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Leoni spelacchiati - Secondo report dal festival del cinema di Venezia

La 70. Mostra d'Arte Cinematografica è volata a capofitto verso una bella vasca piena di feci, e noi eravamo lì per raccontarvelo.

Prosegue dalla prima parte.

"Ma prendete un motoscafo in due! Prendete un motoscafo in due… sono 30 euro!"

"30 euro tua sorella e comunque non ne vale la pena: quest'anno Venezia è una merda urlante."

Mentre tiro lo sciacquone, capto questa conversazione e non potrei essere più d'accordo. La Settantesima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia è volata a capofitto verso una bella vasca piena di feci.

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Pochissime le eccezioni. Eccoci di nuovo alla resa dei conti.

Philomena, Stephen Frears – In concorso

Dopo quattro giorni di proiezioni mostruose, dove invece delle stelline si distribuivano i minuti di sonnellino, abbiamo visto Philomena e abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo. Scritto, prodotto e interpretato da Steve Coogan—aka il fantastico Alan Partridge nonché attore feticcio di Winterbottom—il film è piacevolmente influenzato dalla sua esperienza di comico. Con Judi Dench nel ruolo dell'adorabile Philomena, racconta la storia vera di un reportage sulle "adozioni obbligate", avvenute in un convento irlandese negli anni Cinquanta. L'ex giornalista della BBC, un po' cinico ma in fondo d'animo d'oro, si prende a cuore la vicenda della vecchietta irlandese e si imbarca con lei alla ricerca del figlio perduto. Puntellato dall'umorismo ghiacciato tipico di Coogan e guidato dalla magistrale interpretazione della Dench, la trama procede con un piccolo evento alla volta, completando un puzzle che sa di umano e commuove pure un po', ma senza retrogusti dolciastri.

Piccola Nota Pedante: Philomena è un buon film, di quelli che si è fortunati di beccare alle 23 in televisione, che fanno piacere agli occhi e all'umore e raccontano storie che andrebbero condivise più spesso. È soprattutto la modalità leggera eppure non superficiale con cui questo film è stato scritto e prodotto che lo rendono notevole. Temo però che, se il festival non fosse stato così deludente, sarebbe spiccato meno.

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The Unkown Known, Errol Morris – In concorso

Niente da dire sull'immenso Errol Morris, l'unico in grado di appassionare alle 8 del mattino con un documentario sulla figura di Donald Rumsfeld. Oltre all'intervista fulcro del doc (mezzo-busto, sfondo grigio), ad accompagnare la visione sono unicamente foto d'archivio, un fondamentale supporto musicale e alcune elaborazioni grafiche piazzate qua e là dove servono. Il Segretario della Difesa che tutti ricorderanno come ossessionato dalle armi di distruzioni di massa in Medio Oriente è ritratto come probabilmente è davvero: un tizio sornione con un triplo pelo sullo stomaco, un po' narciso e dall'umorismo compiaciuto, che è riuscito a far carriere soprattutto per la sua strabiliante abilità nel manipolare l'informazione. Morris riesce a fargli dire quello che con l'arte del bel parlare è riuscito sempre ad aggirare, almeno in superficie: che con la retorica (e la faccia di tolla) puoi passarla liscia e convincerti del contrario, anche quando stai mentendo. Ne sappiamo qualcosa noi con la politica italiana, che è iper-verbosa e incresciosamente prolissa. Forse per questo qui lo capiremo un po' meglio, Rumsfeld, che ha accettato di partecipare a un bio-doc di aperta critica nei suoi confronti e che ogni tanto sgancia frasi come "Tutte le generalizzazioni sono false. Inclusa questa."

The Canyons, Paul Schrader – Fuori Concorso

L'attesissimo e malconcio ritorno di Paul Schrader—quello che ha scritto Taxi Driver e diretto American Gigolò, per intenderci—non prometteva bene. Scritto da Bret Easton Ellis nonché prodotto dalla stessa Lohan, ha avuto grossi problemi coi finanziamenti, finendo per essere sovvenzionato con una colletta su internet e i risparmi di alcuni partecipanti.

