Edo Bertoglio ha fotografato l'ultima vera New York

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Edo Bertoglio ha fotografato l'ultima vera New York

Tra il 1976 e il 1989 il fotografo Edo Bertoglio ha vissuto a New York e ritratto tutti i personaggi che la popolavano, prima che la città cambiasse radicalmente.

Tutte le foto per gentile concessione di Edo Bertoglio/Yard Press.

Il fotografo Edo Bertoglio arriva a New York nel 1976 insieme alla sua ragazza del tempo, la futura artista e stilista Maripol. Assieme, i due vengono risucchiati in quella scena artistica che, subito dopo i primi fuochi punk, ha cominciato a invadere i degradati quartieri Downtown di Soho e East Village, ma che non disdegna qualche saltuaria puntatina più a nord, ben sopra la 14a Strada, dove nel frattempo impazza la disco-music e aprono locali come il Club 54.

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E così, mentre Maripol si fa un nome nel mondo del fashion design (curando tra l'altro il look di personaggi come Debbie Harry, Grace Jones e soprattutto Madonna), Bertoglio entra nel giro di Andy Warhol e comincia a scattare foto per Interview Magazine, collabora con gruppi ed etichette musicali, rimbalza da una festa all'altra in locali come il CBGB e il Mudd, frequenta la comunità No Wave, poi diventa eroinomane e per poco non ci lascia le penne. Abbandonata New York nel 1990 grazie al provvidenziale intervento di un'amica, Bertoglio vive adesso nella campagna fuori Lugano, sua città natale.

Della lercia ma fascinosa New York pre-Rudolph Giuliani, Bertoglio resta uno dei massimi osservatori e documentatori, sia come fotografo che come occasionale regista. Nel 1981 girò un film intitolato Downtown 81 con protagonista un giovanissimo Jean-Michel Basquiat, e dentro tizi come James Chance, Arto Lindsay, Debbie Harry e Amos Poe. Face Addict, il suo film del 2005, lo vede invece tornare nella città che l'ha quasi ammazzato per incontrare i sopravvissuti di una stagione tanto creativa quanto estrema, e vale un po' come Downtown 81 parte seconda.

Adesso l'editore romano Yard Press (quello di Dark Portraits, per capirci) fa uscire New York Polaroids 1976-1989, una raccolta delle polaroid che Bertoglio ha scattato nei suoi anni newyorchesi. È un libro davvero stupendo, che oltre a ritrarre gente come Madonna o la solita Debbie Harry in anni in cui di loro non si era ancora occupata la grande industria dello show-biz, ha il potere di farti annusare l'aria che tirava in posti come l'East Village prima che diventassero terreno di caccia per speculatori immobiliari e yuppie arricchiti. Ho quindi scambiato due chiacchiere con l'autore per farmi raccontare un po' di aneddoti e ricordi su una città che non esiste più e che però manca un po' a tutti.

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VICE: In diverse occasioni hai ricordato come, appena arrivato a New York nel 1976, ti aspettavi di ritrovarti nella metropoli del futuro. E invece scopristi una città al collasso…
Edo Bertoglio: Sì, era veramente una città cadente, con le strade piene di buche, le macchine arrugginite abbandonate ai lati della strada, gli autobus vecchi e mezzi scassati… Era la New York della bancarotta, molti servizi erano stati sospesi, e anche le aziende scappavano da Manhattan perché la situazione era diventata insostenibile.

Però era una situazione che aveva anche i suoi vantaggi, no?
Be', erano rimasti un sacco di loft e magazzini liberi che costavano pochissimo: con 400 dollari riuscivi a prenderti uno spazio di 250 metri quadri, e la cosa attirò ovviamente molti aspiranti artisti, musicisti, registi, attori, giovani creativi che arrivavano un po' da tutte le parti.

