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Peter van Agtmael e lo strano romanticismo della guerra

Il fotografo americano documenta la realtà dei conflitti post 11 settembre.

USA. Carolina del Sud. 2011. Soldati “feriti” vengono curati durante un'esercitazione di primo soccorso.

Finora, la carriera del fotografo americano Peter van Agtmael si è concentrata sulla documentazione degli effetti del post 11 settembre, tanto in patria quanto all’estero. Prima del viaggio in Iraq nel 2006, si è occupato di rifugiati sieropositivi in Sudafrica e dello tsunami del 2005 in Asia. Dopo l'Iraq ha vinto numerosi premi, lavorato in Afghanistan—anche come embedded—e documentato la vita dei soldati feriti e le loro famiglie. Abbiamo parlato della sua misteriosa attrazione per i conflitti, della realtà della censura e della tutela dei mutilati di guerra americani.

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VICE: Ti sei laureato in storia con lode, a Yale. Hai fatto studi particolari?
Peter van Agtmael: Ho seguito un curriculum abbastanza generico. La mia tesi si concentrava su come l'immagine della Yugoslavia della Seconda Guerra Mondiale, coi Cetnici e gli Ustascia, avesse subito un rinnovamento durante il conflitto balcanico degli anni Novanta, quando fu usata per alimentare il terrore e sfruttata per intraprendere una guerra civile.

USA. Wisconsin. 2007. Il veterano Raymond Hubbard gioca con i figli Brady e Riley.

Pensi che sia stata la tua formazione a spingerti a fare il fotografo di guerra già all’età di 24 anni?
Sono cresciuto nella periferia di Washington, simile a tante altre periferie. È facile sognare qualcosa di diverso. Da bambino ero molto appassionato dei volumi illustrati di storia, soprattutto quelli della seconda guerra mondiale. Avevano un che di eccitante e romantico, a modo loro.

Ovviamente man mano che cresci capisci la realtà di queste cose, ma il romanticismo non se ne va, anche quando ti ci ritrovi in mezzo—è questa la cosa più strana e assurda. Ho vissuto esperienze spaventose in questi anni, ma anche bellissime. Il fatto è che quando ti ritrovi in mezzo a eventi del genere, in quei luoghi, senti di produrre qualcosa di valore; racconti la storia, soddisfi un’inevitabile e naturale curiosità che ha certamente degli impulsi sia utili che oscuri.

Secondo te questo genere di attrazione costruita sul conflitto si applica alla maggior parte dei soldati?
Penso di sì, su tutta la linea. Se hai letto il libro di Michael Herr, Dispatches, lui lo descrive molto bene—anche se può considerarsi un riferimento datato, in un certo senso. Essenzialmente dice che non puoi togliere il romanticismo dalla guerra. È qualcosa di innato. È una parte geneticamente connessa dell’esperienza. Oggettivamente chiunque comprende quanto sia terribile e brutale, ma un sacco di giovani, soprattutto uomini, provano una sorta di attrazione nei suoi confronti, non completamente basata su un pensiero logico o razionale. Esistono milioni di modi per cercare di intellettualizzarlo, razionalizzarlo e dividerlo in tutte le sue più piccole componenti, ma alla fine c’è una spinta che non può essere pienamente descritta o spiegata. Almeno per me. Invidio coloro che non sono attratti dalla guerra. Ho vissuto un’esistenza bella e interessante fino ad ora, ma qualche volta vorrei aver fatto scelte diverse.

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AFGHANISTAN. 10 agosto 2009. Marines della compagnia Fox nuotano in un canale che attraversa la loro base nella provincia di Helmand.

Le tue foto dei graffiti nelle basi militari tradiscono un declino nell’entusiasmo per la guerra, o per queste guerre almeno. Hai notato un grosso cambiamento nel morale durante il tempo passato in Afghanistan o in Iraq?
Ho percepito un po’ di insoddisfazione dall’inizio del 2006, quando le cose stavano già iniziando ad andare male. Ma in realtà la cosa più impressionante era la mancanza di curiosità di molti soldati circa la portata del proprio mestiere.

