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Implicazioni dello scandalo sulla carne di cavallo

Un uomo nel mio quartiere era solito augurarmi la morte tutte le volte che mi vedeva in strada, mentre portava a spasso due enormi cani maschi slegati.

Non ricordo le esatte parole del post-it. Era fissato con una puntina alla bacheca di sughero, nascosto da altri fogli e locandine, nel corridoio del seminterrato della Otis Art School. Sheree Rose e Bob Flanagan, che facevano performance artistiche, avevano appena tenuto un seminario durante il quale Sheree aveva inchiodato il pene di Bob a un blocco di legno. Qualcuno del pubblico era svenuto. Sono stato a molte esibizioni di Bob e Sheree e almeno una persona sviene ogni volta. Stavamo lasciando l’edificio quando ho visto la nota, appuntata su un post-it giallo pallido con una calligrafia sottile quanto una ragnatela: Quando muoio, voglio tornare con un pene più piccolo. Mi ha fulminato, come se fosse la cosa più divertente che avessi mai sentito. Il contesto universitario, forse. Non riuscivo a smettere di ridere. Dissi, “L’avete visto questo?” Sheree e Bob l’avevano già visto. Era lì da una settimana. Il ragazzo che l’aveva scritto si era impiccato subito dopo averlo messo, per permettere al mondo intero di leggerlo.

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“Aveva un pisello enorme,” disse Sheree. “Era l’unica cosa di lui che importava alla gente. Lo ha reso completamente infelice.”

Credo che molti uomini considererebbero un grosso uccello una croce facile da sopportare, ma ovviamente non lui.

Lui aveva una connessione furtiva con Louise Nevelson, la scultrice. Parlava continuamente di lei. La sua mente era così piena di Louise Nevelson che sembrava non potesse contenere altro. Non ricordo come fossero i suoi dipinti. Faceva spesso visita allo studio di Louise Nevelson, dove molti dei suoi seguaci si perdevano in perle di saggezza con la speranza, credo, di infilarle in una collana-carriera. Inizialmente non trovavo nulla di strano nel chiedere l’opinione a qualcuno e ottenere, invece qualcosa di vagamente simile a ciò che Louise Nevelson doveva aver detto. Nelle fotografie sembrava una persona ridicola. Quel tipo di grande dame che apprezza essere una calamita per froci. Non mi interessava nemmeno delle sue sculture. Ogni volta che lui citava la dea oracolo dell’arte, immaginavo la sua voce uscire dalle ciglia finte invece che dalla bocca. Poi, una mattina ho improvvisamente capito di aver passato intere settimane ad ascoltare le conversazioni di seconda mano di Louise Nevelson. Mentre credevo che il mio fidanzato fosse stato seduto al lato opposto al suo in quel lunghissimo tavolo, ho sentito anche che lei era lì, nel letto in mezzo a noi, così l’ho lasciato. Dovevo farlo. Si stava tramutando in lei.

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Questo mi ricorda: un giovane americano a Parigi che partecipa a una cena in cui Gertrude Stein era l’ospite. Lui era seduto almeno a 12 posti dalla donna, la cui presenza lo spossava talmente tanto che rovesciò il suo calice di vino. Mortificato, cercò freneticamente di ripulire con il suo tovagliolo, mentre la voce di Gertrude dall’altro lato del tavolo tuonava: “Non preoccuparti, non ce ne ho nemmeno un po’ addosso.”

Un’altra persona che era “saggio ammirare” era una donna dell’alta società, Becky Johnston, che pensava di investire su un film a cui stavamo lavorando, un adattamento di Serenade di James M. Cain. Mrs. Lypnick era sposata a un produttore di bottoni. Una volta aveva messo dei soldi in qualcosa a Broadway. Lei era piccola e nervosa e ricca e indegna di essere ricordata, ad eccezione di una ossessione per lo scrittore svizzero Max Frisch. Nominava Max Frisch in ogni conversazione come se stesse offrendo un piatto di deliziosi antipasti. Ma Max Frisch era più di un antipasto. Max Frisch era anche il piatto principale. In nessun momento mi sarei ritrovato sorpreso di vedere Max Frisch entrare nella stanza scostando le tende di Mrs. Lypnick, con una coppa di champagne e un porta sigarette tra le mani. Il nostro film intrigava Mrs. Lypnick perché, per ragioni che non ha mai specificato, le ricordava lui. Ma in fondo, ogni cosa lo faceva.

