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Ian Berry fotografa massacri e inondazioni

E ci ha spiegato cosa si prova a trovarsi nel posto "giusto" al momento "giusto".

SUDAFRICA. Transvaal. Sharpeville. Lunedì 21 marzo 1960. Gli abitanti scappano dal centro della città, dove la polizia ha aperto il fuoco.

Nel 1962 Ian Berry è stato invitato a unirsi alla Magnum da Henri Cartier-Bresson—fatto che, nel mondo della fotografia, è senza dubbio l'evento più simile alla canonizzazione. L'invito è venuto in seguito al suo lavoro in Sudafrica, dove è stato l’unico fotografo ad assistere al massacro di Sharpeville, uno degli eventi più brutali nella storia dell’apartheid. Le sue foto sono anche state portate in tribunale per provare che la protesta fosse stata pacifica. Ha fatto reportage dalle guerre in Cecoslovacchia, Israele, Irlanda e Vietnam.

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VICE: Ciao Ian. Mi sembra di aver capito che sei alla Magnum da più di 50 anni. È così?
Ian Berry: Sì. Fa effetto ammetterlo, ma sì. Questo dice molto sulla mia incapacità di lasciare che le cose vadano come devono. Penso di lasciare ogni anno e non lo faccio mai.

Hai iniziato in Sudafrica. Come ci sei finito?
Be’, essendo giovane volevo viaggiare. All'epoca c'era ancora il Commonwealth, quindi potevi scegliere fra Australia, Nuova Zelanda, Canada e Sudafrica. Il Sudafrica mi sembrava più eccitante. Sai, pensavo che avrei visto i leoni girare per le strade di Johannesburg. Ah.
Così partii. La mia famiglia conosceva un fotografo appena tornato dagli USA, dove faceva da assistente ad Ansel Adams. E lui era disponibile a garantire per me per il primo anno. Non serviva un visto, ma era necessario che avessi qualcuno che mi facesse da garante. Così sono scappato in Sudafrica, e questo è tutto. Nessun rimpianto, comunque.

Non avevi seguito nessun vero corso di fotografia prima di allora, no?
All’epoca non esistevano scuole di fotografia. La cosa migliore che potessi fare era diventare l’apprendista di qualcuno, ed è quello che feci. Voglio dire, lui fotografava con una 4x5", e le immagini venivano molto luminose. È stato un ottimo allenamento, anche se sapevo che non era quello che volevo fare.

SUDAFRICA. I sostenitori di Mandela cercano di guadagnare un punto di osservazione privilegiato per assistere all'arrivo del leader nella sua città natale, nel 1994.

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Sembra che il massacro di Sharpeville sia stato il punto di svolta, per te. Puoi spiegarci brevemente la sua storia?
Dopo aver lasciato il mio garante, andai a lavorare per il Sunday Times Group a Johannesburg. Ci rimasi per un po', e avevo sentito che un importante editor inglese della nota rivista londinese Picture Post stava venendo in Sudafrica per seguire la rivista Drum. Pensavo che avrei potuto imparare qualcosa da lui, quindi mandai il curriculum e ottenni il lavoro.

Poi ci fu uno sciopero nazionale, e la maggioranza dei fotografi e dei giornalisti si diresse nelle zone più calde, nel caso fosse successo qualcosa. Ricevetti una telefonata a proposito di un tizio a cui avevano sparato, a Sharpeville. Quando ci arrivai, tutti lo avevano già saputo—inclusi un sacco di fotografi internazionali. Stavano in attesa fuori dai cancelli quando arrivò una fila di carri armati, diretti al municipio. All’epoca se eri bianco dovevi avere un permesso scritto per stare in un municipio africano.

Saltammo tutti sulle nostre auto e li seguimmo. Dopo aver percorso 100 metri, il convoglio si fermò e l’ufficiale in comando ne uscì e ci disse, “Sarà meglio che ve ne andiate, o vi arresteremo.” La maggior parte delle auto se ne andò. Rimasero solo tre macchine, inclusa quella in cui ero seduto io, e li seguimmo per un altro po’ di metri, finché il tizio non uscì di nuovo e ci disse, “Andatevene ora, è l’ultimo avvertimento!” E le altre due auto se ne andarono.

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Li seguimmo mentre entravano in questo commissariato, in un'area delimitata da reti metalliche. Chiacchierai con un paio di poliziotti, mi affacciai alla recinzione e mi sembravano tutti abbastanza tranquilli. Nemmeno la folla sembrava molto aggressiva. Pensai che non sarebbe successo niente, quindi tornai verso la macchina, e non appena ci arrivai, la polizia aprì il fuoco. I corpi cominciarono a cadere a terra. Successe tutto molto in fretta. Allora mi portavo dietro un paio di Leica con grandangolo e lenti normali. Fotografai semplicemente le persone che correvano verso di me. Quando capii che le persone attorno a me stavano morendo, mi buttai nell’erba.

