Com'è fare cinema in Italia spiegato da quattro giovani emergenti

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Com'è fare cinema in Italia spiegato da quattro giovani emergenti

Siamo stati alla Berlinale e abbiamo parlato con quattro talenti italiani—registi, produttori e distributori—dello stato del nostro cinema e della situazione dei giovani del settore dentro e fuori dall'Italia. Ecco cosa ci hanno detto.

Nel 1977 Mario Monicelli e Nanni Moretti vengono invitati a un programma di dibattito culturale di Rai Tre, Match, condotto da Alberto Arbasino. Il contesto, visto con gli occhi di adesso, è fantastico: pubblico che fuma in studio e partecipa alla discussione aggredendo gli invitati, donne con pashmine e uomini col panciotto, Enrico Ghezzi giovanissimo sullo sfondo. Ma il contenuto del confronto tra i due registi è ancora più interessante: Io sono un autarchico è uscito l'anno prima e verrà mandato a breve in televisione; Monicelli è all'apice, dopo Amici miei e Un borghese piccolo piccolo.

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Arbasino confronta i due sulla questione "i giovani e il cinema": da una parte Moretti "rivendica" (se leggesse questa cosa mi prenderebbe senz'altro a schiaffi) che gli esordienti non vengono incoraggiati dal sistema, soprattutto dagli autori a cui fanno d'aiuto regista; Monicelli lo contraddice e soprattutto sostiene che il cinema del futuro non è quello "americano". Quando Moretti incalza su Scorsese (che era appena uscito con

Taxi Driver

) e sulla bravura di Robert de Niro, Monicelli taglia corto dicendo che "Spielberg, con

Lo squalo

, non andrà molto avanti." Sembra un po' il solito tema: la vecchia guardia che non lascia spazio ai giovani, i giovani che guardano all'estero per ispirazione e un pubblico abbastanza chiuso che non si apre ai nomi nuovi.

Ma al di là del folclore del programma e dei tempi, le cose sono ancora così? Qualche giorno fa mi trovavo alla Berlinale, e ho deciso di parlarne coi quattro talenti italiani invitati al programma per giovani professionisti organizzato dal festival. I Talent Campus sono un'invenzione relativamente recente dei festival di cinema e nascono con l'idea di incoraggiare giovani talenti (non solo registi e produttori, ma anche distributori, attori e critici) con lezioni tenute da mostri sacri, workshop, famigerate sessioni di pitching e incontri con finanziatori. Raccogliere i migliori professionisti emergenti della scena internazionale significa in pratica seminare un raccolto molto ricco per il futuro dell'industria cinematografica. Proprio per questo motivo, ho incontrato

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Francesco Mattuzzi

,

Enrico Maria Artale

,

Roberto de Paolis

(registi) e

Antonietta Bruni

(distributrice) per qualche domanda sullo stato del cinema e i giovani dentro e fuori dall'Italia.

VICE: Credo che lo spettatore comune faccia fatica a nominare dei registi, anche degli attori "nuovi" nel panorama nazionale. Voi siete tre registi attivi anche come produttori, e una distributrice. Avete dovuto farvi le ossa come assistenti di regia o avete avuto libertà fin da subito? Esiste veramente il problema del pubblico che non va a vedere film di esordienti o è la "vox populi" che ci comunica quest'idea?

Francesco Mattuzzi:

Io realizzo film documentari come regista e produttore. Ho un passato nella fotografia e nell'architettura (

Shapes

), ho lavorato con l'artista Armin Linke (

Future Archeology

) e adesso sto chiudendo il primo lungometraggio. Lavoro spesso su commissione e non con la fiction—dunque la mia situazione è un po' particolare. Ma se si parla del circuito dei festival, lì ci sono dei problemi. I selezionatori dei festival ricevono migliaia di film. Lo so come fanno a vederli [cioè, non li guardano praticamente]. Ad esempio, il mio ultimo corto è stato al CPH DOX di Copenaghen, all'Architecture Film Festival di Rotterdam e a Trento. Però non è stato preso a festival molto minori. Mi sembra un paradosso assoluto, non riesco veramente a capire la strategia dei programmatori…

Enrico Maria Artale:

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Io ho avuto un ingresso abbastanza di impatto, perché il mio film [

Il terzo tempo

, presentato a Venezia nel 2013], l'ha prodotto De Laurentis, con la Universal come distribuzione. Ho fatto corti, parallelamente lavoro nella televisione, e al momento sto chiudendo un documentario e il secondo lungometraggio. Il mio inserimento nel sistema industriale—fin da subito libero—mi permette di dire che se guardi agli ultimi anni, dal punto di vista del sistema produttivo, la vita dei giovani registi è più semplice in Italia che in altri paesi. Qui c'è accesso a una possibilità di produzione, se hai fatto un percorso solido e serio. I registi della mia generazione—30-35 anni—hanno molte più possibilità. Ma dipende se stiamo parlando della situazione del sistema produttivo—che è cambiato negli ultimi cinque anni—o del sistema culturale dal cinema italiano.