Ovviamente ci sono alcuni estremamente coinvolti, e altri che non lo sono per nulla. Ricordo che in Iraq nel 2010 un ragazzo venne da me; aveva sentito che ero stato sia in Iraq che in Afghanistan per diversi anni. Voleva che gli chiarissi se le guerre erano iniziate nello stesso momento. Ero scioccato. Gli chiesi quanti anni avesse e lui mi rispose "19". In quel momento capii che allo scoppio della guerra in Afghanistan aveva solo dieci anni e 12 quando iniziò quella in Iraq. Si era unito all’esercito in periodo di guerra e nessuna di queste cose lo impressionava più di tanto. Ho affrontato l'argomento con persone con diverse qualifiche, perché l’esercito statunitense rappresenta un sezione piuttosto diversificata della società, ma mi ha sorpreso la generale mancanza di interesse per i motivi per cui si stavano combattendo quelle guerre. In termini del loro andamento, direi che il soldato medio era piuttosto scettico.

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IRAQ. Mosul. 2006. Un iracheno viene spinto a terra per essere perquisito. 

Com’è cambiata la tua visione di queste guerre?
Cerco di non trarre troppe conclusioni prima di trovarmi all’interno di una situazione. Nonostante lavori nel mondo dei media, ho sempre avuto un sano scetticismo in proposito. Il problema è che è molto difficile interpretare ciò che sta avvenendo sul lungo periodo quando vedi le cose accadere quotidianamente. Andando in questi luoghi ho imparato una straordinaria quantità di cose, soprattutto perché ho passato molto tempo tra le truppe. Ho imparato come gli americani intraprendono un’azione militare in guerra—è una cosa affascinante, il modo in cui questa gigantesca macchina arriva, costruisce le strutture e le dirige. È questo ciò su cui mi sono focalizzato. Mi sono stufato ben presto delle persone mal informate, o anche di quelle appena decentemente informate, che sputano le loro opinioni spesso manipolate dal desiderio di essere ascoltate. Penso che il significato degli eventi storici venga profondamente determinato durante il loro svolgimento o nel periodo immediatamente successivo, quindi a questo punto sono molto cauto sull’esprimere dei giudizi, faccio parte della categoria “aspettiamo e vediamo”. Ma ovviamente non è consolante essere lì e vedere quello che succede. Sono sicuramente più preoccupato che ottimista.

È stato difficile lavorare con i militari?
Ho sentito parlare di censure. Ma come struttura, penso che la condizione dell'embedding sia incredibilmente aperta. Ci sono alcuni comandanti che potrebbero temere te e quello che fai, ma più perché si preoccupano per i loro uomini piuttosto che per la "paura" che la realtà venga fuori. Puoi sempre spostarti in un’altra unità. Non ho mai avuto problemi di censura, ma quando lo dico mi riferisco principalmente agli americani. Gli inglesi e i tedeschi, per esempio, non permettevano l'accesso—e certamente non durate le operazioni di combattimento.

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Ho sentito del fotografo inglese Jason Howe, che aveva fotografato un soldato inglese ferito. Il soldato in questione aveva dato pieno consenso alla pubblicazione delle foto, ma il Ministero della Difesa gli complicò un bel po' la vita. A me sembra una cosa antidemocratica. Detto questo, nella mia esperienza direi che la vera censura viene dai media stessi, semmai. C’è stata una profonda discussione su quali fossero le immagini-simbolo di queste guerre, ma perché diventino tali devono avere una diffusione elevatissima, e penso che a molte tutto ciò non sia stato permesso.

IRAQ. Mosul. 2006. Un soldato sul luogo di un attentato suicida che ha causato 9 vittime e 20 feriti.

Hai scattato molte fotografie scioccanti, hai avuto qualche problema a mostrarle in pubblico?
Non fraintendermi. Non sono a favore della pubblicazione di immagini crude per il semplice fatto di farlo. Penso ci siano molte fotografie violente e brutali che possono avere un effetto di distanziamento. Ma ci sono anche un sacco di scatti che potrebbero istigare il soggetto a compierne di simili. La mia foto di un soldato statunitense che regge una scarpa di fronte a un muro schizzato di sangue dopo un attentato suicida, per esempio, è stata pubblicata su una rivista americana, ma solo nell’edizione europea. L’articolo è uscito su entrambe le edizioni, ma nel numero americano hanno sostituito l’immagine originale con quella di alcuni elicotteri statunitensi. Una cosa simile successe anche con un’altra mia foto di un soldato che fissava la macchina fotografica. Secondo me è indice di quanto i media siano riluttanti a esporre il pubblico americano ai fatti brutali della guerra. Guerre delle quali siamo tutti colpevoli per la natura stessa della nostra democrazia. Molti cercano di assolversi dicendo, “Oh, io ho votato contro Bush, ho fatto la mia parte.”

