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Sei mesi in un collegio per ragazzi problematici

Mio padre è morto quando avevo due anni, e quand'ero ragazzina ho avuto dei gravi problemi di depressione. Così, sono entrata alla King George School, un collegio per ragazzi problematici del Vermont.

L'autrice con il rossetto messole dalle compagne di stanza.

Ricordo perfettamente il primo giorno alla King George School. La mia guida, un'entusiasta studentessa del secondo anno, mi ha portato in biblioteca e ci siamo sedute al tavolo con un'altra ragazza di nome Zoe. Erano lì per comunicarmi che "il nome Zoe è già stato preso" e che da quel momento in poi sarei stata chiamata "Claire", una storpiatura del mio cognome. Avendo io 14 anni e lei 16 non potevo oppormi, così ho accettato.

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Dopodiché le mie due nuove amiche si erano dileguate, presumibilmente per darmi il tempo di scendere a patti con la mia nuova identità. Dopo pochi minuti, un ragazzo più grande si è avvicinato per chiedere ora fosse. Prima ancora che potessi finire di dire "Non lo so" mi sono ritrovata con il suo pisello appoggiato contro il mio braccio. Lui, coi capelli rossi, mi guardava divertito. Queste interazioni mi sono servite da introduzione alla gloriosa istituzione accademica dove avrei trascorso i sei mesi successivi.

La King George School, nel Vermont, si presentava come scuola alternativa per adolescenti con problemi emotivi e comportamentali. Negli Stati Uniti ci sono più o meno 32 scuole di questo tipo, ma la KGS si distingue per un percorso di crescita emotiva basato sull'arte. Dato che la maggior parte di questi istituti è gestita privatamente, non c'è un curriculum standard. Di conseguenza, misurare l'efficacia della terapia è tutt'altro che semplice, soprattutto quando hai a che fare con studenti con un'ampia gamma di problemi. All'epoca dei primi studi sull'efficacia, negli anni Cinquanta, i risultati erano decisamente negativi. Col tempo c'era stata un'evoluzione, e un'indagine condotta nel 2002 rendeva conto di un netto miglioramento nel comportamento degli studenti che avevano portato a termine il programma.

La mia esperienza, come avrete intuito dal benvenuto che ho ricevuto in biblioteca, è stata tutt'altro che ideale. Perché mi trovavo lì, esattamente? "Eh, ero depressa, avevo smesso di andare a scuola. Poi sono, diciamo… impazzita, sono finita in un reparto psichiatrico, ho provato diverse terapie… e ora sono qui! Tu invece?" L'ho ripetuto talmente tante volte da averlo imparato a memoria. Non che servisse molto di più per saziare la curiosità dei miei compagni del collegio: erano molto più interessati a discutere delle loro scappatelle o a lamentarsi dei loro patrigni e matrigne.

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Ma la vera storia del mio approdo in un collegio per adolescenti problematici del Vermont è molto meno chiara. Mio padre è morto quando avevo due anni, e quando ne avevo 13 è morto suo padre. Non ero particolarmente legata a mio nonno, ma il dolore per la sua perdita è stato sufficiente a trascinarmi in una spirale di questioni irrisolte con mio padre. Sono stata subito messa sotto antidepressivi, perché era il 2003 e lo Zoloft andava di moda. In un primo momento mi erano sembrati la soluzione perfetta. Non ero depressa, anzi: stavo meglio che mai! Dopo poco però ci siamo resi conto che mi sentivo così perché lo Zoloft aveva innescato il mio disturbo bipolare latente e in realtà ero felice come una Pasqua perché ero maniacale. Così, due mesi più tardi, dopo aver lanciato una penna dritta al collo di un compagno di classe ed aver sofferto di un breve episodio allucinatorio, era stato deciso che lo Zoloft non funzionava, e per liberarmi "rapidamente" da quel problema, avevano dovuto ricoverarmi in psichiatria.

satellite di Google Maps, descrizioni inserite dall'autrice.

Sono stata dimessa due settimane dopo, e non c'è voluto molto prima che finissi nuovamente sotto farmaci. Per un po' la situazione è stata abbastanza stabile. Quell'estate sono andata in campeggio ed ho vinto un premio per il "L'ospite che ha fatto più progressi," che già a 13 anni mi sembrava un po' ambiguo. Poi l'estate è finita: io non avevo voglia di tornare a scuola, e così non l'ho fatto. Mi sono chiusa nella mia stanza, dove passavo 14 ore al giorno in chat fingendomi una modella ispanica di Gap di 18 anni di nome Stephanie. Inutile dirlo, le cose non andavano per niente alla grande e qualcosa doveva cambiare. Mia madre, insieme ad un'accozzaglia di psichiatri e terapeuti, aveva pensato che un programma di sopravvivenza nella natura selvaggia seguito da un periodo in un collegio di "crescita emozionale" avrebbe funzionato. Chiaramente l'idea di essere spedita altrove non mi entusiasmava, ma avevo rinunciato del tutto me stessa; avevo raggiunto un livello di depressione tale per cui quello che mi succedeva non mi interessava minimamente. Ero davvero senza speranza.

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Alla tenera età di 14 anni, non è stato facile per me adattarmi alla vita della KGS. Ero più giovane della maggior parte degli studenti e nettamente meno esperta, sia in campo sessuale che in altri. Ricordo la volta in cui mi sono imbattuta in due miei amici che si mostravano a vicenda i diversi modi di fare un pompino su un ferro per la maglia rivestito di Silly Putty: anche se era stata un'esperienza decisamente educativa, ero rimasta inorridita. Non avevo nemmeno le tette allora, né ero mai entrata in contatto con un ferro per la maglia.