Antonietta Bruni: Non credo che quando uno parla di difficoltà le possa settorializzare nel proprio paese dicendo "le difficoltà italiane". Da distributrice [Antonietta lavora per La Sarraz Pictures, che produce e distribuisce documentari e serie web. Tra gli ultimi, il super documentario sulla comunità rom di Torino, I ricordi del fiume, dei fratelli De Serio] affronto il cinema soprattutto come un'industria e in Italia ci siamo spesso dimenticati di ricreare il sistema-industria collegato al cinema. Parliamo di "arte" e l'arte ha un parametro che non sarà mai oggettivo… Credo che il settore del cinema sia difficile di per sé, proprio perché composto da economia e da arte, che non possono essere scissi.

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Prima Enrico ha fatto una differenza importante. Da un lato il cinema come industria, che produce film, a volte li esporta all'estero, porta il pubblico al cinema, è legato anche alla televisione—parte dell'economia nazionale, insomma. Dall'altro il cinema dal punto di vista culturale, cioè come viene percepito in senso artistico: la qualità o meno dei film nostrani, la reazione dello spettatore medio di fronte a film che usano linguaggi diversi da quelli mainstream, la considerazione del cinema al confronto con altre arti, come quella contemporanea o la letteratura…
Enrico: Quando parliamo di "difficoltà", una cosa su cui ti scontri abbastanza evidentemente è che il cinema italiano è tuttora estremamente localizzato e molto poco europeo, salvo le eccezioni che ci sono e non sono pochissime. Le società francesi, tedesche, non hanno un'ottima disposizione nei nostri confronti, ma perché il prodotto italiano è sempre stato—e negli ultimi vent'anni di più—molto forte in Italia. Poi è vero che abbiamo autori di documentari strepitosi che girano in tutto il mondo, ma poi in Italia hanno un riscontro relativo. Pietro Marcello ad esempio: i suoi film sono molto particolari, ed è anche distribuito…

Esatto: Pietro Marcello, con Bella e perduta, ha avuto un buon successo di critica, soprattutto all'estero. Il film affronta in modo molto poetico e visionario la mala gestione del territorio campano, ed è stato prodotto in associazione con RAI Cinema e distribuito dall'Istituto Luce—quindi teoricamente godeva di un certo supporto "istituzionale". Ma il pubblico l'ha visto? L'ha apprezzato?
Antonietta: Quando si parla di questo mi viene da pensare che bisognerebbe lavorare su quello che sarà il pubblico di domani. Se le persone non vanno a vedere un film perché diverso dal canone che ti aspetti, che ha standardizzato certa televisione o un certo tipo di cultura allora è normale che, anche se un film viene distribuito, il pubblico interessato sarà sempre di meno.
Naturalmente, lavorare sul pubblico sono tre parole che traducono un concetto e lavoro gigante. Però ad esempio lavorare veramente sulle scuole, sull'inserire il cinema come una materia e non come un passatempo, per creare un occhio per qualcosa di diverso… ecco, poi può anche non piacerti il diverso, ma almeno sai che c'è. Questa potrebbe essere una cosa molto interessante perché altrimenti certi film non verranno mai visti e certi altri verranno sempre visti.
Enrico: Bisogna considerare—non solo l'incasso maggiore, che quest'anno era Zalone—che gli incassi maggiori (senza esprimere giudizi di merito) sono sempre film che hanno altissime possibilità di incasso in Italia e all'estero praticamente nulle. Escono sì grandi autori che hanno costruito un loro percorso e quindi fanno anche film internazionali. Però questo è molto diverso da quello che succede in altri paesi: fanno grandi numeri nel loro paese e anche fuori. Questo non è un problema industriale, ma culturale. L'Italia, attraverso il cinema, ha una posizione nel panorama culturale europeo e mondiale relativamente marginale, se uno tralascia i tre nomi di spicco.

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Ma voi sentite che il vostro lavoro è definito in modo "sostanzioso" dal paese in cui lavorate?
Antonietta: No, quando dici che lavori nel cinema suscita sempre una certa… ilarità! Sembra sempre che tu faccia il pagliaccio.
Enrico: Io l'ho sentito questo condizionamento. Ora sto provando a fare due altri lunghi che sono da una parte una storia più personale, dall'altro un film con respiro più internazionale. E questo mi sta creando delle difficoltà: un po' perché all'estero non ho un nome come in Italia, un po' perché i produttori italiani si sentono più sicuri con un certo tipo di storia—anche molto variegato al suo interno, eh… C'è la libertà, sempre.
Semplicemente non riesci a far passare l'idea di un cinema diverso, anche a fronte di film italiani di questo genere che stanno funzionando. Ho deciso di non cedere e sono incoraggiato dal fatto che in questo momento di transizione vedo giovani registi italiani molto bravi. E alcuni di questi stanno aprendo delle porte. Molti poi hanno fatto il Centro Sperimentale e dunque siamo cresciuti insieme. Piero Messina [assistente alla regia di Sorrentino, in concorso a Venezia 2015 con L'Attesa, con Juliette Binoche e distribuito internazionalmente], il film di Gabriele Marinetti, Lo chiamavano Jeeg Robot, che è molto legato a Roma ma che ha anche uno sguardo altrove. Sono realtà che prima non erano neanche possibili. È anche fisiologico: da una parte c'è una nuova esigenza, che incontra comunque una certa resistenza…

