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reportage

Dentro il Ghetto di Rignano

Sorto spontaneamente più di 15 anni fa, d'estate il ghetto arriva a ospitare anche 800 migranti sfruttati come braccianti. Ho passato quattro notti tra i suoi abitanti, al centro del “triangolo della schiavitù” che copre quasi tutta la provincia di...

I neon colorati e la musica afro sparata da qualche cassa perforano il silenzio della campagna pugliese. Dovrei essere in mezzo al nulla, eppure la zona è abbastanza trafficata: ci sono automobili, motorini, biciclette e passanti che vanno e vengono. Sono circa le 10 di sera, e dopo quasi due ore di disorientamento nelle dissestate strade della provincia di Foggia arrivo in quello che gli abitanti del luogo chiamano il Grande Ghetto, o più semplicemente il ghetto di Rignano.

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Il ghetto è sorto spontaneamente più di 15 anni fa, dopo lo sgombero di uno zuccherificio dismesso che ospitava molti braccianti stranieri sfruttati nei campi del “triangolo della schiavitù”, una zona che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Lo sfruttamento dei migranti nell'agricoltura non si ferma solo alla Puglia, ma si estende ad altre parti d'Italia. Secondo un rapporto del 2012 realizzato da Flai-Cgil, sarebbero 700 mila i lavoratori regolari e irregolari impiegati nei campi, di cui circa 400 mila coinvolti in forme di caporalato.

L'interno di una delle baracche.

Il “villaggio” di Rignano è cresciuto e si è strutturato negli anni fino ad arrivare alla forma attuale. La demografia varia a seconda delle stagioni e della necessità di manodopera legata alla raccolta di pomodori e altre colture: d’inverno ospita più o meno 200 migranti (prevalentemente dall’Africa francofona), d’estate si arriva anche a 800. Alcuni abitanti del Ghetto sono arrivati in Italia in aereo anche più di 20 anni fa, mentre gli ultimi in ordine d’arrivo hanno attraversato il deserto e si sono imbarcati illegalmente.

Quando riescono ad attraversare il Mediterraneo, i braccianti delle campagne del sud sono costretti ad accamparsi in fabbriche abbandonate, sopravvivono a stento con una paga da fame e devono subire ogni tipo di angheria, mentre i proprietari terrieri azzerano del tutto il costo del lavoro e incassano profitti. È una situazione degna del Medioevo. Tuttavia la polizia—che ovviamente è a conoscenza del ghetto—non interviene mai, fondamentalmente perché nessuno crea problemi. Il ragionamento è tipicamente italiano: se tu non fai casino, io faccio finta di niente. A ben vedere, l'esistenza stessa del ghetto è illegale da ogni punto di vista; ma al tempo stesso è ampiamente tollerata, visto che gli abitanti non rubano, non uccidono e non fanno altro che lavorare come degli schiavi.

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La Regione Puglia ha fornito l’acqua potabile, tramite cisterne che vengono riempite periodicamente, solo qualche anno fa, dopo la pressione esercitata da alcune associazioni. In passato, riporta Frontierenews, l’assenza di acqua aveva causato la morte di diversi migranti, “affogati dentro vasconi per l’irrigazione dove volevano lavarsi o attingere acqua.” Stesso discorso per i bagni, installati nell’estate del 2011: prima, ricorda Nigrizia, “ragazzi, donne, bambini e adulti urinavano e defecavano nei campi, trasformando l’intero villaggio in una latrina.” Nel novembre del 2012 è scoppiato un incendio (probabilmente a causa di una candela accesa inavvertitamente) che ha distrutto una trentina di baracche, senza causare vittime.

La macelleria di Madi.

Appena arrivo Madi, originario del Burkina Faso e macellaio ufficioso del ghetto, si prodiga per trovarmi un posto dove dormire e mi offre la prima cena: pezzetti di pecora cotti alla brace e poi affumicati. A stomaco pieno faccio un giro di ricognizione: è quasi tutto avvolto nell’oscurità, e solo qualche generatore porta l’elettricità a baracche con neon blu e rossi.

