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A8N5: È tutto molto strano

Due racconti di Seth Fried

"Il francese" e "Sdraiati e muori".

Portfolio di Marnix Van Uum
Traduzione di Laura Spini

IL FRANCESE

In seconda media, presi parte a uno spettacolo scritto dall’insegnante di ginnastica della scuola. Quell’anno, il professor Whitley aveva convinto il consiglio scolastico a fargli tenere un corso di teatro, così che sarebbero stati obbligati ad alzargli lo stipendio. A noi che seguivamo il suo corso, Whitley disse che aveva scritto la sua pièce perché il maledetto teatro gli scorreva nelle vene. Ma sapevamo tutti che l’aveva raffazzonata alla bell’e meglio durante il fine settimana del Columbus Day per poter tenere a bada le accuse del consiglio, che sosteneva non fosse in grado di dare lezioni di teatro.

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Noi che seguivamo il corso eravamo obbligati a partecipare allo spettacolo. I volantini preparati da Whitley spacciavano La villa della morte—così l’aveva intitolata—per una “storia di intrigo internazionale”, mentre il copione, in sostanza, vedeva me e i miei compagni tentare di risolvere un omicidio mentre, inconsapevolmente, illustravamo la scandalosa visione intollerante che Whitley aveva del mondo.

Il mio personaggio si chiamava Louis il Francese. Il mio costume consisteva in un paio di baffi sottili, una sigaretta di cioccolato, una sciarpa di un rosa chiassoso, e un basco in pendant. Ogni volta che si parlava di un nuovo delitto, il copione mi imponeva di farmi scudo con Jerome lo Schiavo Liberato e gridare “Mi arendò!” In altri casi, dovevo fare gli occhi dolci in modo smaccato a Consuela el Tapas, la focosa fanciulla spagnola. Dovevo afferrarla alla vita e fingere di sbavare. Durante quello che avrebbe dovuto essere il primo gran siparietto comico dello spettacolo, in cui Fräulein Deutchstrudel chiedeva ai suoi ospiti se potesse offrir loro qualcosa, il copione mi imponeva di saltar su e gridare “Dell’altro viiiiiiiiiiiiiiiiiino!” Al posto delle risate, questa frase venne accolta dal suono dei genitori in platea che si rigiravano nei propri sedili, assaliti da un collettivo senso di disagio.

Nell’accesso di pubblico sdegno che seguì l’unica rappresentazione de La casa della morte, la prima pagina dell’Hancock Evening News pubblicò una foto con me ripreso in quel preciso momento. Nella foto, sono in piedi al centro del palco, con le braccia allargate come fossi l’Al Jolson francese. Il basco è piegato in maniera sbarazzina, il mio volto è contratto in tal modo da suggerire allo spettatore che l’accento che sto simulando è il prodotto di una serena ignoranza. Accanto a me, nella fotografia, c’è una ragazza che indossa un cappello a forma di cono e osserva, incerta, il pubblico. Il titolo dell’articolo recita: Sacrebleu! Insegnante licenziato per spettacolo diffusore d’odio.

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La famiglia di Tony Goldman finì per intentare causa al distretto scolastico. Tony aveva recitato nel ruolo di Jerome, e la sua comparsa con tanto di trucco da uomo nero era stato uno dei catalizzatori di attenzione dello spettacolo. La famiglia di Susan Wilson intentò una simile causa. Susan era la ragazzina accanto a me, nella foto di copertina dell’Hancock Evening News. La conoscenza confusa che Whitley aveva dell’estremo oriente aveva conferito a Susan un costume da contadina cambogiana, eppure il suo personaggio, nel copione, era definito più e più volte come “nient’altro che un’umile geisha.”

Dopo che sia i Goldman sia i Wilson ebbero trionfato in tribunale, i genitori di quasi tutti gli altri studenti coinvolti nello spettacolo cominciarono a consultarsi con i propri avvocati sul danno psicologico che era stato fatto ai loro bambini, costretti a prenderne parte.

