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A8N8: Sei del deserto e non lo sai

Finale di stagione

Un racconto di Lynn Coady.

Foto di Francesco Nazardo.

C’è voluto un po’ perché l’establishment letterario canadese accettasse Lynn Coady. Il crudo realismo, la profanità e le dure scene di sesso che permeano la sua scrittura si scontravano col pubblico medio, e solo nel 2011, con la selezione per il prestigiosissimo Giller Prize del suo The Antagonist—un romanzo in prima persona su un giocatore di hockey ormai finito e con un passato difficile—è arrivato il dovuto riconoscimento. Siamo dunque orgogliosi di ospitare sulle pagine di questo numero il suo nuovo racconto, accompagnato dalle foto di Francesco Nazardo. Francesco vive a New York, e recentemente ha esposto i suoi lavori nella mostra The Future of Photography.

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Lorelei tornava a casa da scuola e si metteva davanti alla tv. Alle tre c’era Desperation Row, ma non arrivava mai in tempo per vederlo tutto. Avrebbe potuto guardarlo più tardi, in streaming su internet, ma così si sarebbe guastato il rituale, il correre a casa in fretta e furia per seguire gli ultimi dieci minuti—a conti fatti, gli unici veramente indispensabili. Quella era la vittoria minore. Alle quattro iniziava Lakeside, anch’esso parte del rituale: era la vittoria maggiore, e la delusione per aver perso Desperation Row lasciava in un istante il passo al piacere, quello che Lorelei provava fingendo di essersi appena ricordata che—Evviva!—poco dopo sarebbe incominciato Lakeside.

Lakeside era ambientato in estate, particolare che lo rendeva il programma ideale da seguire durante l’anno scolastico. I protagonisti erano dei vacanzieri che abitavano in grandi e costosi cottage intorno a un lago, organizzavano barbecue e picnic sulla spiaggia, sorseggiavano bevande fredde e si godevano qualche flirt. Se gli spettatori volevano comprare un cottage, uno degli elettrodomestici in uso o qualsiasi altra cosa catturasse la loro attenzione all’interno del programma, alla fine di ogni spezzone, immancabili, comparivano sullo schermo un numero di telefono o un sito. Di tanto in tanto Lorelei lo visitava, e la pagina era tutta un’adulazione: “Scegli il tuo cottage!” Lorelei lo faceva, sceglieva il suo preferito—era sempre lo stesso, quello in cui abitava la donna più bella di tutto Lakeside, con una fontana. Inseriva tutti i dati personali richiesti dal sito, per poi chiudere inesorabilmente il browser una volta arrivata alla sezione relativa al pagamento.

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I reality show andavano in onda dopo cena. Il preferito di Lorelei era Do Me All Over, nel corso del quale la troupe perlustrava i quartieri peggiori delle città peggiori e raccoglieva le peggiori prostitute che si possano immaginare. Il pubblico andava fuori di testa nell’immaginare che esistessero persone disposte a pagare per fare sesso con donne del genere.

Prima di tutto, le prostitute dovevano sottoporsi a un’intervista e parlare della propria vita. C’erano domande sulla tipologia di clienti e sulle preferenze di questi ultimi, una parte solitamente molto divertente e volgare. Ma a volte le prostitute parlavano dei terribili modi in cui erano state picchiate o violentate, e l’umore dello studio televisivo si faceva compassionevole e cupo.

Una volta il conduttore intervistò una ragazza di nome Evvie. Le mancavano dei denti e sul corpo portava croste che si era procurata quando, sotto l’effetto di droga, aveva sentito muoversi sotto la pelle quelli che aveva chiamato “formicolini.” La puerilità dell’espressione aveva innescato la risata del pubblico preregistrato. Sembrava una parola uscita dal cortile di qualche scuola elementare. Immaginate una Evvie piccola, in cortile… una bimba come tante, con dei genitori! Questo episodio aveva portato a una certa umanizzazione del personaggio, un sentimento non facile da suscitare con tale rapidità nell’arco prestabilito del programma.

