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“Arbitro infame”: i miei anni da direttore di gara nelle serie minori del calcio italiano

Per più di dieci anni ho girato i campi di provincia di tutta Italia per arbitrare i campionati delle basse categorie, finendo per essere insultato dai padri dei pulcini e rischiando il linciaggio più di una volta.

Tutte le foto per gentile concessione di Dario Cocciolo.

Tre anni fa mi è stato offerto un lavoro in Slovacchia, a Nitra, come ingegnere energetico e nucleare, ed è qui che mi trovo adesso. È un'opportunità che molti neolaureati italiani avrebbero colto senza pensarci due volte, ma la verità è che accettare non è stato affatto semplice, perché mi ha impedito di continuare a fare quello che preferisco: arbitrare.

Sono entrato ufficialmente in federazione in prima liceo, quasi per caso, e per molto tempo ho viaggiato e arbitrato ovunque in giro per l'Italia, per svariate serie e categorie e nei campi più disparati. Sono stato insultato pesantemente da padri di ragazzi appena adolescenti, e minacciato di linciaggio nei campetti di provincia delle serie minori talmente tante volte da perdere il conto; ho arbitrato in campi di provincia che fungevano anche da eliporti per gli ospedali (e su cui una volta è atterrato un elicottero); ho passato i miei sabati a studiare giocatori e squadre semisconosciute, andando a letto alle 9 di sera; ho arbitrato Marco Delvecchio, e un campione del mondo argentino che era finito a giocare nelle categorie più basse del campionato italiano; e per più di 12 anni la mia identità, qualsiasi cosa facessi, è stata indissolubilmente legata all'essere un arbitro.

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Sono entrato in federazione senza troppe aspettative, quasi per caso, e non per conseguenza. Il vero motivo è che a 15 anni arbitrare mi sembrava un ottimo sistema per ottenere la tessera e andarmi a vedere le partite del Lecce gratis. La sede della federazione era proprio dietro la mia scuola, e un giorno ho semplicemente deciso di iscrivermi ai corsi preliminari.

La trafila è stata molto meno impegnativa di quanto mi aspettassi, ma anche illuminante: le lezioni sono strutturate in modo da analizzare ognuna delle 17 regole che impostano il gioco, e anche solo dopo aver seguito i primi corsi capisci che la stragrande maggioranza dei tifosi non ha idea di quale sia effettivamente il regolamento del calcio. Da quando ho iniziato ad arbitrare, sono diventato una specie di manuale umano per amici e conoscenti.

L'esame per diventare arbitro consiste nella compilazione di un referto di gara, l'unico documento giuridico esistente per testimoniare che una gara ufficiale si sia effettivamente svolta. Compilarlo nel modo giusto è della massima importanza. Se c'è stata una condotta violenta di un giocatore, ad esempio, l'episodio va illustrato nei minimi particolari, perché poi la sanzione verrà valutata solo attraverso il tuo racconto. Non ci sono telecamere.

Passato l'esame, quindi, ho potuto iniziare ad arbitrare i Giovanissimi, la categoria che va dai 12 ai 14 anni, a livello provinciale. È una categoria utile per abituarsi all'arbitraggio, sia perché si gioca un calcio senza troppe pressioni, sia perché è un modo infallibile per fare il callo ad insulti e minacce: a vedere le squadre di calcio di 14 anni ci sono soltanto i genitori , ma proprio perché il pubblico è esiguo puoi benissimo sentire dal campo ogni "ARBITRO FIGLIO DI PUTTANA" che ti arriva dalle tribune (mentre quando arbitri di fronte a 7000 persone e prendi una decisione controversa senti più che altro dei boati di urla). E te ne arrivano parecchi, perché i padri sono accanitissimi e pensano che il proprio figlio sia il prossimo George Best.

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La prima partita che ho arbitrato la ricordo benissimo: due tempi da 30 minuti fra due squadre di ragazzini dodicenni, in un campo dell'oratorio. Lo spogliatoio era dentro la chiesa, e fra primo e secondo tempo sono dovuto andarmi a cambiare passando in mezzo alla messa. Nelle prime tre gare della tua carriera vieni seguito da un tutor, perché sei impacciatissimo e non ce la fai nemmeno a tenere il fischietto in bocca. Nessuno ci pensa mai, perché spesso l'arbitro viene visto come una figura quasi inutile, un ruolo che ricopre chi non sa giocare: ma devi sapere sempre in che posizione stare per vedere l'azione nel migliore dei modi, coordinarti con gli assitenti (quando ci sono) e allo stesso tempo controllare quello che succede sulle panchine. Il livelo di attenzione deve essere massimo.

Anche la preparazione del pre-gara è fondamentale: devi arrivare con un anticipo minimo di un'ora e mezza, controllare che tutto sia disposto secondo le regole (campo, reti, bandierine ecc ecc) e poi confrontarti con la squadra per fare l'appello ufficiale. La gestione psicologica di una gara si gioca in gran parte in quel momento: se quando ti presenti alle squadre ti fai vedere troppo disponibile e informale, stai sicuro che i giocatori in campo se ne approfitteranno. Sono tutte cose che impari fin dall'inizio, anche quando arbitri gli esordienti.