Comunque sia, i miei genitori furono tra i pochi a non farlo. Ritenevano la mia partecipazione a La villa della morte talmente umiliante che non passò mai loro per la testa di trattare la faccenda in pubblico. Tutti noi che partecipammo allo spettacolo eravamo troppo giovani e ignari per capire quanto in realtà fosse offensivo. Durante le prove, ci eravamo tutti egualmente divertiti. Ma, sul palco, gli altri studenti avevano iniziato a percepire l’accoglienza glaciale che stavamo ricevendo. Dopo un po’, abbassarono gradualmente il tono delle proprie performance e cominciarono a recitare le proprie battute in maniera imbarazzata e frettolosa. Avevano un innato senso della dignità che permise loro di capire che sul palco stava accadendo qualcosa di inaccettabile. Io, d’altra parte, ne ero completamente all’oscuro, e trascorsi l’intera durata de La villa della morte a sovrarecitare. Furono proprio le mie improvvisazioni ad allungare lo spettacolo di venti minuti rispetto alla durata segnalata nel programma. Senza alcuna ragione, a un certo punto presi ad annunciare agli altri personaggi in scena che “A Parigì si dansa così!” Quindi mi lanciai in un ballo spasmodico che, nell’immenso silenzio della sala, deve essere sembrato non finisse più.

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Ero così coinvolto nell’estasi della mia esibizione ridicola da non accorgermi nemmeno che non c’erano applausi, durante la chiamata alla ribalta. Quando la serata si concluse e i genitori cominciarono ad accompagnare i figli a casa, vidi Susan Wilson piangere tra le braccia della madre. Al tempo, pensai che Susan provasse la stessa travolgente sensazione di catarsi che avevo provato anch’io, offrendo tutto me stesso, sul palco.

Mentre vagavo per l’aula magna in cerca dei miei genitori, riuscivo a stento a immaginare l’ammirazione che la mia performance doveva aver suscitato in loro. Erano, notoriamente, facili da accontentare. Una volta, a nove anni, a un pranzo di famiglia indossavo i pantaloncini e a un certo punto venni colto da un attacco di diarrea esplosiva, che finì tutta sul pavimento della cucina di mia zia Rebecca. Più tardi, quello stesso giorno, i miei genitori si complimentarono con me—e lo fecero sul serio—per aver avuto la presenza di spirito di farla in una stanza con il pavimento di linoleum. Ma quando, dopo lo spettacolo di Whitley, ritrovai finalmente i miei genitori nella folla, loro non proferirono parola. Mia madre mi gettò addosso il suo cappotto, mentre mio padre mi prese in braccio e mi portò al parcheggio in una corsetta nervosa. Quando salimmo in auto, mia madre si voltò indietro a guardare la scuola, come se stesse andando a fuoco.

Una volta a casa, mio padre mi disse che non avrei mai più dovuto parlare dello spettacolo di Whitley, o mi avrebbe disconosciuto. Mi fece gettare via il mio costume da Louis il Francese e per tutta la notte io cercai di soffocare le lacrime provocate dalla consapevolezza che i miei genitori erano pazzi. Solo quando Whitley venne licenziato iniziai a capire quanto la loro reazione fosse in realtà stata universale.

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Sebbene i miei genitori si fossero rifiutati di prendere parte al baraccone legale che seguì lo spettacolo, mio padre fece un paio di telefonate furibonde al direttore dell’Hancock Evening News, intimandogli di non pubblicare altre mie fotografie. Ma a quel punto il danno era già stato fatto. Tutti i coinvolti erano d’accordo nel sostenere che fosse irragionevole biasimare un bambino per le colpe di un insegnante di ginnastica di quarantasette anni. Tuttavia, era difficile ignorare la verve idiota con cui avevo portato avanti il mio ruolo. Vedevo, nei volti dei miei insegnanti e dei miei compagni, che l’ignoranza che avevo involontariamente espresso sul palco veniva interpretata come una parte immutabile di me.

Dopo lo spettacolo di Whitley, persino gli insegnanti più giovani e ottimisti non smaniavano dalla voglia di affidarsi a me. Persino gli studenti che in mensa si divertivano a dire battute razziste capivano che, dato che i giornali non avevano pubblicato esempi dei loro pregiudizi, potevano occupare gli alti piani della moralità. Il ricordo dello spettacolo si dissolse nel giro di poche settimane, ma il marchio d’infamia mi rimase attaccato per anni. Da quel momento in avanti, la mia vita venne sempre definita da un tenace, opprimente senso di vergogna.

