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La disoccupazione è il nuovo lavoro dei giovani italiani

È per questo che sono sempre così indaffarati.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Una giornata tipo a lavoro. 

Il 13 settembre, durante la festa di Scelta Civica a Chioggia, Enrico Letta ha detto che “il primo punto di riferimento del governo è la lotta alla disoccupazione giovanile che non fa dormire tante famiglie italiane, ma che dovrebbe non far dormire ognuno di noi. Qualche risultato si sta iniziando a vedere."

I risultati di questa lotta li ha fotografati l’Istat due giorni dopo: nel secondo trimestre del 2013 solo sei persone su dieci nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni hanno un lavoro. Al Sud la percentuale di occupati è di appena il 51 percento tra gli uomini, e un desolante 33,3 percento tra le donne. Complessivamente, negli ultimi tre anni il numero degli under 35 che lavorano è crollato di un milione. “Le tabelle dell’Istat—ha scritto il Secolo XIX—traducono in numeri certi il dramma della crisi che ha minato i sogni e il futuro dei giovani di oggi proprio negli anni nei quali si costruisce, si trova un lavoro dopo la laurea, magari si mette su famiglia.”

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Per tutta risposta, Letta ieri ha twittato la foto di “un regalo che un amico mi ha portato stamani”: una boccetta con l’acqua di Lourdes.

Da quando è diventato primo ministro, Letta ha posto il tema della disoccupazione giovanile in cima all’agenda del suo governo. Basta leggere i titoli degli ultimi mesi per rendersene conto: “Letta: ‘Faremo scendere la disoccupazione giovanile’” (1 giugno 2013); “Disoccupazione giovanile, Letta: ‘Mercoledì il piano, ma deve agire anche la Ue’" (24 giugno 2013); “Letta: la disoccupazione giovanile è un dramma europeo” (25 giugno 2013); “Letta: ‘La disoccupazione giovanile è l'incubo del mio incarico’” (16 luglio 2013); “Letta: ‘Serve lotta alla disoccupazione giovanile, le difficoltà sono superabili insieme’” (21 agosto 2013).

Il 26 giugno il governo ha approvato un pacchetto di misure per l’occupazione che, tra le altre cose, include incentivi temporanei alle imprese che assumono persone con meno di 30 anni. Letta ha presentato il piano come se si trattasse dell’Arma Finale contro la piaga della disoccupazione giovanile e ha annunciato in pompa magna che la misura avrebbe creato 200.000 posti di lavoro. I pareri di alcuni esperti, però, hanno decisamente ridimensionato le previsioni euforiche del Premier.

Il giuslavorista Piergiovanni Alleva ha affermato che il pacchetto “moltiplicherà” una precarietà già dilagante (3,3 milioni di precari secondo il “Rapporto sui diritti globali 2013”), e che gli incentivi “non faranno assumere nessuno e si presteranno a fenomeni speculativi da parte delle aziende.” L’economista Tito Boeri, invece, ha calcolato che i posti di lavoro effettivi potrebbero essere 100.000 (con molta, molta generosità), mentre gli altri 100.000 sarebbero tirocini e percorsi di formazione, ossia—come ha notato l’Espresso—gli “strumenti con cui i giovani precari vanno avanti da anni in attesa di un lavoro, per poi passare da un contratto precario all'altro.”

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Insomma, le misure del governo Letta in materia sono pallidi proclami, palliativi che non risolveranno praticamente nulla. La situazione è talmente cupa che persino i giovani imprenditori di Confindustria hanno assunto toni da antagonisti radicali: “Hanno svuotato il domani di speranza e colmato il presente di angoscia,” ha dichiarato il presidente Jacopo Morelli. “Senza prospettive per il futuro l’unica prospettiva diventa la rivolta.”

