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Mark Zuckerberg è tutt'altro che pazzo

In molti hanno criticato la cifra per la quale Facebook ha comprato WhatsApp. Ma la mossa, oltre ad avere perfettamente senso, è anche molto pericolosa. Per noi, ovviamente.

Illustrazione di James Harvey.

L’acquisto da parte di Facebook di una compagnia che sono troppo vecchio e troppo poco cool per conoscere a fondo, avvenuta per più soldi di quanti ne possa contenere la piscina di Zio Paperone, ha suscitato molte perplessità. Come può WhatsApp valere 19 miliardi di dollari se fattura meno del reparto cappelli di lusso di Harrods? Quello che molte persone intelligenti sembrano non aver capito è che la questione non è il fatturato.

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A Mark Zuckerberg non interessa il fatturato di WhatsApp, perché non è il fatturato a essere importante. Quello che importa è il mezzo miliardo di utenti che ora Facebook può connettere tra loro, guadagnandoci. Come Zuckerberg e altri hanno fatto notare, fondamentalmente non può esistere un servizio che sia cresciuto così tanto e che non abbia un qualche valore. Tanto più se si considera il numero di quanti utilizzano l'app a discapito di Facebook Messenger, per esempio.

La posta in gioco qui sono i dati. È pedante e banale sottolineare per l'ennesima volta che viviamo in un’economia dell’informazione, ma è molto vero; le compagnie tecnologiche con i database più grandi dominano il mercato, che si tratti di Google o Facebook.

Ma queste compagnie non fanno solo incetta di dati: sono sempre più interessate a comprendere e analizzare questi dati. Il campo dell’“apprendimento approfondito” , tema caldo dell’intelligenza artificiale, è uno degli esempi più calzanti.

Cos’è l’apprendimento approfondito? Allora, facciamo finta di avere 10.000 foto. Di queste, 5.000 sono di gatti e 5.000 di lucertole. Dobbiamo cercare di insegnare a un computer come guardare foto di gatti e lucertole che non ha mai visto e riconoscere le differenze tra queste.

Una macchina impostata con l’approccio “apprendimento superficiale” convertirebbe tutte queste immagini in righe di dati numerici e chiamerebbe ogni riga “gatto” o “lucertola”, poi stiperebbe il tutto in un classificatore cercando un modo per scindere i gatti dalle lucertole.

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Funziona, e a volte anche molto bene, ma non è così che lavora un cervello umano. Nel nostro cervello c'è una cosa che localizza gatti e lucertole; noi analizziamo il problema scomponendolo e ne riconosciamo un pezzo alla volta. Vediamo quattro gambe, due occhi rotanti, squame, il colore verde e capiamo che queste caratteristiche appartengono a una lucertola. Per questo motivo, per il modo in cui comprendiamo la gerarchia delle cose che compongono le creature, siamo più bravi dei computer nell’identificarle all'interno di un’immagine che non abbiamo mai visto prima. Con l’apprendimento superficiale, spesso una macchina prova a distinguere tra gatti e lucertole non conoscendo nemmeno la differenza tra squame e pelo.

L’idea che sta dietro l’apprendimento approfondito è che invece di insegnare esplicitamente l’algoritmo “gatti contro lucertole”, fornisci al computer la capacità di imparare le singole componenti per poi metterle insieme, come un bambino che impara prima a emettere suoni, poi a formulare parole e infine frasi complete. Si tratta di un approccio collaudato, straordinariamente efficiente, che ha il potenziale di trasformare molti degli algoritmi che accrescono di giorno dopo giorno la nostra esperienza sulla rete, da un motore di ricerca che riesce a riconoscere le pagine web su cui naviga a un sito di condivisione di foto che individua le facce dei tuoi amici, a un servizio di street-view che riesce a leggere i numeri civici.

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Le tecniche di apprendimento approfondito sono in circolazione da 20 o 30 anni, ma sono costose a livello computazionale e richiedono una grande quantità di dati per essere testate, ed è per questo che il loro potenziale ha iniziato a dare qualche frutto solo negli ultimi anni. Improvvisamente c’è una grande domanda di esperti di apprendimento approfondito. La cosa è diventata chiara grazie a un’altra recente acquisizione apparentemente folle: l’acquisto da parte di Google della startup londinese DeepMind Technologies, il tutto per 400 milioni di dollari—altro che Facebook e WhatsApp. In soli due anni e con qualche dozzina di dipendenti, DeepMind è stata capace di riunire alcuni dei più grandi talenti di intelligenza artificiale del mondo, e poi di vendersi a Google come un centro d’eccellenza pronto all'uso.

Peter Norvig, una leggenda del settore e direttore di ricerca a Google, hadichiarato recentemente che Google ha assunto “meno del 50 ma certamente più del 5 percento” degli esperti mondiali di machine learning. Inserite Facebook, Apple, Microsoft, Netflix e altre grandi aziende tecnologiche nell'equazione matematica e quello che otterrete è una spietata corsa agli esperti che probabilmente hanno in mano non solo il futuro di internet, ma la nostra stessa capacità scientifica di analizzare grandi masse di dati.

Ma questo monopolio di dati e di esperti è salutare? Cosa sarà del futuro della ricerca nel campo dell'intelligenza artificiale, se la metà degli esperti mondiali viene rinchiusa nello stesso recinto della Silicon Valley, raccolta in massa da una compagnia che porta avanti il progetto di preservare la sua posizione di Re di Internet? Una sola azienda potrebbe avere la capacità di determinare il corso di un importante campo della scienza per i prossimi decenni, e i risultati potranno essere tanto miracolosi quanto catastrofici.

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La cosa più degna di nota della reazione all’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook è che gli esperti sembrano più preoccupati dell’estratto conto di Mark Zuckerberg che dei potenziali risvolti sugli utenti di un'azienda che controlla i dati di così tante persone. Per loro sembra quasi si tratti solo di eccesso di stravaganza tra due aziende alla moda, ma sembrano ignorare il contesto più ampio in cui una compagnia con un miliardo di utenti sta fondendo i suoi dati con una da mezzo miliardo.

Nel mondo del business convenzionale, il fatto che un'azienda catturi il 25 percento del fatturato di mercato sarebbe considerato monopolio. Facebook aveva 1,19 miliardi di utenti anche prima di questa acquisizione, il che corrisponde a più di un terzo di tutte le persone in rete. Il suo potere è così forte che una piccola modifica all’algoritmo che regola la sezione notizie ha fortemente ridimensionato da un giorno all’altro la portata di siti come Upworthy. Gli stipendi e le carriere delle persone possono essere minacciate da una cosa così semplice, e ancora pochi sembrano chiedersi se sia un'idea sicura.

Nei secoli scorsi, gli economisti sono arrivati a capire la necessità di controllare i monopoli economici per un bene superiore, ovvero prevenire la stagnazione ed evitare malsane concentrazioni di potere. Nel Ventunesimo secolo riusciremo ad arrivare ad un assunto simile rispetto al monopolio dell’informazione?

Segui Martin su Twitter: @mjrobbins

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