Mi avvicino a una di queste e vengo fermato da due ragazze che, senza troppi complimenti, mi accarezzano il mento. Capisco subito di essere in una sorta di bar/bordello. Rifiuto l’invito e mi addentro nel locale per bere una birra. Me la serve il primo bianco che vedo da quando sono arrivato, e dalla sua faccia mi accorgo che la conversazione non è esattamente tra le sue priorità. Mi limito a pagare e comincio a camminare per le strade principali del ghetto: gli abitanti sono tutti impegnati in lente camminate verso il nulla. Qualcuno gioca a calcio balilla.

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Ba, Guinea. È in attesa del salario per potersi spostare a Rosarno.

Torno alla macelleria di Madi che mi accompagna al mio alloggio, consistente in un materasso appoggiato sul retro di un “bar” illuminato da neon blu. Fuori dal bar conosco Ba, un giovane della Guinea che mi spiega che in questo periodo non sta facendo praticamente nulla: “Qui il lavoro è finito.” Ba si limita a passare le giornate aspettando il momento giusto per spostarsi a Rosarno, città in provincia di Reggio Calabria divenuta “famosa” per la condizione di schiavitù a cui sono costretti i migranti che raccolgono mandarini e arance. Nel 2010, proprio a Rosarno era scoppiata una clamorosa rivolta dopo che qualcuno aveva ferito alcuni immigrati con un’arma ad aria compressa.

La luce del sole del mattino mi dà un’idea della vera conformazione del ghetto: una lunga distesa di baracche in plastica, lamiera e cartone nel mezzo di una terra di nessuno. Le baracche sono costruite personalmente dai migranti, che naturalmente non pagano alcun affitto. Quando lasciano il ghetto, la loro baracca viene affidata o regalata a un amico o un parente. Poiché negli ultimi anni il flusso di africani si è intensificato, il Ghetto di Rignano è in continua espansione, allargandosi a vista d’occhio nel "deserto" pugliese.

Uno dei negozi del ghetto.

Qualche migrante sbuca dai passaggi strettissimi tra una baracca e l'altra e mi guarda perplesso. Nel Grande Ghetto c'è davvero di tutto: macellai, piccoli negozi di fortuna con beni di prima necessità e cianfrusaglie varie e ristoranti fatiscenti che in realtà sono la dimora delle poche donne che lo popolano. In fondo a una delle strade principali scorgo anche un'officina meccanica all'aperto nella quale stanno lavorando quattro o cinque persone. Qui trovo le prime difficoltà: i ragazzi si scaldano e dicono che non vogliono essere fotografati per nessun motivo, e mi invitano ad andarmene. Raccolgo il consiglio e mi limito discretamente a farmi vedere in giro per il ghetto, camminando, chiacchierando con qualche residente e consumando un pranzo a base di fagioli e interiora di non-so-quale-animale nella baracca di una signora che, stranita dal fatto che dei bianchi mangino lì, mi guarda e sorride.

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La moschea del ghetto.

Gli abitanti del ghetto di Rignano si dividono fondamentalmente in due tipologie: c’è chi vuole parlare e farmi capire la loro condizione e chi invece è quasi spaventato e preferisce solo salutare. Incontro dei ragazzi del Mali che mi forniscono alcune cifre: il lavoro nei campi di pomodori, che in estate va per la maggiore, è pagato tra i 2,50 e i 3,50 euro l'ora, sempre che il “capo-bianco” (ossia il caporale) non paghi a cottimo. In media un lavoratore riesce a guadagnare 25 euro al giorno. Peccato che il solo tratto Ghetto-Foggia e Foggia-Ghetto gliene costi 10. Altri mi dicono che a Rosarno pagano un euro a cassetta di mandarini e 70 centesimi per le arance.

Il locale di Fatima.

Torno al mio alloggio. Fuori c'è Fatima, la proprietaria del locale. Lei vive nel ghetto da 13 anni e ha tutta l'aria di essere una specie di portavoce dell'intera baraccopoli. Fatima mi spiega che la maggior parte degli abitanti ne ha le palle piene dei giornalisti che vengono a fare riprese e interviste: “Tutti dicono che vengono qui ad aiutare. Ma poi se ne vanno, e non aiutano mai.” Un signore sulla cinquantina, che si trova lì accanto, dice di essersi visto in televisione e di non essere stato particolarmente contento.