Eppure, in questi ultimi anni, la politica e la maggior parte della stampa hanno cercato di addossare la colpa della disoccupazione ai disoccupati, cioè a chi la subiva in prima persona. Evocando le nemesi di “bamboccioni” e “choosy”, l’Opinione Pubblica Che Conta ha cercato in tutti i modi far ingoiare al Paese le verità autoevidenti de “il lavoro c’è per chi lo cerca davvero” e, se manca davvero, “il lavoro lo si crea.”

Uno dei primi ad aprire le danze è stato Massimo Gramellini, in un Buongiorno di due anni fa, dove aveva raccolto le lamentele dell’Unione Panificatori di Roma, che all’epoca pareva essere alla disperata ricerca di “trecento ragazzi disposti a fare il pane per duemila euro al mese.” Gramellini spiegava che “il problema di certi mestieri resta la loro scarsa considerazione sociale,” e si chiedeva angosciato: “Mi spiegate perché uno che passa otto ore davanti al computer, a fare nemmeno lui sa cosa, dovrebbe sentirsi più elevato socialmente di un altro dalle cui mani escono cose tangibili: un vestito, una scarpa, una pagnotta?”

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Peccato che le cose non stessero esattamente così. Matteo Pascoletti di Valigia Blu ha scoperto che “più di una caterva di posti da panettieri a duemila euro al mese” esistevano, ed esistono, “una caterva di corsi per pizzaioli/pasticceri/barman a pagamento.” Cioè dei corsi la cui funzione primaria è quella di lucrare sulla disperazione e il precariato del giovane che “passa otto ore davanti al computer.”

Il filone-sottogenere de “I Giovini Debosciati Si Rifiutano Di Fare Lavori Manuali!” era stato poi raccolto con notevoli risultati dalla Nuvola del Lavoro del Corriere Della Sera. Qualche mese fa era apparso un articolo intitolato: “Lavoro, mancano 6 mila pizzaioli. Consigli Fipe: ‘Giovani, pensateci’”. Nel pezzo Enrico Stoppani, presidente del Fipe (una federazione di esercenti affiliata a Confindustria), denunciava la vacanza di 6.000 posti da pizzaiolo e l’altezzosità dei giovani italiani, che sono riusciti a farsi fregare dagli egiziani (“i più lesti a capire il radicale cambio dei consumi”). Stoppani spiegava inoltre che “il vantaggio di imparare a fare bene la pizza è quello di trasformarsi da subito in imprenditori di se stessi.

L’11 settembre 2013, sempre sulla Nuvola del Lavoro, è spuntato un altro doloroso allarme: con la crisi è diventato impossibile trovare giovani disposti a fare i camerieri. La circostanza è stata portata all’attenzione da un certo Matteo Zappile, “chef sommelier” di un ristorante e, soprattutto, direttore di NoidiSala, “associazione di professionisti nata con l’obiettivo di valorizzare questo ambito.”

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Anche in questo caso “si tratta di ridare dignità a una professione che, nell’immaginario comune, si è svalutata.” Il fatto che spesso e volentieri la paga sia misera e/o in nero immagino non c’entri nulla con questa “svalutazione”. Ad ogni modo, come si può vedere qui sotto, i commenti dei lettori non sono stati particolarmente entusiastici.

Questo falso pauperismo d’accatto è accompagnato da altre verità autoevidenti: “studiare non serve a un cazzo” e “l’università è un luogo di cazzoni scansafatiche che si laureano a 35 anni e sono degli sfigati.” Se si prende il XV rapporto Almalaurea sul profilo dei laureati, emerge però come nel 2012 l’età media dei laureati si sia abbassata e, contestualmente, il numero dei fuoricorso sia diminuito tra il 2001 e il 2011. Per quanto riguarda la schizzinosità dei laureati, invece, due studi dell’Istituto Toniolo di Milano hanno mostrato la diffusa rassegnazione dei giovani italiani alla sopravvivenza in un contesto lavorativo crudele e iniquo.

