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A10N1: Skammerz Ishu

Dinosauri contro la recessione

John Brosio dipinge tornado. Dipinge persone che si fanno ritrarre di fronte ai tornado. Dipinge la discesa degli UFO in mezzo a un pascolo e dipinge teste di pesce con le sigarette in bocca. L'abbiamo intervistato per capire perché.

"Dinosaurs eating CEO" - 2013. Dipinti per gentille concessione della Arcadia Contemporary, New York.

John Brosio dipinge tornado. Dipinge persone che si fanno ritrarre di fronte ai tornado. Dipinge donne davanti a crani di dinosauro, la discesa degli UFO in mezzo a un pascolo, teste di pesce con le sigarette in bocca, cefalopodi enormi che avviluppano case di periferia. Ritrae l’America provinciale, minuscola e inerte davanti all’avanzata inesorabile del disastro. Accetta di venire identificato come un “romantico”, è stato definito dall’Huffington Post un Corot moderno, viene collezionato (tra gli altri) da JJ Abrams, Norman Lear, Dave Grohl. Il resto del tempo, insegna nelle scuole e nei college. Di origini italiane, non è imparentato con Paolo (Brosio). Ci ha regalato in anteprima alcuni dipinti e un’intervista.

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VICE: Cosa ti ha avvicinato all’arte, inizialmente?
John Brosio: Si è manifestato in varie forme, ma il mio interesse per l’arte mi ha sempre accompagnato. Quando ero piccolo mi mettevano sempre in castigo perché disegnavo forme astratte su qualsiasi superficie piana trovassi. Ero compulsivo. Ma ci sono stati momenti che mi hanno segnato. Mi ricordo che, da bambino, vidi Il mago di Oz in tv, e una volta finito il film fui preso da una tangibile sensazione di tristezza. C’ero solo io, seduto su quel divano, accanto a me c’era un genitore addormentato, forse entrambi. Mio fratello e mia sorella se ne erano andati a giocare altrove. E io ero lì seduto, sconvolto dall’esperienza che avevo appena vissuto. Perché hai scelto la pittura?
Ironia della sorte, sulle prime aspiravo a una carriera nel cinema. Come molti altri ragazzini della mia generazione, Guerre Stellari mi aveva scatenato l’immaginazione. Mi prendevano tutti in giro per quanto mi piaceva Guerre Stellari, ma fu il film che mi attirò verso il cinema. Anni dopo ho lavorato per la Industrial Light and Magic, la compagnia di postproduzione di George Lucas. Nel frattempo studiavo arte all’università, e i miei docenti (figure come Wayne Thiebaud, David Hollowell, Robert Arneson, Roy DeForest, Mike Henderson, Wally Hedrick – dei luminari di per sé, oltre a essere insegnanti meravigliosi) mi mettevano costantemente alla prova. Mi laureai portandomi dietro un enorme conflitto interiore. L’ironia sta nel fatto che, alla fine, molte delle immagini e delle sensazioni che appartengono al cinema e mi hanno influenzato sono ben presenti nei miei lavori. Ma è la pittura ad aver scelto me. Era una cosa che facevo da sempre. Cosa ha dato inizio alle tue—perdona il termine approssimativo—“ossessioni”, i temi che hai esplorato più e più volte, dal punto di vista artistico?
La domanda mi ricorda una citazione di Picasso, che disse che lui da ragazzo sapeva disegnare come Raffaello, ma “ci aveva impiegato tutta la vita, a imparare a disegnare come un bambino.” Da bambini, disegniamo solo per noi stessi. Man mano che cresciamo, la norma sociale ci incasella in ruoli prescritti. Agli artisti è richiesto di dipingere ciò che ci si aspetta che un “artista” dipinga, e così perdiamo il contatto con le nostre intenzioni originarie, perdiamo fiducia in ciò che ci aveva spinto a fare ciò che facciamo. È quello che mi è successo dopo il college: la carriera nel cinema era un prospetto asfissiante, dipingere era fors’anche peggio, dato che avevo cominciato a farlo su commissione. Smisi di farlo, per un po’, e cominciai a dipingere cose che interessavano solo a me, in barba alla carriera. Ed era quella, ovviamente, la chiave: non soltanto per me, ma per chiunque. "Breaking news" - 2013. Quali sono stati i primi lavori di questo nuovo corso?
Con l’idea che non potessero interessare a nessuno, ho iniziato a realizzare dipinti bizzarri con pesci morti. Alcuni avevano in bocca sigarette accese, altri erano semplicemente isolati, luccicavano umidi. Il dipinto più grosso, in quanto a dimensioni, è stato quello di un tornado. Perché un tornado?
Sono sempre stato incuriosito dalle cose che chiamo “veramente interessanti,” e i tornado ne fanno parte. Per questo dipinto in particolare, non avevo basi cui ispirarmi, al di là di una serie di filmati del telegiornale registrati su una videocassetta. La riuscita di questa prima immagine mi diede un po’ di coraggio, perciò andai con la mia ragazza al museo di scienze naturali e le chiesi di posare di fronte al teschio enorme di un dinosauro. Lei era lì, in piedi, e mi sorrideva, e io le chiesi di voltarsi a guardare il dinosauro. L’ossessione c’è sempre stata, ed è ancora lì, non mi ha abbandonato. Dovevo solo imparare a fidarmene. Sto imparando tuttora.