Dopo qualche tempo, mio padre eliminò il veto sul menzionare lo spettacolo. Per tutto il liceo, fu addirittura una battuta ricorrente. Ogni volta che mi capitava di fare qualcosa di particolarmente sconsiderato, mio padre mi chiamava Louis, al che io ridevo e mi scusavo per qualunque reato avessi compiuto che aveva potuto risvegliare quella battuta. Lui non poteva rendersi conto di quanto, in effetti, mi desse fastidio quando mi ricordava di Louis il Francese, o quanto avrei preferito che si fosse attenuto alla sua sentenza iniziale: non nominare mai più la pièce di Whitley.

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Ancora oggi, ho il terrore che alcune delle fotografie dell’Hancock Evening News tornino a galla nella mia vita di adulto, e io sia tenuto a risponderne. È, naturalmente, una paura irrazionale. Quelle immagini hanno quasi due decenni, ormai. Nessuno sarebbe in grado di riconoscere quel dodicenne vestito da francese sgargiante. Ma la possibilità infinitesimale che qualcuno mi riconosca è abbastanza per tenere accesa la paura.

Una delle mie maggiori preoccupazioni, credo, è che mia moglie possa scoprirlo. Viene dai Paesi Bassi e, per quanto la cultura olandese sia riuscita a sfuggire agli interessi di Whitley nella stesura de La villa della morte, sarebbe umiliante che lei scoprisse della mia partecipazione a uno spettacolo così attento a fraintendere altri esseri umani.

In fondo, ho visto camerieri che aggrottavano la fronte non appena sentivano l’accento di mia moglie, come se lei dovesse loro una qualche spiegazione. Ho visto commessi di supermercato che si sforzavano di farla sentire stupida nelle rare occasioni in cui lei sbagliava qualche parola inglese. Ho visto pubblicità televisive e programmi per bambini dipingere il paese in cui i suoi nonni sono sepolti come un paesaggio cartone tutto mulini e scarpe di legno. E nonostante lei sia troppo equilibrata e felicemente pacifica perché queste immagini le diano fastidio più del dovuto, mi rendo conto che per un momento il fastidio c’è, e che è frustrante vedere quel luogo—colmo di tutti i ricordi indescrivibili della sua infanzia—ridotto a un qualcosa di offensivamente carino.

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Ci sono momenti in cui queste diverse forme di insensibilità si ammonticchiano l’una sull’altra, e quel che ne risulta è, per lei, un chiaro senso di esclusione. In notti come questa, la sento parlare nel sonno. Si tratta di episodi brevi—ricordi dei primi tempi in cui viveva negli Stati Uniti—in cui lei cerca di ricordarsi una parola inglese che continua a sfuggirle. Durante questi episodi, la sento parlare ai gestori dei lavasecco, chiedere indicazioni stradali a degli sconosciuti—tutta quella serie di prime interazioni snervanti. Ha un tono umile, sempre pieno di disagio. Quando riesco a prevedere questi episodi, la sveglio prima, per evitarle un’inutile ansia. Ma, se non presto sufficiente attenzione, potrei venire sorpreso dalla voce di mia moglie che cerca di ricordarsi come dire cestino del pane in inglese, mentre rivive una vicenda accaduta in un ristorante sette anni fa.

A sentirla così, tendo a ripensare a Louis il Francese e il cuore mi si stringe per quell’antica umiliazione. L’idea che qualcuno possa mettere a disagio o possa far sentire fuori luogo una persona intelligente e gentile e generosa di spirito come mia moglie mi riempie di un’indignazione che rivolgo unicamente verso me stesso.

Ma ci sono alcuni momenti di pura bellezza. Quando la sveglio, sa sempre di aver parlato nel sonno. Mi chiede di cosa ha parlato, questa volta, e io le spiego che stava cercando di chiedere al cameriere di portarle altro pane. Quindi, pronuncia la parola in maniera trionfante -cestino!- prima di ricadere nel sonno.

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In momenti come questo—mia moglie confortata dalla consapevolezza di essere a letto con suo marito—mi domando: quand’è che ho cominciato a capirci qualcosa? Quand’è che ho cominciato a diventare il tipo di uomo che la merita? Quand’è che le carenze della mia giovinezza si sono trasformate in una porta che sono riuscito ad attraversare? Ho stampata in mente la fotografia sulla prima pagina dell’Hancock Evening News, le mie braccia allargate nella completa fioritura della mia stupidità. Cerco di ripetermi che stava accadendo in quell’istante, prima che capissi.