Max Frisch era il centro vibrante di un regno festivo che Mrs. Lypnick poteva solo approssimare in sua assenza, menzionandolo più volte possibile. Mentre parafrasava diversi aforismi e argute risposte che l’illustre autore aveva declamato in sua presenza (“Non potrei mai dirlo bene come lo dice Max, ma…”), il suo villino a due piani su Park Avenue si illuminava in maniera impercettibile agli altri, ma a lei tangibile e gradevole.

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Dopo un paio di incontri con Mrs. Lypnick, capii che non aveva mai incontrato Max Frisch. Il suo non era certo un nome familiare. Era per puro caso che né io né chiunque altro Mrs. Lypnick incontrasse avessimo mai sentito di lui. Non sarebbe stato particolarmente incongruo se lei l’avesse incontrato, o persino conosciuto bene, ma ero sicuro che lei lo avesse evocato dal nulla, o quasi. Forse l’aveva intravisto attraverso l’entrata di un teatro dell’opera o lasciando una reception—un fugace non-incontro che aveva irreparabilmente rimischiato i succhi del suo cervello. I weekend immaginari a Montauk e le vacanze sullo yacht col suo amico speciale erano molto più importanti di qualunque cosa le succedesse nella vita reale.

Lo scorso mese a Edimburgo sono andato allo zoo a vedere i pinguini. La giornata era così ventosa che le cime degli alberi erano scosse dal vento. Ho avuto tempo solo di vedere i bradipi giganti e i fenicotteri rosa e un ruvido mammifero acquatico, di cui non conosco il nome, che si muoveva rapidamente avanti e indietro sotto la superficie dell’acqua nera del suo stagno. I pinguini nuotavano e mangiavano, mangiavano e nuotavano. I guardiani dello zoo, in camici gialli e galosce blu, davano da mangiare a tutti i pinguini, pesci morti. I pinguini rubavano i pesci come se li prendessero da un distributore automatico. A tutti piacciono i pinguini, ma è univoco. Nessun pinguino vi parlerà. Nessun pinguino nemmeno vi guarderà mai, a meno che non siate abbastanza vicini da essere una minaccia. Perché dovrebbero? A meno che non stiate tenendo del pesce morto, nessun pinguino avrebbe motivo di avvicinarsi a voi. Così sono i pinguini, e sempre lo saranno.

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Nelle Filippine, quasi ogni settimana, qualcuno in un karaoke viene ammazzato per aver cantato “My Way” da qualcun altro a cui non piaceva il suo modo di cantare. “My Way” è una canzone arrogante e auto-celebrativa, come molte di Frank Sinatra. Ma “My Way” è una canzone particolarmente irritante per coloro che devono ascoltarla mentre qualcun altro la canta. Una persona che pensa di aver fatto “a modo suo” spesso è in errore, e anche se l’ha fatto davvero, qualche volta sarebbe più prudente non cantarlo apertamente.

Ero triste quando Veruschka ha detto a un giornalista la storia del ratto. La consideravo una mia storia. Anche se l’ho sentita da qualcun altro, la volevo usare prima che tutti nel mondo la sentissero. “Ti racconterò una storia migliore,” mi disse Veruschka. “Un famoso giocatore di calcio era molto depresso e un giorno si buttò sotto un bus. L’autista del bus era un grande fan del giocatore di calcio. Quando capì che aveva accidentalmente ucciso il suo idolo, entrò in depressione e si gettò dalla cima di un palazzo. La moglie dell’autista andò da uno psichiatra per superare la cosa, ma la sua vita era ormai rovinata, così ingoiò una manciata di sonniferi e andò in overdose. Lo psichiatra si sentì un fallito totale quando lo venne a sapere e si impiccò nel suo ufficio.”