C'è questo bel libro di Marc Masters sulla No Wave che raccoglie un po' di foto dell'East Village e del Lower East Side alla fine degli anni Settanta, e sembra davvero una città reduce da un bombardamento: case diroccate, machine incendiate, cumuli di calcinacci e monnezza ovunque… Ho sempre pensato che la No Wave fosse una musica che rifletteva prima di tutto quel tipo di panorama urbano, quindi ti chiedo: quanto vivere in un ambiente del genere influenzò i linguaggi artistici della New York fine Settanta?
La cosa più importante era che abitavamo tutti vicino, sempre negli stessi quartieri. Gli affitti bassi e la grande quantità di posti abbandonati fecero sì che si creasse una comunità molto coesa, che si concentrò soprattutto tra Soho e l'East Village. Di solito ci si incontrava in locali come il Max's Kansas City, il CBGB, il Mudd Club… In effetti a tenere assieme tutta questa gente era soprattutto la musica: gruppi come i Blondie, i Ramones, i Suicide… o anche Kid Creole and the Coconuts! Poi, nel 1981, Diego Cortez organizzò (con l'aiuto di Arto Lindsay) una grande mostra al PS1: la chiamò New York/New Wave e raccolse il meglio della scena artistica di Downtown, da Basquiat a Robert Mapplethorpe passando per Keith Haring, Alan Vega, David Byrne… C'ero anche io con le mie foto.

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All'inizio la critica "ufficiale" reagì con una certa supponenza, ma poi divenne chiaro che quello che stava accadendo sotto la 14esima strada non poteva più essere ignorato. A quel punto, la comunità esplose, sia in senso positivo (attenzione da parte dei galleristi, interviste, articoli…) sia in quello negativo (droghe pesanti eccetera). Anche il panorama urbano cambiò: eravamo in piena era reaganiana e i lupi di Wall Street cominciarono a riversarsi in massa in quelle che fino a poco tempo prima erano le nostre strade, i nostri locali. Portarono un mucchio di soldi e per certi versi per noi fu una benedizione, perché questo significava anche tanti lavori ben pagati. Ma da quel momento in poi, Downtown non fu più la stessa.

Lo spirito originario andò perduto, diciamo.
Fu inevitabile. Le cose cominciarono a cambiare sensibilmente attorno al 1982/1983. Eravamo letteralmente tra due fuochi: da una parte la gentrification e le speculazioni degli immobiliaristi, dall'altra l'eroina e questa nuova malattia chiamata AIDS che letteralmente decimò la comunità. In pochissimo tempo, quella scena che si era creata a partire dal 1976/1977 andò in frantumi. Della gente che la popolava, un buon 80 percento si perse, molti sono scomparsi, altri sono morti… Qualcuno invece ce l'ha fatta, è diventato famoso, ma tantissimi altri l'hanno realmente scampata per un pelo.

So che tu stesso ti definisci un sopravvissuto…
Assolutamente. Io in quel periodo ho avuto un serissimo problema di droga, non ho problemi a ricordarlo. Il libro che adesso è uscito per Yard Press è dedicato non a caso a Michaela, una mia amica che nel 1990 arrivò a New York, mi mise su un aereo di sola andata per l'Italia, e di fatto mi salvò. Io a quel punto avevo perso tutto: studio, lavoro, archivi interi… Avevo persino venduto per pochi dollari i quadri che mi aveva regalato Basquiat. Mi erano rimasti solo due bauli zeppi di materiali sparsi, che poi sono quelli che negli ultimi anni ho cominciato a riordinare. Se non fosse per quei bauli—e per Michaela—io e te non staremmo qui a parlare.

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Veniamo appunto al libro uscito su Yard Press. Sarà per la tipica grana delle Polaroid, ma sono foto che trasmettono un che di torbido e al tempo stesso, non so… diciamo glamorous. Che se vogliamo è una cosa molto newyorchese, no? Per certi versi ricordano quello che tempo dopo faranno tizi come Dash Snow. Anche i soggetti poi…
Ma sì, sono tutte facce, persone, interni vari, fidanzatine, fotine scollacciate… Per me erano dei piccoli souvenir, semplici ricordi di un momento, l'equivalente di quello che adesso sono le foto col telefonino. Andavi a casa di Warhol, incontravi due amici, li facevi mettere in posa… Erano anche momenti di scambio, di condivisione, dei piccoli eventi estemporanei.