Ricordo anche come sono impazzita la prima volta che qualcuno mi ha detto "sembri quasi normale." "NON SONO NORMALE! MIO PADRE È MORTO… HO DETTO A DEGLI SCONOSCIUTI CHE IL MIO NOME ERA STEPHANIE!" Ma in realtà era vero: ero piuttosto normale, ed era proprio quello che ero diversa. Per prima cosa, ero entrata alla KGS di mia spontanea volontà, a differenza di molti altri che erano stati portati lì da degli sconosciuti che li avevano prelevati nelle loro case nel cuore della notte. Inoltre, non avevo problemi di gestione della rabbia né dipendenze da droghe, e le mie difficoltà con mia madre non erano così diverse da quelle di un'adolescente normale.

Durante i primi anni di scuola a New York, sentirmi tagliata fuori era sempre stata una sensazione familiare. Senza dubbio, l'ansia che provavo per il fatto di non essere in grado di integrarmi nella mia vecchia scuola aveva contribuito al mio trasferimento alla KGS, ma nel nuovo ambiente fare amicizia non era certo stato più semplice.

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Gli insegnanti facevano del loro meglio, vista anche la natura caotica della scuola, ma se metti una ragazzina di 14 anni a studiare matematica con dei ragazzi del liceo, non c'è molto che un insegnante, per quanto bravo, possa fare. Ricordo una lezione durante la quale ho guardato David Blaine: Street Magic per la terza volta, pensando che anche gli insegnanti si fossero arresi. Fortunatamente per i genitori, l'amministrazione era diventata abbastanza brava a mantenere la facciata che gliene fregasse qualcosa—e diciamo che era il minimo che potessero fare, visti i $5,300 che le famiglie degli allievi sborsavano ogni mese..

La terapia era individuale tanto quanto le lezioni—ossia, non lo era per nulla. Ho fatto terapia individuale due volte alla settimana, poi il mio terapista è stato licenziato ho iniziato a farla una volta a settimana. Ogni tanto facevamo delle sessioni di gruppo, ma l'unica che mi ricordo è quella durata cinque ore dopo che alcuni ragazzi avevano liberato delle galline nel bagno delle ragazze. Lo scopo di quella riunione era trovare i colpevoli, non iniziare un qualsiasi tipo di conversazione produttiva. Durante il percorso di studi partecipavamo a dei "seminari," che consistevano nel saltare un giorno di lezione per andare a mangiare la pizza, fare prove di fiducia e parlare degli "errori" che ci avevano fatti finire alla KGS. I gruppi erano stati formati in base al giorno di iscrizione, non al motivo per cui eravamo lì. Grazie al contatto continuo con i problemi altrui, che andavano dall'abuso di droghe pesanti alla storia di un ragazzo che ha pensato che cacare sulla scrivania del preside fosse un modo del tutto appropriato di esprimersi, ho imparato a vedere le cose in una prospettiva diversa. Tuttavia, anche allora mi chiedevo se il metodo di terapia del collegio avesse qualche possibilità di riuscita, considerata la diversità dei problemi che ognuno di noi stava affrontando.

Alla fine la King George School era finita in bancarotta, un destino comune di questo genere di collegi, che sono costosi da mantenere e che, dal momento che non ricevono molto in termini di finanziamenti pubblici, chiedono cifre spropositate ai genitori dei ragazzi. A livello finanziario, il posto era gestito male—mi ricordo che poco dopo il licenziamento del mio terapista, il preside si era comprato un nuovo cart da golf. In effetti, la scuola aveva sfiorato la bancarotta già mentre la frequentavo. Era stato il giorno più brutto della mia permanenza. Il preside aveva convocato una riunione per informarci che presto saremmo dovuti andare via. Ci aveva assicurato che si sarebbe trattato solo di una misura temporanea, ma visto che molti degli studenti erano stati trasferiti da altri istituti del genere che erano falliti, non eravamo molto ottimisti. In quel momento era diventato chiaro che in realtà eravamo lì perché non sapevamo dove altro andare.

Per mia fortuna, non mi rimanevano molti giorni. Dopo sei mesi alla KGS, sono andata in un normale collegio, anche se di quaccheri, poi ho frequentato l'Oberlin College—dove ero esposta ad un altro tipo di "ragazzi problematici."

Per tutto il tempo del liceo e dell'università, ho tenuto segreto il mio soggiorno alla KGS. Mi vergognavo di essere andata così fuori di testa durante l'adolescenza da dover essere "mandata via". Nel corso degli ultimi anni quel sentimento di vergogna è stato lentamente sostituito da un'inquietudine generale riguardo la mia esperienza alla KGS e agli eventi che mi hanno portato lì. Ora vedo i problemi che ho avuto con la KGS come un'estensione dei problemi che ho col modo in cui la salute mentale è gestita e trattata in America. L'ampiezza dei problemi che il corpo studentesco ha avuto non è il riflesso di una scuola mal organizzata, ma di una società che non ha strutture adeguate ad aiutare dei ragazzi con problemi di salute mentale. Sto ancora venendo a patti con quell'esperienza, e ad essere sincera continuo a vergognarmene.

Vorrei che ci fossero dei programmi per aiutare i ragazzi come me, gli adolescenti perduti che non sanno dove andare dopo i ripetuti fallimenti di vari istituzioni sanitarie e accademiche. Nessuno, tantomeno un bambino, dovrebbe sentirsi senza speranza o senza possibilità. E nessuno, specialmente un bambino, dovrebbe ritrovarsi un pisello appoggiato al polso prima di essere pronto.