però, riguardo nuovi inediti, un silenzio che neanche i Boston dell’età che fu. A un certo punto la Disney gli propone una colonna sonora, quella del nuovo Tron. Tron: Legacy, per intenderci. Vista la loro capacità innata di filtrare col cinema la scelta non appare casuale.

Ebbene, anche in questa occasione appena vidi il trailer del film gridai alla merda: tutto potevo pensare tranne che un pezzo fatto con un arpeggiatore in ennesimo loop, soprattutto per un film come Tron come lo ricordavo musicalmente commentato, ovvero da Wendy Carlos. Eredità pesante.

Purtroppo o per fortuna mi sbagliavo: se il film Tron era una colossale cagata, la musica dei due, inaspettatamente, alzava il livello della pellicola in maniera esponenziale—senza però ovviamente riuscire a salvarlo. E dirò di più; la colonna sonora regge anche da sola ed è anzi molto debitrice della nuova onda cosmic, strizzando l’occhio ai padri del genere e al recente glo-fi che molto a loro deve (uno su tutti Com Truise, che non a caso remixerà un brano della colonna sonora). Ma stavolta niente campioni, solo ispirate smanettate random agli arpeggiatori con un sapiente uso dell’orchestra a doppiarli/commentarli. Anche stavolta i Daft mi hanno fregato e probabilmente hanno fregato anche la Disney, componendo la musica sul vecchio film. E non sul nuovo.

A questo punto veniamo all’oggi, al nuovo singolo “Get lucky”: il titolo ricorda l’”i’m feeling lucky” di Googleiana memoria, e già da solo è marketing. Inutile dire che sarà il singolo dell’estate (citando un mio socio). È un brano che annuncia una nuova era, quella dei “music teaser”. Canzoni di 50 secondi che se le rimetti dall’inizio o le senti in repeat è la stessa cosa, le allunghi un attimo e diventano di quattro minuti. Suonerie di cellulari per le radio. E questa probabilmente è l’ultima delle fiammate del duo, dopo il french touch, dopo il campionamento “no limits”, dopo la glo-disco pre Valerie e dopo il loopare autistico: non hanno certo inventato tutto da soli, ma con la loro personalità e visibilità hanno facilitato il lavoro a molti e fatto indubbiamente scuola, tanto da creare anche mostri (vedi i Justice). Quindi più che innovazione, grande stile. Più che raffinati, minimali e diretti. In un certo senso sono nati già classici.

E questo nuovo disco potrebbe tranquillamente essere un epitaffio, un saluto per partire nella terra delle icone ed abbandonarci per sempre nella corsa al futuro. Con copertina copiata a Lou Reed, ospiti illustri e vecchie glorie che ci suonano—da Moroder a Nile Rodgers—si va sul sicuro. Infatti il titolo Random Access Memories suggerisce che sarà pieno di nostalgiche macchine del fumo old fashion. Ma non solo: il giro armonico del singolo, oltre a citare "Around the world", è perfettamente attuale essendo lo stesso dei vari recentissimi successi dei Caribou, Lykke Li e compagnia cantante, talmente efficace da poterlo suonare con la chitarra in spiaggia. A chi critica questa svolta dico: preferite sentire 'sta roba dalle radio o il nuovo tacatà? Stavolta sto fin da subito con i due francesi e mi godrò la loro ennesima, ispirata e inspirata, truffa pop dell’amore.

Demented Burrocacao è una nostra conoscenza di lunga data, e per VICE si occupa di recensioni, reinterpretazioni e altra musica. Una volta si è anche fatto intervistare. Come avrete capito, questa è la sua nuova rubrica. 

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