“Quanto di questo è vero?”

“Forse niente. È una storia migliore, non trovi?”

Enzenberger scrive del passeggero di un treno che si sente fortunato ad avere uno scompartimento tutto per sé. Un secondo passeggero entra. Il primo prova antipatia per lui perché ha rovinato la sua fortuna. Quando un terzo passeggero arriva, i primi due si uniscono in una silente ostilità contro l’intruso. Il terzo passeggero si allea mentalmente con gli altri in risentimento contro un quarto passeggero che si mostra, e via dicendo.

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Al tavolo di una roulette succede il contrario. I giocatori d’azzardo danno il benvenuto all’arrivo di nuovi compagni. Mentre la ruota gira, loro formano un’eccitata famiglia. Si offrono da bere l’un l’altro, raccontano storielle, barzellette. Sono elettrizzati quando qualcuno al tavolo vince. Condividono tecniche di gioco e superstizioni, parlano dei loro lavori, si scambiano perfino i biglietti da visita, anche se è risaputo che ciò che succede in casinò resta in casinò. Quando perdono, non gli interessa. Quando i giocatori lasciano il tavolo, sono tristi.

Una notte vinsi 6.000 dollari giocando fino alle due del mattino. Tutti pensarono che fosse divertente che io continuassi a vincere. Fino alle quattro il tavolo era affollato. Poi un giocatore se ne andò. Poi un altro. Alle cinque sedevo da solo con 10.000 dollari in fiche impilate davanti a me. Mi sono sentito abbandonato e orribile. Ho puntato l’intera pila sul doppio zero, che non esce mai. Il croupier comprese il mio sollievo quando persi tutto.

Un uomo nel mio quartiere era solito augurarmi la morte tutte le volte che mi vedeva in strada, mentre portava a spasso due enormi cani maschi slegati. “Sarò felice quando sarai morto,” diceva, oppure “Tutti possono vedere che stai appassendo con gli anni,” o ancora “Morirai presto,” e ciò con un largo stupido sorriso sulla sua faccia folle. Non solo sul marciapiede ma anche alla gastronomia che fa angolo, o alla libreria, se mi ci avesse incontrato. Mai abbastanza forte da farsi sentire da altri, ma molto distintamente, implacabilmente, con ovvio piacere sadico, con quel tono da dato-di-fatto con cui qualcuno potrebbe notare il tempo meteorologico, e quest'uomo, che era alto e pelato e brutto da guardare in ogni dettaglio, con occhi che strizzavano follemente dietro quei suoi spessi occhiali, aveva scritto un romanzo, mi ha detto un vicino, e ha sentito che il suo talento non era stato sufficientemente riconosciuto, e non solo augurava la morte a me, ma augurava la morte a molti altri nel vicinato durante la sua passeggiata con i cani, forse a tutti quelli che vedeva. Queste maledizioni sono andate avanti per due anni, e alla fine hanno avuto il loro effetto intimidatorio. Dopo un po’ di tempo, ogni volta che lasciavo l’appartamento, temevo di dovermi confrontare con la pazzia di questa persona. La vita è già abbastanza difficile senza questo genere di cose. A Regla, finalmente, diedi a un prete santeriano 20 pesos perché questa persona smettesse di importunarmi. Quando tornai a New York, una donna che lavorava nella libreria mi disse che l’uomo con i cani era morto improvvisamente la settimana prima, per un’emorragia celebrale. Non credo che il prete santeriano abbia fatto molto, ma per un momento è stato bello pensarlo. Mi chiedo cosa sia successo ai cani, disse lei. Forse se li è portati all’inferno, risposi. Ma ascolta, dissi. Non posso smettere di pensare che ci sia una morale in tutto questo. Mi ha augurato la morte. Ha detto ad altre persone che le voleva morte. E poi il suo cervello è esploso.

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