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Roberto, tu sei regista ma con la tua società hai lavorato come produttore e hai realizzato documentari, una serie web e un lungometraggio. Dov'è che hai incontrato la maggiore resistenza?
Roberto de Paolis: Innanzitutto manca un certo tipo di produttore. I registi ci sono e anche le storie. Anzi viviamo in Italia, per cui le storie… esplosione! Mancano produttori di un certo tipo.

Di che tipo? Dici figure tipo "fundraiser" che sono capaci di coinvolgere capitale estero o trovare finanziamenti al di fuori dal solito circolo di produttori italiani?
Roberto: Sì, perché in Italia per fare un certo tipo di cinema non ti danno i soldi, quindi devi andare fuori, pensare in maniera diversa.
Enrico: Il produttore in Italia è una figura che ha rapporti di conoscenza diretta e potere con grandi sorgenti di finanziamento, cioè la RAI e il Ministero. I produttori italiani hanno fatto sempre cinema così—sulla base del potere e della velocità con cui riuscivano ad accedere a questi soldi.
C'è un altro modo di fare il produttore, che è quello di farsi un culo così presso tutte le fonti nazionali, finanziamenti, bandi di sviluppo e via dicendo, che è molto faticoso, richiede molta preparazione. E aggiornamento perché le leggi dei paesi cambiano in continuazione e sono tutte diverse. Sembra così però che se tu sei pigro—e diciamo che la pigrizia è una caratteristica degli italiani, non ci giriamo intorno!—e hai un potere con quelle sorgenti che dicevamo prima… perché ti devi sbattere appresso agli altri? Non c'è abitudine al lavoro, dite.
Roberto: No, c'è anche un paese che un po' staccato dall'Europa, è un riflesso di una situazione economica… non credo sia solo perché siamo "incompetenti". Si fa un grande sforzo per uscirne. Negli ultimi cinque anni ci sono stati dei film che secondo me hanno seminato un cambiamento, giovani che hanno cercato un linguaggio più europeo. Penso ai film di Alice Rohrwacher. Anche Claudio Giovannesi.
Enrico: Anche Salvo di Fabio Grassadoni e Antonio Piazza, che ha vinto la Settimana della Critica a Cannes nel 2013 [il film racconta un'avventura di mafia in modo diverso da solito, fortemente estetizzante, e ha circolato molto anche all'estero].

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Roberto: Sì, registi di 30-35 anni che hanno girato parecchio, con riconoscimenti importanti. Ecco, dieci anni fa questo non era possibile. È un po' come se ci fossimo risvegliati. Poi è anche possibile produrre dei film che costano poco, che siano anche dei documentari. Noi abbiamo prodotto un documentario con 20mila euro, due anni fa, che ha girato moltissimo e incassato bene. Era la storia di un meccanico—il film è Fuoristrada. In quel caso abbiamo chiesto soldi a tutti, ma niente. Alla fine siamo andati in banca, eravamo in tre… Questo è chiaramente un esempio folle, il mio nuovo film costa migliaia di euro, o così o nulla.

Esiste una terza via, oppure siete costretti tra mega budget o autofinanziamento?
Roberto: Per quanto mi riguarda si può anche avere un approccio più "documentaristico", devi lavorare con professionisti, camera a mano, non puoi girare 4/8 inquadrature per scena, non hai le luci, un team ristretto. Ma chi è disposto a farlo, questo? Però a me piace. E a chi interessano questi film in Italia? Secondo me, a pochi.

Forse un approccio di questo tipo in Italia è visto come ancora amatoriale piuttosto che conveniente, sperimentale. Quand'è che nella vostra carriera c'è stato un momento in cui vi siete sentiti soddisfatti e avete capito che la "gavetta" era finita?
Roberto: Io non mi sento né arrivato, né di aver fatto la gavetta. In realtà penso che questo sia un lavoro per cui il concetto di "arrivato" sia molto difficile. Poi ricominci con una paranoia… Tutti credono che il primo film sia così importante… Anche Enrico—io l'ho conosciuto quando aveva appena presentato il primo film a Venezia, il giorno dopo stava di merda.
Antonietta: Su questo ne riparliamo fra una decina d'anni! Un po' per carattere, un po' per l'industria, credo che se avessi scelto un altro settore a 32 anni mi sentirei un po' più arrivata. Probabilmente questo percorso, che è più di nicchia, è un po' più lungo.

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