Il rimborso per ogni partita arbitrata, fino alla serie D, è di 20 euro più 21 centesimi per ogni chilometro che ti divide dal campo in cui andrai: chi lo fa, quindi, arbitra soprattutto per passione. Anche se non ho iniziato per vocazione, dopo poco tempo mi ci sono appassionato. Dal momento della designazione al giorno della partita non facevo altro che pensare a quello: andavo a cercare su internet le statistiche delle due squadre, anche se erano di basso livello, per capire quali erano i giocatori più forti o quelli che mi avrebbero dato più problemi. Se, ad esempio, in una delle due gioca un giocatore particolarmente forte (che magari milita in quella categoria a fine carriera) è consigliabile stargli il più vicino possibile in campo, perché su di lui verranno fatti molti falli. È fondamentale poi la preparazione fisica, e per essere nel posto giusto al momento giusto l'arbitro deve essere in grado di correre quanto i giocatori.

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Una gara diretta da Dario Cocciolo quando ancora arbitrava.

A ogni gara vieni osservato, e ti viene dato un punteggio in base alla qualità del tuo arbitraggio: sommando i punteggi ottenuti, poi, si sale di livello. Verso i 18 anni, per esempio, ho cominciato ad arbitrare a livello regionale in tutta la Puglia, in prima e seconda categoria, per poi spostarmi nella sezione del Lazio quando sono arrivato a Roma per frequentare il primo anno di università.

Lì sono iniziati anche i problemi: mi è capitato di dover chiamare la polizia per farmi scortare fuori dallo stadio dopo essermi chiuso negli spogliatoi circondato da tifosi che minacciavano il linciaggio per una partita di prima categoria. Episodi del genere capitano soprattutto al sud, dove anche le stracittadine più insignificanti sono sentitissime, e anche a quei livelli sono presenti migliaia di persone alle stadio, mentre magari capita di andare a Pordenone e arbitrare di fronte a 15 tifosi. Per lo stesso motivo, però, è sempre lì che è più soddisfacente arbitrare.

Una volta, durante i primi anni in cui ero stato passato a livello regionale e ancora andavo ad arbitrare accompagnato da mio padre senza assistenti di linea, ricordo che i tifosi mi hanno aspettato e poi hanno tempestato di pugni l'auto di mio padre mentre lasciavamo il campo. Più avanti, poi, mi è capitato addirittura che la polizia fosse costretta a far partire da Ischia un traghetto per Napoli solo per noi della terna arbitrale, perché avevo annullato un gol in fuorigioco della squadra di casa ed era successo di tutto. Fortunatamente, però, nella mia carriera non mi è mai capitato di essere picchiato sul serio, come è capitato ad altri colleghi della mia età.

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A 23 anni sono stato promosso a livello nazionale, per poi passare alla serie D. Quasi tutti i tifosi italiani seguono il calcio in TV, dove l'attenzione è sempre mirata sulla zona in cui si trova il pallone: ma un arbitro deve valutare le squadre nella loro totalità, perché anche se sei dall'altra parte del campo la posizione della difesa ti può suggerire come verrà impostata la manovra d'attacco quando l'azione si ribalta. Arbitrare cambia anche il tuo modo di vedere le partite: quando seguo il calcio, oggi, lo faccio perlopiù guardando quello che fa l'arbitro.

Una gara diretta da Dario Cocciolo quando ancora arbitrava.

Durante quell'anno ho avuto le mie stagioni migliori, tanto che a un certo punto il designatore decise di farmi arbitrare una gara di serie D che poi sarebbe stata trasmessa su RAI Sport (come capita ogni domenica a una partita delle serie minori). Ero orgogliosissimo di essere stato scelto, ma proprio in quella gara mi è capitato l'errore più grande che abbia commesso: durante un contropiede un giocatore stava puntando l'area di rigore, e siccome l'azione era stata molto veloce io ero piuttosto distante. Difensore e attaccante si sono scontrati al limite dell'area di rigore—fallo netto. Io ero troppo distante per capire se fosse accaduto in area di rigore, e mi sono affidato al giudizio del guardalinee che mi faceva cenno di no con la testa: in realtà non solo era calcio di rigore, ma anche espulsione per fallo da ultimo uomo. I giocatori in campo non si sono lamentati eccessivamente, ma negli spogliatoi l'osservatore si è incazzato come non mai.

Arrivato al terzo anno di serie D, dopo aver arbitrato più di 50 partite nelle serie nazionali e aver fatto un sacco di esperienze importanti (mi è capitato ad esempio di arbitrare la prima partita in casa dell'Aquila dopo il terremoto) ho cominciato a capire che probabilmente non sarei riuscito a salire ancora di livello. Ormai ero laureato in ingegneria, avevo 27 anni, e lavoravo già. Poi è arrivata l'offerta dalla Slovacchia.

Ho dovuto dare le dimissioni e rinunciare alla carriera arbitrale, ma a giugno, quando tornerò in Italia, probabilmente continuerò come istruttore per giovani arbitri. Perché nonostante tutti gli insulti, l'essere considerato alla stregua di un celerino, e le trasferte in province sperdute per tutta Italia, far parte del mondo arbitrale è uno dei pochi modi in cui si può vedere il calcio in maniera diversa.

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