Per i ricercatori, un giovane su quattro (uno su tre al Sud) è ormai disposto ad accettare “un impiego ben lontano dal lavoro desiderato;” e un giovane su due “accetta di lavorare per uno stipendio che considera insufficiente e non rispondente alle prestazioni professionali erogate.” Gli studi contengono anche un'altra informazione interessante. La crisi ha picchiato durissimo i molti under 40 (il 19,2 percento) che hanno aperto un’impresa: “dal 2008 al 2012 sono infatti spariti 313.000 imprenditori under 40.” In pratica, un’ecatombe. Un simile dato, inoltre, fa scoppiare con violenza la bolla retorica—che spesso si tinge di venature quasi messianiche—delle “startup”, ossia il Sacro Graal del lavoro tecnologico e autoprodotto.

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Un articolo del 2011 pubblicato sul Corriere della Sera rendeva conto del travolgente assalto al cielo degli startupperoi, questo “popolo non radiografato da mappe, analisi sociologiche e statistiche” che ha una “unica caratteristica in comune, una sorta di tessera di appartenenza al partito emotivo di Mark Zuckerberg.” Nella visione distorta della realtà propugnata dalla Grande Stampa, lo startupperoe è l’avanguardia tecnoutopista in grado di sconfiggere la crisi con un po’ di nastro adesivo sulla stanghetta degli occhiali, un Mac e un garage polveroso in provincia.

L’altissima mortalità delle startup giovanili e non solo (il 50 percento chiude entro cinque anni dall’avvio) non deve tuttavia scoraggiare lo startupperoe falcidiato da mancanza di liquidità, tasse e burocrazia. Con un po’ di fantasia, infatti, qualsiasi cosa può diventare una “startup”. Persino l’abusato invito “vai a zappare” può acquistare un’irresistibile patica tech e diventare oggetto di un articolo di Riccardo Luna—il più instancabile giornalista-evangelizzatore di startupperoi in Italia—sui “contadini 2.0”. Secondo l’ex direttore di Wired e de Il Romanista, nelle martoriate campagne italiane si starebbe verificando una vera e propria “rivoluzione al contrario”, un passaggio epocale “dai computer alla vanga”, sebbene “la internet” e i laptop siano pur sempre “fondamentali per dare di nuovo un senso non solo economico al vecchio lavoro della vanga.”

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Ecco come ci si sente, secondo shutterstock, una volta trovato lavoro.

La sintetizzazione più letale di questo bis-pensiero è stata effettuata su Solferino28 (un altro sito del Corriere della Sera che raccoglie storie assurde di giovani virgulti cripto-neoliberisti) da Jovanotti. Sì, Jovanotti. Lui In Persona. Ragionare sul fatto che le generazioni precedenti ci abbiano versato addotto tonnellate di debito, sostiene Jovanotti, “non porta da nessuna parte.” L’unica strada percorribile, dice Jovanotti, è quella di diventare “impresari di voi stessi.” “Dimenticate l’idea del posto fisso,” aggiunge Jovanotti. “Non siamo più nel Dopoguerra, quel mondo è finito. Se affrontiamo il destino con un atteggiamento lamentoso, il destino ci punirà.” Già.

Come sopravvivere allora in un’epoca storica in cui, come ha evidenziato lo scrittore tedesco Joachim Zelter nel romanzo La scuola dei disoccupati, “il vero lavoro di oggi non è il più il lavoro in sé, ma cercare lavoro”—un lavoro che ormai non si trova più non per scelta personale, ma per ragioni drammaticamente sistemiche?

In realtà non dobbiamo preoccuparcene più di tanto, dato che tra un po’ sarà tutto finito: siamo davvero “a un passo dall’inversione e dall'uscita dalla crisi più drammatica e buia che le attuali generazioni abbiano mai vissuto.” La recessione sta per finire. Cominciamo a intravedere la luce in fondo al tunnel.

E io mi fido di queste parole. Ci credo fermamente, perché provengono dallo stesso governo che ha parlato di “risultati” nella lotta alla disoccupazione giovanile.

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