Al tramonto è il momento dello shopping. Dal campo rom limitrofo ogni giorno arrivano macchine e furgoni carichi di giacche, scarpe, stereo e paccottiglia varia, acquistabile a cifre molto ragionevoli. C'è anche un italiano a vendere, una specie di cowboy sulla sessantina con il baule pieno di scarpe e il sigaro in bocca. Di notte, invece, i neon e la musica si riaccendono e le prostitute si preparano per iniziare il turno. A me viene fame, e così torno a mangiare i bocconcini di pecora affumicata nella macelleria di Madi. I più fortunati possono mangiare del fegato grigliato avvolto nel grasso.

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Ibrahim mi mostra dove dorme la notte.

Alle sette del mattino seguente un'insolita nebbia avvolge il ghetto. L'atmosfera è fredda e umida, e le vie sono quasi deserte. Qualcuno sbuca fuori dalla propria baracca stiracchiandosi. Bevo un caffè orrendamente annacquato e faccio un giro tra le vie più piccole e interne. Qui incontro Ibrahim, un uomo sulla trentina che mi invita nella sua baracca. Ibrahim vive con altre otto persone, e ha molta voglia di spiegarmi la sua situazione: "Il lavoro è poco, tra una settimana o due ci saranno da raccogliere le olive ma per massimo dieci giorni. La paga è di un euro per ogni cassetta di olive."

Dopo qualche minuto Ibrahim cambia discorso e mi chiede un passaggio per Foggia, dove—dice lui—deve andare a giocare a calcio. Durante il tragitto capisco che in realtà vuole andare in un centro di scommesse, e non in un campo da calcio. Lo accompagno al primo centro, dove si ferma brevemente incassando una vincita di sessanta euro. Nel secondo centro passa più tempo: gioca un numero spropositato di schedine puntando venti dei sessanta euro guadagnati. Alla fine mi comunica, non senza soddisfazione, che “oggi non mangio, ho speso troppi soldi per giocare.” Una volta tornati al ghetto mi confida il suo vero sogno: quello di “vincere così tanti soldi con il calcio da potermi sposare.”

Radioghetto.

Le uniche attività per evadere il tedio pomeridiano sono il calcio balilla, la dama, le sigarette e partite improvvisate di calcio a cinque. All’interno del ghetto c’è anche la sede di “Radio Ghetto”, dove però non c’è nessuno. La radio funziona solo d’estate, quando il ghetto è più popolato. In un certo senso, “Radio Ghetto” è l’unico contatto con il mondo esterno, il mezzo con il quale chi vive lì può raccontare cosa succede dentro e nei campi.

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Un ragazzo del Mali, Ibrahim, mi spiega cosa succede in un campo di zucche a un paio di chilometri dal ghetto: “Il ‘capo-bianco’ gira per il campo con il bastone, e se ti alzi per accenderti una sigaretta lui ti rimette subito giù con quello.” I caporali sono gli uomini pagati da agricoltori e proprietari terrieri per garantire il regolare svolgimento dei raccolti. Per assicurarsi ciò, come hanno evidenziato diverse inchieste giornalistiche, i caporali non si sono mai fatti troppi scrupoli nel ricorrere a pestaggi, cacce all’uomo e anche omicidi. Ad ogni modo non c’è solo il “capo-bianco”. Esiste anche il “capo-nero”, ossia un migrante che si occupa di reclutare il personale necessario a svolgere un determinato lavoro. Il problema, mi spiega un cinquantenne africano, è che “il capo-bianco paga quattro euro l'ora, il capo-nero dice a noi che il bianco paga tre euro e lui guadagna un euro su ogni testa, ogni ora.” Quando gli chiedo come si fa a diventare “capo-nero”, l’uomo mi risponde di non saperlo.

Qui, le pecore vengono sgozzate e appese prima di essere macellate.