SUDAFRICA. Zululand. Zulu che si apprestano a celebrare un matrimonio, 1985.

Quando i colpi si fermarono, mi alzai e notai che eravamo solo in due in piedi. E ricordai che la polizia sudafricana odiava follemente la stampa, così saltai in macchina e ce ne andammo. E questo è tutto. Le foto erano uno schifo, semplici immagini di persone che mi corrono incontro, ma è un evento che ha fatto il giro del mondo. E mi ha portato alla Magnum; il redattore della rivista per cui lavoravo, Tom Hopkinson, scrisse alla Magnum per me.

Wow. E quelle foto sono anche state usate come prova per scagionare alcune persone, giusto?
Sì. Fu la folla a essere incolpata. Dissero che loro avevano sparato una volta sola e che la folla era aggressiva. Non era vero. Infatti, avevo delle fotografie di loro che ricaricavano le armi automatiche. Ovviamente molti vennero colpiti alle spalle. Continuarono a sparare alle persone mentre queste correvano via. Ero stato l’unico testimone bianco e, all’epoca, la parola di un bianco valeva più di quella di qualsiasi africano. Quindi ho consegnato le prove e, fortunatamente, coloro che erano stati accusati, che erano poi i feriti, furono lasciati liberi. Quindi anche se le foto non erano grandiose, almeno hanno avuto uno scopo. E grazie a esse è arrivata la chiamata della Magnum, e il resto è storia nota.
Be’, più o meno. Prima, un ragazzo che stava fondando una nuova agenzia a Parigi e che era stato il capo ufficio alla Magnum mi chiamò perché mi unissi a lui. Poi la Magnum mi chiese di far parte della loro squadra e, ovviamente, ne ero lusingato. Accettai. Com’è stato lavorare con Cartier-Bresson?
Fantastico—mi ha insegnato molto. Era amichevole e mi ha permesso di osservare da vicino il suo lavoro. Anche Mark Riboud, un altro famoso fotografo francese che era alla Magnum all’epoca, è stato così. È stata un’esperienza impagabile.

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COREA DEL SUD. Boryeong. Undicesimo Festival del Fango.

A cosa stai lavorando ora?
Sto lavorando su un progetto sull’acqua nel mondo. Si sta trascinando da un po’ perché ho bisogno che capiti una situazione particolare. Quando è successo il disastro a New Orleans mi ero rotto una gamba cadendo dalla moto e me lo sono perso. Quando c’è stato lo tsunami, mi è successa una cosa analoga, e di nuovo me lo sono perso. Ho tutto quello che serve per finire il lavoro, ma ho bisogno di un disastro naturale. Ho navigato su e giù per il Fiume Azzurro, il Mekong, il Nilo, il Mississippi—per tutti i grandi fiumi. Sai, il problema con questo genere di progetti è che finisci per fotografare sempre le stesse cose. E hai bisogno di qualcosa che sia un colpo allo stomaco, che lasci a bocca aperta.

Se gli stessi problemi si stanno verificando un po’ ovunque, questo progetto potrebbe essere un modo per dimostrare che la questione merita molta più attenzione. La tua visione politica e della vita è stata modellata in qualche modo dai lavori che hai fatto?
No. So che oggigiorno è in voga precipitarsi in una situazione essendosi già fatti in testa la propria idea, ma io ho questo vecchio approccio per cui quando vado da qualche parte, lo faccio a mente aperta. Penso al mio ultimo viaggio in Sudafrica, quando una rivista francese mi ha chiesto di fotografare i contadini afrikaner che vivono sul confine con lo Zimbabwe.

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Ora, non è che io ami gli afrikaner, quando lavoravo in Sudafrica ero sempre minacciato più dalla polizia che dagli africani. E, ovviamente, gli afrikaner odiano gli inglesi. Ma ci sono andato per scattare questo servizio e quello che ho visto è che molti dei contadini vengono espropriati o uccisi. E indipendentemente da come mi sentissi nei loro confronti, ero anche un po’ dispiaciuto per loro. Sono andato in una fattoria che apparteneva a una vecchia signora. Suo nonno era stato sepolto lì e lei era semplicemente stata cacciata dalla sua terra, senza nulla in cambio. Quindi, penso che sia importante essere giusto e spassionato in tutto ciò che si fa.

ETIOPIA. I residenti nei villaggi camminano per tre chilometri per raggiungere l’unica fonte d’acqua per riempire taniche, lavare i vestiti o farsi un bagno. 1987.

