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Le spie che ci hanno provato

A dieci anni dall'invasione dell'Iraq, un'inchiesta della BBC racconta la montagna di bugie dietro la guerra più controversa della storia recente.

Nelle ultime settimane abbiamo capito che il giornalismo investigativo è vivo e vegeto. Sono infatti passati dieci anni dallʼinizio della guerra in Iraq, e nella puntata "The Spies Who Fooled The World" del programma investigativo BBC Panorama un team di giornalistiha raccontato che, sì, quella guerra era basata su unʼenorme montagna di bugie e depistaggi e che, sì, lʼintelligence ha falsificato e barato per giustificare la “gloriosa” presa di Baghdad. Sono cose che molti di noi già immaginavano, ma l'inchiesta della BBC—ora in onda anche su Rai News 24—le illustra in maniera ineccepibile. Sono venuta a conosceza della sua uscita con qualche giorno di anticipo, perché tra gli autori c'è anche una mia amica, nonché una collega che da anni si sta facendo strada nella ricerca investigativa. Alessandra Bonomolo ha partecipato all'inchiesta come giornalista-researcher, e ho pensato di fare una chiacchierata con lei per capire come si portano avanti queste scoperte, quanto di falso ci hanno detto sulle guerre in Medio Oriente e cosa l'ha spinta a entrare nel giornalismo investigativo.

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VICE: Come sei arrivata a lavorare per questo progetto?
Alessandra Bonomolo: La BBC ha semplicemente selezionato il mio curriculum dal loro database—avevo già lavorato per loro—e mi ha contattata. Nella loro scelta sono state determinanti esperienze precedenti e competenze specifiche che avevo già e che corrispondevano in maniera precisa al ruolo richiesto per questo progetto, come ad esempio la conoscenza del francese. In Regno Unito contano molto anche le referenze.

Spiegaci in due parole cosa è successo, perché a noi pare sempre più che la guerra in Iraq nasconda un sacco di bugie.
Be', non avete torto. Nel nostro documentario raccontiamo come alcuni aspetti chiave dell'intelligence che è stata usata per giustificare l'invasione dell'Iraq fossero basati su bugie, falsificazioni della realtà e supposizioni. Le informazioni sulle famigerate armi di distruzione di massa di Saddam Hussein—quelle per cui è iniziata la guerra e che poi gli ispettori dell'ONU, una volta arrivati in Iraq dopo l'invasione, non hanno trovato—provenivano da alcune "spie" che hanno semplicemente inventato ciò che non esisteva. Come è potuto accadere? Noi raccontiamo che l'intelligence cruciale era insufficiente. Di più, importanti riserve erano omesse e l'intelligence fu utilizzata in maniera selettiva.

OK. Quanto di tutto questo è colpa di Tony Blair?
Il nostro obiettivo era mostrare le prove, parlare con i testimoni dell'epoca e poi lasciare che gli spettatori si formassero la propria opinione sulle varie questioni. Abbiamo intervistato il presidente della prima commissione di inchiesta che ha condotto un'indagine ufficiale sul caso per conto del governo britannico, Lord Butler. Lui parla di errori compiuti in buona fede e dice che Blair e la comunità dell'intelligence hanno in più fasi "fuorviato loro stessi." Abbiamo richiesto un'intervista con Tony Blair, ma ci hanno risposto che era "troppo occupato".

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Qual è stato lʼelemento che ha innescato l'inchiesta?
Quest'anno ricorre il decimo anniversario dell'invasione dell'Iraq, avvenuta nella notte fra il 19 e il 20 marzo 2003. Si tratta della guerra più controversa della storia recente. È importante ricordare come si sono svolti gli eventi che hanno provocato conseguenze enormi a livello internazionale.

Ci sono stati dei momenti in cui avete pensato di non riuscire a portarla a buon fine?
Lavorare su un argomento così delicato, nel terreno dei servizi segreti, per raccontare errori dell'intelligence occidentale di portata epocale non è stato facile. Ma in questo mestiere la determinazione è tutto. Faccio un esempio. Un lavoro di questo tipo richiede di individuare le persone chiave che possano raccontare elementi cruciali della storia e, una volta capito chi sono, scovare dove si trovano. Come forse potrete immaginare, nel mondo dell'intelligence non si fanno nomi, tantomeno circolano numeri di telefono. Il più delle volte si parte da indizi. Tanto per darvi un'idea, abbiamo impiegato mesi per trovare un intermediario che era in contatto con un'importante fonte molto vicina a Saddam. Ma ce l'abbiamo fatta. Sarebbe stato ottimo poterlo intervistare "on the record", per la prima volta. Peccato che ci abbia chiesto 10.000 euro. Abbiamo detto di no. Pazienza.

Quali precauzioni avete preso, come si lavora concretamente su un caso simile?
Si studia molto, si discute a lungo con le fonti che hanno conoscenza diretta degli eventi. Nel dialogo con queste persone è essenziale essere corretti, professionali, onesti. Man mano che si raccoglie il materiale, lo si analizza accuratamente facendo controlli incrociati rigorosi e confrontandosi costantemente all'interno del gruppo di lavoro. È stato un lavoro di squadra durato più di sette mesi. Spesso le storie sono complicate, torbide. Gli elementi disponibili in partenza sono limitati e offrono pochi dettagli, così è toccato a noi seguire gli indizi e ricostruire il quadro verificando tutte le informazioni. È stato difficile trovare persone che si facessero intervistare su questo tema davanti alla telecamera. Abbiamo utilizzato molte fonti di cui non abbiamo potuto rivelare i nomi e controllato accuratamente quello che ci dicevano. In un mondo caratterizzato dai segreti, è un procedimento che richiede molta cura. Le fonti ufficiali sono raramente disponibili a parlare. Come ad esempio in Italia, dove è proibita l'identificazione degli agenti dei servizi segreti, nonché alcun contatto di questi con la stampa, anche utilizzando opportune precauzioni.

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Pensi che questo lavora avrà una rilevanza anche a livello politico?
Il documentario in Inghilterra è già uscito e ha riaperto nuovi interrogativi. Su Twitter abbiamo riscontrato reazioni immediate mentre il programma andava in onda in tv. Alcuni spettatori coinvolti direttamente negli eventi di cui parliamo ci hanno detto che questo documentario ha valore storico. Sapete, nel Regno Unito la storia non si è affatto chiusa. C'è un'importante inchiesta ufficiale ancora in corso, presieduta da Sir John Chilcot: questo è il loro quarto anno di lavoro e la data in cui conosceremo i risultati non è ancora certa. Fino alla conclusione dell'inchiesta Chilcot, i relativi servizi di sicurezza non rilasciano commenti on the record.

Che cosa ti piace del giornalismo investigativo?

La ricerca approfondita; la motivazione che spinge a cercare con ostinazione i tasselli mancanti di un mosaico; portare alla luce quelle storie che non riescono a trovare spazio nella cronaca di ogni giorno. È proprio grazie al giornalismo d'inchiesta che spesso noi cittadini scopriamo abusi di potere, ingiustizie, violazioni dei diritti umani: storie che ci fanno indignare e per cui abbiamo tutti pieno diritto di chiedere spiegazioni. Le inchieste, però, sono costose perché richiedono un investimento in termini di tempo. E con giornali e tv che tagliano costi e spazi di approfondimento è sempre più difficile. Il buon giornalismo di inchiesta ha un valore sociale importante e per questo va sostenuto, anche dai lettori.

Segui Chiara su Twitter: @ChiaraCaprio