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Nelle prime interviste le prostitute non venivano mai sistemate o agghindate. Le croste ancora fresche di Evvie scintillavano sotto le luci dello studio; non le avevano lavato i capelli, e le telecamere si fermavano con insistenza sui denti. Lorelei notò che la sua bocca era leggermente deforme, come se l’avessero colpita, come se fosse finita tra le grinfie di un qualche macchinario.

Il conduttore riprese, “Allora Evvie, hai passato dei brutti momenti in strada, vero?” Quelle parole servivano da suggerimento al pubblico, perché mettessero da parte le risatine e si preparassero a una serie di dettagli tristi e crudi.
“Già,” fece Evvie con la sua bocca storta.
“Uno dei tuoi frequentatori ti ha picchiata piuttosto malamente, vero?”
“Diceva di volere il pranzo,” rispose lei, e il pubblico non poté fare a meno di ridacchiare, sapendo dalle precedenti puntate in cosa consistesse quel tipo di pranzo.
Il conduttore lanciò qualche occhiata per ristabilire l’ordine. “Ma voleva qualcosa di più, Evvie? Eh?” 
“Sì.”

All’inizio praticamente nessuno dei casi presentati, pensò Lorelei tra sé e sé, amava conversare. Dovevano sempre cavargli le parole di bocca. Ma la cosa funzionava, creava suspense. Il conduttore ci giocava, si ingraziava l’ospite, e lentamente faceva affiorare i dettagli. Ormai Lorelei capiva molto bene la tv, tutti i suoi trucchetti, e non storceva il naso né provava fastidio. Si limitava a rilevarne l’efficacia, lasciando che il programma svolgesse il suo ruolo di intrattenimento.

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“Il suo furgone,” riprese Evvie.
“Cosa c’era nel furgone, Evvie?”
“Delle corde. Dei ganci. E dei bastoni, e altre cose.”
“E non è finita lì, vero Evvie? C’era qualcos’altro, qualcosa che hai notato soltanto dopo. Di che si trattava?”
“C’era della plastica.”
“Plastica? Sì?”
“Una pellicola di plastica, copriva tutto l’interno del furgoncino.”
“Continua.”
“Per il sangue. Il mio sangue.”

Il pubblico emise un unico gemito addolorato, e sullo schermo si succedettero una dopo l’altra diverse inquadrature delle loro espressioni. Si scambiavano sguardi a occhi spalancati, bisbigliando.

“Evvie,” concluse con tono rassicurante il conduttore dopo che la prostituta ebbe ultimato lo sconvolgente racconto della sua avventura, giunta al termine quando un gruppo di uomini, sentite le urla e i rumori e avvicinatosi al furgone, aveva iniziato a scuoterlo finché lei non era stata liberata (“Hanno trovato il tuo aggressore?” “No.”) “Siamo qui per evitare che fatti del genere possano ricapitarti.”

A quel punto gli applausi del pubblico si fecero rumorosi, sollevati. Evvie aveva superato l’oscurità della notte, ed era solo all’inizio del suo nuovo percorso verso l’alba—tutto grazie a Do Me All Over. Evvie era terribile, ripugnante. Ma presto tutto quell’orrore sarebbe stato strappato via, staccandosi dalle sue membra in maniera simile a croste su una pelle ormai sana, e alla fine della serie la donna avrebbe fatto ritorno di fronte al pubblico come un’eroina, una fonte di ispirazione per chiunque.

Il resto della stagione dedicata a Evvie sarebbe stato consacrato, nell’ordine, a disintossicazione da droghe e alcol, alimentazione bilanciata, esercizio fisico, cura dei suoi denti e della sua persona, abbigliamento, approfondimento di ogni relazione famigliare recuperabile a vantaggio della drammaticità d’insieme, e, infine, chirurgia estetica. Nell’ultimo episodio della stagione avrebbero mostrato una Evvie completamente trasformata accanto a una foto di come era prima, e Lorelei, così come ogni altro singolo spettatore sulla faccia della terra, avrebbe versato lacrime di gioia, perché il mondo è un luogo di bellezza e speranza, nonostante le apparenze. E le possibilità. Quelle sono la cosa più importante. Non c’era niente di definitivo, tutto poteva cambiare. Bastava conoscere le persone giuste.