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Nel tuo lavoro hai seguito anche i reduci e il loro reinserimento nella vita in America. Qual è la tua impressione del fenomeno?
Domanda interessante. Negli Stati Uniti c'è un forte “sostegno ai soldati”, almeno superficialmente. La guerra in Vietnam scatenò un forte disgusto per i soldati: erano visti come criminali assetati di sangue più che vittime di una politica estera poco curata. In queste guerre la cosa si è ribaltata, i soldati sono quasi idolatrati, ma in maniera molto superficiale. La gente organizza eventi in sostegno alle truppe, legando dei fiocchi gialli alle auto e via dicendo. L’idea di soldato come nobile servitore della nazione c’è. Ma quello che ho capito nella pratica è che è tutto vuoto. Una volta che approfondisci, tutti i soldati che ho conosciuto e che sono stati feriti—fisicamente ed emotivamente—vengono snobbati dalla popolazione, o al massimo si guadagnano una pacca sulla spalla. L’interesse per i soldati si riduce alle classiche domande, “Hai ammazzato qualcuno? Hai qualche cicatrice di combattimento?” La comprensione verso i soldati è estremamente limitata.

USA. New Orleans. 2012. Una domenica con la Dumaine Street Crew.

A cosa stai lavorando ora?
Sempre coi soldati. Ma il mio interesse si sta spostando su un altro lato di queste guerre. Gli iracheni e gli afghani che le hanno subite, le diaspore dei rifugiati in tutto il mondo come conseguenza di questi conflitti. Di recente sono stato in Baviera, che ha delle leggi sull’immigrazione molto rigide, per visitare uno di quei campi rifugiati in cui gli afghani stanno in attesa, come in un limbo. Sono confinati in caserme costruite ai tempi di Hitler, con un limitatissimo sostegno da parte del governo locale. Le conseguenze di queste guerre sono queste e continueranno ancora per molti anni. Hai lavorato anche in situazioni civili, oltre che nelle zone di guerra, fotografando la vita quotidiana in America. O la rivoluzione in Egitto, o il post-terremoto di Haiti. Come cambia il tuo modo di lavorare?
Cerco di lavorare uniformemente ovunque vada. Mi ritrovo attratto da cose simili, anche se in situazioni diverse. Quello che mi piace della fotografia è che posso aprirmi al massimo a ciò che il luogo mi sta offrendo—ovviamente non puoi evitare di avere un punto di vista, ma puoi confrontarti con cose nuove, bellissime, confuse e scioccanti. Può succedere in una zona di guerra, o in qualsiasi altro luogo. Penso che, finché terrai gli occhi aperti, avrai le stesse possibilità ovunque.

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Per vedere altre fotografie di Peter van Agtmael, clicca sulle pagine successive.

AFGHANISTAN. 18 agosto 2009. Marines americani giocano in uno spiazzo durante l'atterraggio di un elicottero.

AFGHANISTAN. 17 agosto 2009. Un sergente dei marine e un anziano di un villaggio afghano si addormentano durante una conversazione alla base marine di Mian Poshtay.

USA. Carolina del Sud. 2011. Nuove reclute a Fort Jackson si preparano a salire sul bus che li porterà alle caserme.

IRAQ. Mosul. 2006. Un ragazzino messo in isolamento per essere interrogato dopo un raid.

AFGHANISTAN. Nuristan. 2007. Un elicottero si prepara all’atterraggio su una superficie improvvisata, costruita sul versante di una montagna sull’avamposto di Aranas. 

USA. New York. 2008.

IRAQ. Rawah. 2006. Un soldato americano sta di guardia durante la perquisizione di una casa. 

IRAQ. Mosul. 2006. I famigliari di questa donna sono stati arrestati durante un raid in cui è stata rinvenuta una grande scorta di armi.

IRAQ. Baghdad. 2006. Jeff Reffner, 23 anni, ferito da un ordigno artigianale.   

USA. Chicago. 2011. Anthony Smith, un prigioniero del carcere di Cook County, si lamenta con lo sceriffo Tom Dart della condanna e del trattamento subito.

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