Il capolarato, che è diventato reato solo nel 2011, è considerato dagli investigatori un “reato spia” di infiltrazioni mafiose nel settore. Si stima che il giro d’affari connesso alle agromafie sia compreso tra i 12 e i 17 miliardi di euro, ossia il 5-10 percento di tutta l’economia mafiosa. Anche la grande distribuzione è pesantemente infiltrata dalle organizzazioni criminali. Yvan Sagnet—delegato sindacale per la Cgil originario del Camerun, nonché uno dei leader della rivolta del 2011 nelle campagne di Nardò—ha scritto che l’agricoltura nella provincia di Foggia “subisce forti condizionamenti da parte della camorra. Durante la stagione agricola centinaia di camionisti partono quotidianamente dalla Campania verso le campagne foggiane, affittano le terre ai contadini con il cosiddetto fenomeno del ‘prestanome’, e trasportano la merce verso le imprese del salernitano.”

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Ma non è solo la schiavitù lavorativa a trattenere gli abitanti del ghetto: almeno quattro ragazzi mi hanno raccontato che ogni giorno vanno dal “capo-bianco” a reclamare il salario, ma questo non fa altro che procrastinare il pagamento. C’è chi aspetta di essere pagato da più di due settimane. Molti non vedono l’ora di andarsene e spostarsi in una città o in altri slum in cui guadagnare. Ma senza soldi non si può raggiungere nemmeno Rosarno. La scorsa estate un ragazzo che aveva lavorato una settimana in un campo ha trovato il coraggio di denunciare i caporali che l’avevano sfruttano senza pagarlo. Grazie al supporto di un avvocato è riuscito a ottenere i suoi soldi. Ma a caro prezzo: i “capo-bianchi” di fatto l’hanno emarginato e non lo chiamano più a lavorare.

Il retro del ristorante.

Si è fatta sera. Consumo nuovamente i pezzetti di pecora affumicati e decido di fare un giro al bordello nel quale ero stato la prima sera. Il locale è piuttosto vuoto: ci sono un paio di clienti italiani che si appartano con le prostitute. Dopo aver declinato un paio di offerte mi metto a parlare con una donna, Zahra, che comincia a raccontarmi la sua storia: "Nel 2010 sono dovuta scappare dal Marocco perché con la morte di mio marito non sapevo più dove trovare i soldi per dare da mangiare a mia figlia. Così sono venuta in Italia a fare questo lavoro." Durante l'inverno Zahra lavora a Foggia. In estate nel ghetto. Mi spiega anche che il bordello "è di un bianco, si chiama Nicola. Lui vuole 20 euro al giorno per l'uso della stanza in cui lavoriamo." Nella stanza dormono e lavorano cinque ragazze. Le tariffe sono di 25 euro per i bianchi e 15 per i neri.

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All'alba il ghetto comincia ad animarsi. Qualcuno brucia i rifiuti del giorno prima.

Il risveglio della mattina seguente è piuttosto traumatico: ho nausea, mal di gola e una quantità industriale di catarro. Non faccio fatica a credere che siano gli effetti collaterali della “cucina locale”. Madi si procaccia il cibo quotidianamente caricando qualche pecora sul furgone. Gli animali vengono uccisi, smembrati, puliti e distribuiti direttamente nel ghetto. Il problema è che opera in condizioni igieniche del tutto inesistenti, tra la polvere ed eserciti di mosche che amano defecare sulla carne.

Passo un giorno a letto, in preda alla febbre e al vomito. Ma è bastato un paracetamolo per far andare via tutto. In seguito ho saputo anche che Fatima ha pregato per la mia guarigione.

All'alba sono pronto per ripartire. Nel ghetto non c’è anima viva, e si respira desolazione. Dopo quattro notti passate in questo modo, solo una cosa mi è chiara: il ghetto di Rignano non né in Puglia né in Europa. È una baraccopoli della quale non frega un cazzo a nessuno, lontana dagli occhi di chi è convinto sia davvero inconcepibile che un posto del genere possa esistere nell’Italia del 2013.

Foto di Marco Valli. Scritto con la collaborazione di Leonardo Bianchi.

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