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Ciononostante, se siete interessati ad esplorare la profondità del tonfo cinematografico e amate i film "da ridere e da piangere", la visione di The Canyons è consigliata. Toccando picchi che ricordano i migliori Wiseau o Calvagna, il film è un bruttissimo thriller sentimentale ma un ottimo film comico. Quello che in Gerontophilia poteva essere considerata una scelta stilistica consapevole—ma non riuscita e non sostenibile—qui appare come una scelta dettata dal budget mascherata da scelta stilistica consapevole. Il che non sarebbe un problema, se la sceneggiatura non facesse acqua da tutte le parti. Ma del resto, di questi giorni, a nessuno interessa veramente l'intreccio, basta la bravura degli attori, no? E invece, pure su questo punto non ci siamo; a parte la Lohan che fa decentemente il suo lavoro, manca del tutto una recitazione che si possa definire tale. Occhi strabuzzati, voci strozzate e mascelle irrigidite sono il massimo a cui qui possiamo aspirare.

Che rimane allora? Un susseguirsi di episodi ridicoli, spesso involontari ma sempre esilaranti

Innanzitutto, il film si regge letteralmente sulla presenza di smartphone Nokia. I due protagonisti, un'attricetta fallita e un riccastro che investe nel cinema, hanno sempre il touchscreen alla mano, veicolo e sfogo della gelosia che monta all'interno della coppia. Le location, poi—che si vorrebbero minimaliste e lussuosissime—hanno il grigiore lievemente polveroso dei residence per neodivorziati. All'interno si aggirano insegnanti di yoga che covano risentimento, produttori cinematografici costretti a ricevere pompini da attoruncoli dal buon animo ma pronti a tutto per il successo, assistenti un po' tonte vittime di giochi più grandi di loro e… assassini che indossano k-way prima di uccidere!, chirurgia plastica di qualità infima!, Gus Van Sant inspiegabilmente nel ruolo di uno psichiatra!, il ritorno dal buio degli anni Novanta degli avvocati-hacker che craccano gli account bancari altrui con un'istantanea manciata di battute sulla tastiera!

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Ma soprattutto: sesso, SMS & Whatsapp!

A chiudere il capolavoro, una battuta epica nel mezzo di una furiosa litigata tra fidanzati:

"Ma tu come fai a saperlo che il Dr. Campbell è il suo analista?"

"Ma finiscila… l'ho googlato!"

Piccola Nota a Margine: Il cameo di Gus Van Sant.

Gradirei aprire una parentesi sul grave imbarazzo provato ogni volta che un regista appare per poco tempo sullo schermo in un ruolo diverso da se stesso (Woody e Alfred esclusi). Quando poi i registi si rivelano pessimi attori, mi sento sempre a disagio, come se un bambino adorabile mi regalasse un disegno orrendo da appendere ben in vista in ufficio. E poi i camei, anche se molto divertenti, sono come i cellulari che suonano in sala: ti fanno ricordare la realtà, ti dicono "guarda me! guarda me! quello che stai vedendo è finto e tu sei un credulone!" No? Child of God, James Franco – In concorso

Altro caso di "passaggio dall'altro lato dell'obbiettivo", Child of God è la quarta prova da regista di James Franco—ometto multitasking che insinua subito il dubbio "Ma come fa a far tutto?" (per citare un titolo tradotto ottimamente alcuni anni fa). La sua versatilità professionale fa spesso sbuffare e storcere il naso, è vero: però non si può dire che sia un tipo noioso. E invece stavolta è riuscito a superare se stesso, perché se con Child of God non è riuscito a far piangere, senz'altro ci ha fatto venire le ragnatele agli occhi: il film è una noia mortale.

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Partendo da un romanzo di Cormac McCarthy, Franco ci propina 100 lunghissimi minuti—percepiti: 200—sulla vita di Lester Ballard, emarginato matterello che vive ai confini della società. Il protagonista è qui interpretato da Scott Haze, che sarebbe anche un bel figliolo se non colasse muco ogni due per tre, comunicando solo tra rantoli e scoreggine. Ma va bene, perché deve fare l'outcast, il poveraccio, il disgraziato ritardato, il necrofilo! Come il racconto di McCarthy, la storia narra la vicenda di una necrofilia prolungata e disperatissima. Ma se il proposito di Franco era quello di commuovere—di scandalizzare, oh-o!—lo spettatore, risvegliando pietà o empatia per il lesto stupratore, allora gli manca il concetto di "suggerire, evocare invece che dire". Moltissime scene sono oltremodo calcate, ripetitive al loro interno, appesantite da dettagli crudi ma inutili. Le due smorfie del protagonista, sopracciglia corrucciate e denti che scattano in fuori, esasperano dopo poco e sfociano nel tic artefatto in più di un'occasione.