Catturano anche anime piuttosto diverse della New York dell'epoca. Perché sì, c'è tutto il giro debosciato dell'East Village e dintorni, ma anche gente che negli stessi anni se la spassava ad Uptown. E non credo che tra le due comunità ci fossero molti punti di contatto…
Erano due scene molto separate e anche un po' in guerra tra loro, anche se in seguito—più o meno dalla metà degli anni Ottanta in poi—hanno cominciato a dialogare, a contaminarsi a vicenda. Ma all'inizio, se prendi un posto come lo Studio 54, nessuno della comunità Downtown si sarebbe mai sognato di frequentarlo—se non io, la mia fidanzata Maripol, o al limite gente come Andy Warhol che passava dai concerti dei Blondie al CBGB alle serate allo Studio 54 con Truman Capote e Liz Taylor. E poi non dimentichiamoci che negli stessi anni, su al Bronx, stava nascendo la cultura hip hop, che meriterebbe un altro discorso ancora…

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Tu prima hai detto che della gente che popolava la scena newyorchese, un buon 80 percento si perse…
Sì, o nel migliore dei casi si trattò di meteore, di gente che ha avuto un breve momento di gloria e poi è evaporata—quando non è morta di overdose o di AIDS, si intende.

Altri però hanno avuto un futuro piuttosto, uhm, brillante. Dico un nome a caso: Madonna.
Eh! Ma lei è sempre stata una ragazza molto ambiziosa, decisa… Aveva questo amico gay che si chiamava Martin Burgoyne e che la consigliava sempre su dove andare, come vestirsi, con chi uscire, quali erano i posti giusti. Erano davvero molto legati. Martin tra l'altro morì anche lui di AIDS nel 1986, giovanissimo, e mi ricordo che Madonna ne fu veramente scossa. Per Martin organizzò anche dei piccoli benefit in modo da pagargli le cure mediche, perché all'epoca se ti ammalavi di AIDS significava un vero salasso, c'erano le famiglie che si svenavano, si indebitavano, perché magari non avevano nemmeno l'assicurazione… La storia di Martin è comune a tantissima gente di quel periodo.

Tu Madonna come l'hai conosciuta?
Non ricordo bene, ma di sicuro la fotografai nel novembre del 1983 per quella che doveva essere la copertina di Like A Virgin. Feci degli scatti di lei con la schiena nuda su fondo nero, roba molto patinata per capirci. L'etichetta vide le foto, me le pagò come da accordi, ma poi decise di non utilizzarle perché—per usare le loro parole—"sembra la pubblicità di un profumo francese". E invece loro avevano deciso di riposizionare Madonna nel mercato degli adolescenti, o per meglio dire dei teenybopper. Quando vedo quello che adesso è diventata, questa diva stratosferica, stellare, mentre ai tempi era questa ragazzina sempre in movimento… Non so, mi fa un effetto strano. Per certi versi Madonna è l'epitome dell'American Dream.

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Per chiudere: tu New York la frequenti ancora?
Sì, ci passo ogni tanto, per me è un po' come una vecchia zia che però al posto di invecchiare prova a ringiovanire [ride].

So che la domanda è scontata ma devo comunque portela: quanto è cambiata dalla New York che hai conosciuto tra 1976 e 1990?
È praticamente un'altra città. La New York che conobbi io era una specie di film noir in cui poteva succedere di tutto. Uscivi dal tuo loft, e magari ti ritrovavi nel giroscale un homeless addormentato in mezzo a una chiazza di vomito; poi scendevi in strada, e ti imbattevi in Basquiat che firmava sui muri le sue prime cose a nome SAMO; poi tutti al Mudd a vedere un concerto con Debbie Harry… Era una città degradata, sporca e anche pericolosa, ma permetteva la nascita di tante piccole comunità che poi crescevano e si sviluppavano, si costruivano rapporti, e la "professionalizzazione" dell'arte come investimento ancora era di là da venire.

Adesso è una città molto più pulita e sicura, ma un ipotetico giovane artista non potrebbe mai viverci a meno di spendere veramente un mucchio di soldi. E non solo a Manhattan: la gentrification si è allargata a macchia d'olio, ha coinvolto Brooklyn, nei vecchi quartieri tipo Williamsburg ti trovi i building con le placche d'ottone e il portiere… Poi certo, rimane una città ambigua e sempre in fermento, ma che devo dirti? Io ho conosciuto una New York diversa, e mi è piaciuta un sacco.

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