Il giorno dopo la mia nascita, mio padre venne ucciso da un colpo di pistola. Si trovava a St. Louis, in Missouri, e sono portato a immaginare che le cose, laggiù, non gli stessero andando troppo bene. Sono portato a immaginare molte cose, sul conto di mio padre—che fosse alto, che si rasasse contropelo, che la sua morte sia stata tragica e immeritata—e, sebbene io non abbia mai ceduto alle scaramanzie, sono anche portato a immaginare che, in qualche modo, sapesse bene che non sarebbe vissuto abbastanza da vedermi nascere.

Per esempio, mi portò a una partita di baseball quando ero ancora nell’utero. C’è una foto scattata al Tiger Stadium in cui mia madre si allunga scomoda sul sedile, un berretto da baseball appoggiato al ventre in una precisa angolazione. Queste sono, mi pare, azioni di un uomo che ha seri dubbi riguardo la sua capacità di sopravvivere per i nove mesi che suo figlio impiegherà a nascere.

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Mia madre non mi spiegò mai perché qualcuno avesse sparato a mio padre, né chi fosse quel qualcuno. Il che, pur quando ero bambino, mi sembrava strano—una stranezza che venne complicata dal fatto che, quando avevo tredici anni, mia madre venne rapita durante un viaggio improvvisato alle Cascate del Niagara e non venne rivista mai più.

La mia famiglia era ricca di storie come questa: suicidi sospetti, sparizioni improvvise; la polizia ci vedeva sempre un qualche gioco sporco. Uno zio scompariva per venire ritrovato maciullato da un trattore a miglia e miglia da casa; una cugina scappava di casa, per ricomparire, settimane più tardi, con le vene mozzate in una nave cargo diretta in Sud America. Era come se il nostro albero genealogico fosse stato disegnato con l’inchiostro simpatico, nomi e rami che scomparivano alla stessa velocità in cui erano stati tracciati.

Anche gli oggetti che erano associati alla mia famiglia per un semplice legame di proprietà erano altrettanto maledetti: gli animali prendevano fuoco; sinistramente, gli elettrodomestici nuovi di zecca si rifiutavano di funzionare.

Ricordo che un pomeriggio d’estate osservai mia zia Loyola che attaccava un frullatore nuovissimo alla presa della sua cucina dai muri color crema, e poi premeva “Pulse”. Rimase ad ascoltare gli innaturali ronzii, osservando le pale che si ostinavano a non girare. Poi, all’improvviso, come se il brusio del frullatore in panne fosse il suono che contraddistingueva i destini di noi tutti, scoppiò in lacrime.

Sei mesi più tardi, nel parcheggio della Chiesa del Santissimo Sacramento, venne messa sotto e uccisa da una Buick dopo la messa del sabato sera.

Naturalmente, crescere con tutte queste morti intorno fu difficile e, ancora oggi, non riesco a uscire di casa senza essere accompagnato da un minimo di angoscia. Vedo furgoni con i finestrini oscurati, trebbiatrici e cippatrici ferme inspiegabilmente nel mezzo di strade trafficate; suoni sospetti; sconosciuti dall’aspetto inferocito; ovunque, individui imprudenti, tutti diretti verso un pericolo ancora ignoto; e allora, quando vedo quel momento arrivare—i lampioni che si spengono non appena cammino sotto la loro luce—il momento della mia morte prematura e certa, allora tendo a pensare a mia madre e a mio padre in termini di destino e possibilità.

Penso alla possibilità che una palla in foul colpisse mia madre nel ventre, quel giorno al Tiger Stadium, e penso all’aborto che ne sarebbe conseguito. Penso a mio padre che scansa quel proiettile a St. Louis e attacca il suo assalitore lasciandolo tramortito. Penso a mia madre che arriva alle Cascate chiusa in una botte, sfugge per un pelo al rapimento, e racconta la sua storia ai soccorsi dopo essere stata ripescata dalle acque ed estratta dal barile; la vedo lì, completamente bagnata e senza fiato, sul ponte di un battello che la osserva a bocca aperta.

La mia mente vaga ancora un po’ e quel momento passa e non sono morto—e tutt’a un tratto l’idea che il mondo sia un’unica storia di morti tristi e assurde sembra quasi confortante.

Quello che accade poi è variabile. A volte la luna è grandissima, o si sente il suono distante di un treno, o di un cane che abbaia, o di cavallette tanto rumorose da far male.