Insomma James, ti si vuole bene e stai a tutti simpa, ma almeno sta cosa della regia lasciala stare.

Palo Alto, Gia Coppola – Orizzonti

Pronti per un secondo giro di Franco?!

Palo Alto siamo andati tutti a vederlo perché è di Gia Coppola, nipote di e cugina di. (Sì, c'era anche Nicolas Cage al Lido, con l'ennesimo film sui selvaggi redneck del Midwest: nessuno ancora si da pace sul fatto che Winter's Bone sia unico nel suo genere). Non paga di partire da situazione già molto avvantaggiata, Coppola Junior-Junior ha coinvolto anche James Franco, che è produttore, attore e creatore del soggetto di Palo Alto, originariamente romanzo.

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Però il film è carino: è stato proprio una "ventata di freschezza" nella soporifera afa di Venezia 70 —e non solo per l'aria condizionata che iniziano a spararti a metà proiezione. L'adolescenza è un periodo di merda, lo sappiamo tutti. Ma è anche un'età dove le cose ti scoppiano nel cuoricino e ti sembrano immense ed è così che poi tutti le ricordano. Un po' storia d'amore, un po' Spring Breakers all'acqua di rose, Gia Coppola presenta un lavoro a volte disordinato: si capisce che le piacciono un sacco di cose, che non sa ancora decidersi su un'estetica definita, che ci teneva un po' troppo a coinvolgere i suoi amici. Ciononostante, riesce ben a distaccarsi dalla scuola dei vari Korine e Clark, di cui pure è prodotto diretto. I ragazzini-attori sono bravissimi (ah sì, c'è un'altra nipote: quella di Julia Roberts) e la colonna sonora è divertente e realistica (cioè: possiamo cantarla coi protagonisti). Fa piacere vedere che le nuove leve lavorano sodo e con serietà: alla fine aver letto tutti quei VICE ha portato a qualcosa!

The Reunion, Anna Odell – Settimana della Critica

L'ondata scandinava sta tornando in mille varietà e che io sia maledetta se dico un'altra volta "che palle 'sti scandinavi" (i francesi, piuttosto…). The Reunion è un ottimo film, anche se ha tanti difetti. È lontanissimo dall'estetica rarefatta dei film che ci piacciono tanto adesso, tipo Lanthimos o Haneke o Seidl. È pure lontano dal bling bling-bang bang più recente, tipo Noé o Korine o Refn. Ha la consistenza di un film per la televisione, e la sua protagonista, Anna Odell (che è anche regista-sceneggiatrice) ha gli occhi di una pazza. Però caspita, che lavoro!

Anna è un'ex bambina vittima di bullismo che decide di togliersi qualche sassolino dalla scarpa durante una rimpatriata di classe. Da subito si percepisce l'insofferenza dei compagni e la disperazione di Anna: in un climax rapidissimo acquisiamo e rifiutiamo contemporaneamente i punti di vista di tutti i personaggi, anche se opposti. Non so se è stato l'incomprensibile svedese ad aiutare, ma Odell riesce a creare una specie di empatia a rimbalzo che tiene incollati fino alla fine. E questa è solo la prima parte! La seconda si costituisce come un documentario fittizio, volto ad analizzare le reazioni di chi il bullismo l'ha compiuto dieci anni prima: Anna cerca di contattare i vecchi compagni e sottopone loro la visione del film che abbiamo appena visto. Risultato è una riflessione diretta e onestissima sul trattamento della finzione e la modificazione della realtà, sul ruolo del punto di vista e dell'autobiografia, sulle ripercussioni dell'infanzia nell'età adulta… bombe impegnative, mi rendo conto, ma la cosa eccezionale è che non pesano. Basta fronzoli, basta meta-discorsi e paratesti posticci: ecco un film che parla come mangia.

Segui Clara su Twitter: @cmirffig

Per sapere cos'altro è successo a Venezia, leggete la prima parte.

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Poltronette