Interessante. Il fatto di aver lavorato in così tanti posti nel mondo ti ha insegnato qualcosa in particolare della cultura mondiale? Gli esseri umani sono del tutto diversi gli uni dagli altri o ci sono dei fili che ci legano tutti?
Siamo molto diversi, non c’è dubbio. Pensa alla Corea oggi: più o meno tre anni fa ho lavorato a un libro sulla Corea del Sud. Le persone erano fantastiche, amichevoli e piacevoli. Ti fa riflettere su quanto diverse siano realmente le persone a nord del confine. Nel periodo in cui è caduto il muro di Berlino avevo una moglie tedesca che non è mai voluta andare in Germania dell'Est. Sembrava pensasse che fossero simili ad animali selvaggi. Ovviamente, io sono andato a est e le persone erano identiche a quelle dell’ovest, solo un po’ più povere.

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Per me, è questo il senso della fotografia. La macchina fotografica è uno strumento fantastico per ritrarre le culture e aprirle piano piano alle altre. Magari sembra un po' presuntuoso, ma non c’è ragione per diventare fotografo se non intendi fare almeno un po’ di bene con le tue opere.

Quando guardo le tue foto, mi colpiscono per il loro tempismo: scatti sempre nel momento decisivo. Cosa pensi della fotografia digitale e dello scattare migliaia di foto alla volta? Ti ci trovi bene o è una filosofia che rigetti del tutto?
No, scatto in digitale e penso che a livello tecnico sia un buon metodo. Quando stai seguendo un servizio di due o tre settimane, essere in grado di riguardare quello che hai fotografato e sapere quale materiale hai è un gran vantaggio. Non va tanto bene quando stai facendo un servizio per una compagnia. Ai vecchi tempi potevi fotografare per dieci ore e poi tornartene indietro, mangiare qualcosa, rilassarti e fare altro. Adesso torni indietro e devi ancora scaricare tutti i file e inviarli il giorno stesso. È una benedizione mista a una maledizione. Ma penso comunque che ci siano più occasioni di cogliere il momento giusto con il digitale.

GERMANIA. Berlino. Christophe Sorci suona jazz all' East Berlin piano bar, nel 2000.

Qualche consiglio per le nuove generazioni?
Se avessi dei consigli, li terrei per me. Mi piacerebbe vedere come funziona Newsweek, perché al momento nessuno sta facendo molti soldi con la fotografia. Spesso ai workshop mi viene chiesta la stessa cosa. Temo di non essere in grado di rispondere. Credo che se fossi davvero spietato, dovrei dire di comprare una videocamera al posto di una macchina fotografica. Ma è tutto un altro mondo. Mi è appena stato chiesto di scattare un servizio in Mozambico e all’ultimo momento hanno deciso che volevano che fosse anche accompagnato dal video. Per ora, mi rifiuto di farlo.

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Alla fine, le persone con vera passione e buon occhio ce la faranno. Fino a quando non inizieremo a fare soldi anche col web, tutto quello che posso dire loro è di tener duro. Ma se guardo a tutte le scuole di fotografia nate in questo secolo e il numero di persone che si autoproclamano fotografi, dubito che anche solo l’un percento di loro faccia vera fotografia. Magari sopravviveranno come fotografi legali, o di matrimoni o dio sa cos’altro. Non molti riusciranno a guadagnare abbastanza da vivere col solo fotogiornalismo. Penso. Ma potrei sbagliarmi.

CINA. Provincia del Gansu. Xiahe. Monaci tibetani in cammino verso il monastero. 1996.

BANGLADESH. Khulna. Jessore. Villaggio di Jhikargachh. Questa donna, che reca sulle braccia e sui fianchi i segni scuri di avvelenamento da arsenico, ha solo questa pompa per l’acqua. È stata dipinta di rosso per indicare la contaminazione. 2000.

INGHILTERRA. Londra. Trafalgar Square. Bacio a mezzanotte della notte di Capodanno. 1964.

SUDAFRICA. Gauteng. Johannesburg. Fordsburg. Manifestazioni di affetto fra due persone in un bar multirazziale. 1961.

SUDAFRICA. Natal. Durban. Membri di un gruppo religioso celebrano un battesimo immergendo il fedele nell’Oceano. 1984.

SUDAFRICA. Una giovane di colore, poco più che una bambina lei stessa, cura una bambina per una famiglia bianca. 1968.

SUDAFRICA. Paarl. Uomini bianchi si godono una degustazione di vini mentre lavoratori di colore ne portano altre bottiglie. 1981

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COSTA RICA. Limon Camp. Rifugiati del Nicaragua suonano la chitarra, con solo due materassi su cui sedersi e dormire.

SUDAFRICA. Ventersdorp. La polizia e i manifestanti del Movimento di Resistenza Afrikaner (AWB) si scontrano per la prima volta. 1991.

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