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Molti dei tuoi dipinti sono estremamente divertenti, ma non danno mai l’idea di derivare da una curiosità distaccata. Sembri sempre molto affezionato ai tuoi soggetti (che l’attaccamento derivi sia da affetto sia da un certo odio). Quali sono gli aspetti che ti attraggono abbastanza da indurti a soffermarti sul tuo soggetto almeno per il tempo del dipinto?
Qui ritorniamo al discorso del “veramente interessante” La cosmologia, per esempio. Il ruolo che ricopriamo nell’universo. La mia serie “Edge of Town” si basa in gran parte su questi concetti—quei dipinti, per me, sono come dei terrari in cui riesco a codificare gli elementi di una realtà più vasta, ed è ciò che mi spinge a continuare.
Ma parli anche di “odio”, ed è interessante, perché l’arte ispirata dalla rabbia è alquanto rischiosa. Al momento sto lavorando a una tela con due velociraptor che divorano un banchiere. Certo, la tv ci offre un’interpretazione “matura” di ciò che questa categoria di persone ha fatto—era legale? Era illegale? Tutto il quadro. Ma sappiamo bene che una sana bastonata risolverebbe un sacco di problemi. La cosiddetta “recessione” non è una cosa che si è verificata e basta. È stata intenzionale. E questa gente sta ancora facendo danni. A questo punto, i dinosauri potrebbero benissimo rappresentare uno dei modi di affrontare il problema. I dinosauri sono allegorici, emblematici, e attrezzati del necessario per risolvere il problema. Guarda caso, sono anche “veramente interessanti.” Per il dipinto volevo dei velociraptor, ma la creatura che ci è stata tramandata da film come Jurassic Park non è propriamente “accurata.”

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"Last taco stand" Che tipo di ricerca hai fatto?
Non è che io sia sempre interessato a rendere le cose in maniera “accurata.” Ho un altro dipinto con dei mostri caricaturali, ma questo richiedeva un approccio più serio. Quindi ho acquistato un calco della calotta cranica di un velociraptor, ho iniziato ad analizzare una serie di illustrazioni scientifiche, sono anche andato a osservare da vicino un emù. Ma i problemi non finiscono qui! I dipinti a volte falliscono per ragioni svariate, ed è per questo che è cruciale, sempre, fare ricerca. In questo caso avevo preparato l’intero dipinto, e poi l’ho buttato via e ho ricominciato perché i velociraptor sono molto più piccoli di quanto pensassi. Ci sono casi in cui la ricerca ostacola l’istinto iniziale che ti aveva avvicinato a un’opera?
Anche quando si tratta di un’immagine irreale, di fantasia, devi averne familiarità come fosse qualcosa che vedi ogni giorno nel mondo reale. E la ricerca è nel contempo un piacere e un estenuante rimescolarsi di carte. Spesso mi affido ai modellini. Per il dipinto della piovra sul tetto di una casa, innanzitutto ho cercato il tipo di casa, ho fotografato il momento giusto della giornata, e sul tetto del modellino che avevo creato ho messo un polpo morto per studiarlo nello stesso tipo di illuminazione. Lo fanno molti pittori, ma io l’ho imparato dagli esperti di effetti speciali alla Industrial Light and Magic: realizzavano un’intera serie di sculture, le proponevano, e poi finivano per doverle buttare via tutte a parte una, quella che era stata scelta. Parliamo dei tuoi lavori più recenti. “Last Hot Dog” è praticamente metafisico.
“Last Hot Dog” è molto simile ai miei dipinti di tornado. Molti degli edifici in quei dipinti appaiono piatti e inconsistenti, perciò ho deciso di portarli all’estremo, con un albero finto e una casa finta. Però per questa tela volevo due sorgenti di luce, il che si è rivelato più difficile di quanto pensassi. L’idea di fondo è che praticamente tutto–—anche il mondo–—finisce quando finisce il suo hot dog. Forse. Tutte e quattro queste nuove opere hanno a che fare con il cibo. Magari avevo solo fame.

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"Last Hot Dog" - 2013. Ti è capitato che i tuoi lavori avessero non solo un peso psicologico ma anche fisico su di te?
In ben più di un caso! Molto spesso ci si perde a rincorrere un’opera che, in un modo o nell’altro, è destinata al fallimento. A volte significa solo che devo fare un passo indietro, distaccarmene e ricominciare, ma è difficile rendersene conto in prima persona. È come trovarsi a Houston sulla strada per New York, e rendersi conto solo allora che avresti dovuto, fin da subito, passare per Chicago. Anche se ciò significa ritornare al punto d’origine. Un esempio?
Uno dei miei dipinti migliori, che è un autoritratto intitolato “Harbinger” è stato un disastro fino all’ultimo. A un certo punto l’ho staccato dal cavalletto e ho cominciato a dargli dei calci per distruggerlo, ma la superficie era solidissima, e la tela è come rimbalzata via facendosi beffe di me. Non sapevo più cosa fare, ed erano settimane che cercavo di finirlo, ma invece di riprenderlo a calci l’ho voltato e l’ho appoggiato al muro. Mesi dopo l’ho ripreso in mano, e mi sono reso conto immediatamente che dovevo solo abbassare la linea dell’orizzonte e rimuovere qualche palo del telefono. In quattro ore l’ho completato. Hai parlato molto di quanto il cinema ti abbia influenzato. Spesso, nel cinema, i registi si ritrovano un risultato molto diverso da quello che avevano pensato—talvolta migliore. Con la pittura hai molte più possibilità di avere il controllo assoluto del risultato. C’è qualcosa che riesci comunque ad affidare al caso?
Probabilmente ho un approccio più da filmmaker di altri pittori. Ma non è poi così diverso. E, sebbene io abbia il “controllo totale”, mi manca un’opinione esterna e obiettiva quando ne ho bisogno. E cerco sempre di ottenerla in qualche modo—mi distacco dalla tela per un po’ di tempo, la osservo riflessa allo specchio, chiedo l’opinione degli amici. Avere il controllo assoluto non significa avere sempre ragione. Quella è una trappola.

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