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La settimana in cui la polizia ha scambiato i manifestanti per zaini

Gli scontri del corteo del 12 aprile e lo sgombero di uno stabile occupato a sud-ovest di Roma hanno fatto sì che si tornasse a discutere delle violenze di polizia. Ne abbiamo parlato con il giornalista Marco Preve.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Manifestazione del 12 aprile a Roma. Foto di Riccardo De Luca.

Quella appena passata è stata una settimana densa di polemiche, sia per gli scontri del corteo del 12 aprile che per lo sgombero di uno stabile occupato a sud-ovest di Roma.

Le critiche piovute addosso alla polizia sono numerose. Amnesty International, riferendosi alla manifestazione di sabato scorso, ha parlato di “un uso eccessivo della forza da parte di rappresentanti delle forze di polizia” e ha auspicato l’introduzione dei “codici d’identificazione sulle uniformi.” Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno con delega alla Pubblica Sicurezza, ha voluto esprimere “la massima indignazione” per le scene di violenza riprese dalle telecamere, assicurando che gli agenti responsabili saranno puniti. Dopo le cariche e i feriti alla Montagnola, Il presidente del Municipio VIII di Roma ha criticato l’“indecente gestione dell’ordine pubblico,” che sarebbe “tutto il contrario di quel serve” in un momento di forte tensione sociale come questo.

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Nell’intervista rilasciata ieri, il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro ha invece elogiato l’operato delle forze dell’ordine, assolto l’agente (definito “un cretino” dal capo della Polizia Alessandro Pansa) che ha calpestato la ragazza scambiandola per uno zaino e infine rispedito al mittente ogni possibile critica: “La gestione della piazza, che mi ha visto insieme al questore responsabile dell’ordine pubblico, è stata un successo. […] Sfido chiunque a dimostrare il contrario.”

Nel video qui sopra: il “successo” di cui parla il prefetto Pecoraro durante lo sgombero alla Montagnola.

Come succede dopo casi di violenza poliziesca—che avvengano per strada o all’interno di prigioni e caserme—politica e opinione pubblica si sono divise tra chi difende a spada tratta le forze dell’ordine e chi invece le accusa di essere solamente capaci di prendere a calci (anche letteralmente) diritti e persone.

Le domande, insomma, rimangono più o meno le stesse dallo choc del G8 di Genova ad oggi. Per cercare di rispondere ho chiamato Marco Preve, giornalista di Repubblica e autore di un recente saggio, Il partito della polizia, che documenta le criticità della polizia italiana e analizza un sistema di potere interno che copre gli abusi e gode di ampie protezioni politiche.

VICE: Partiamo da quello che è successo questa settimana. Le dichiarazioni del prefetto Pecoraro sembrano contraddire quelle del capo della polizia, che si è scusato per il comportamento del suo agente. È veramente così o si tratta solo di un’apparente differenza di vedute?
Marco Preve: Mi sembrano due volti della stessa medaglia. Quella di Pecoraro è la classica difesa del corpo, un gesto di estremo corporativismo. Pecoraro stesso viene dalla Polizia e ha ricoperto incarichi importanti. La difesa dei poliziotti è anche la difesa di se stesso e delle gerarchie che quei poliziotti hanno formato.

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La reazione di Pansa, invece, sembrerebbe provenire da una voglia di fare pulizia e di affrontare il caso. Bisogna vedere se poi seguirà qualche atto concreto: non solo punizione di quel singolo agente (che tra l’altro è l’ultima ruota del carro); ma anche trasformazione vera e propria delle dinamiche della polizia, in particolare della formazione di chi va a fare l’ordine pubblico.

Non si può però ignorare chi è Pansa, cioè uno dei  “De Gennaro boys” che appartiene al gruppo che ha governato la polizia in questi vent’anni. Pansa, insomma, viene da quella polizia che non solo non ha mai condannato le vicende di Genova e di Napoli nel 2001, ma che anzi ha fatto progredire le carriere di coloro che vi parteciparono.

Non vorrei che quel “cretino” detto da Pansa sia una maniera semplicistica di uscire da una situazione difficile. Non dimentichiamoci che il poliziotto che commette quella violenza gratuita è comunque un agente che viene formato, è coordinato sul campo e ha dei superiori. È vero che la responsabilità è singola, ma non c’è solo quel video di quella giornata: ce ne sono anche altri. Dunque la vicenda meriterebbe una riflessione più ampia e non dovrebbe concentrarsi solo sul singolo.

D’altra parte va ricordato che i vertici sono stati coperti per altri tipi di abusi, ed è difficile punire la base quando le alte sfere della polizia non hanno avuto nessuna conseguenza per incidenti professionali anche più gravi.

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Secondo il prefetto Pegoraro la gestione dell’ordine pubblico di questi giorni è stata comunque un successo. È così?
Il prefetto nella sua analisi parte da un’assunzione che lui dà per scontata, e che invece non lo è affatto: ossia che i manifestanti avrebbero messo Roma a ferro e fuoco. In realtà è una sua pura supposizione. C’è stata una manifestazione di piazza che ha avuto i suoi momenti duri e pesanti, e che in certe circostanze è stata anche fronteggiata con l’uso della forza.

Dal momento in cui viene commesso un abuso, però, la dignità e l’onore del corpo vengono comunque macchiati. Di sicuro non si può parlare di successo in quel momento.

Facendo un passo indietro, a volte sembra che la gestione dell’ordine pubblico venga percepita dalla polizia come una sorta di “guerra”, e che dunque gli abusi siano tollerati proprio perché ci si trova in una situazione fuori dal comune.
Da un lato può essere così. Dall’altro ci sono una serie di fattori che devono essere presi in esame, tra cui il fatto che ormai la protesta è “frammentata” e i suoi protagonisti, come ad esempio i movimenti legati al territorio (No Tav e altri) o al diritto alla casa a Roma, sono diversi rispetto a quelli del passato, con cui c’era più dialogo. Sono tutti nuovi antagonismi con cui la polizia deve confrontarsi e prenderne le misure.

Detto ciò, la storia della creazione nel 2008 della scuola di formazione per l’ordine pubblico in Italia, che è la conseguenza degli sfaceli avvenuti a Genova e di episodi singoli come il caso Aldrovandi, è abbastanza esemplificativa su un certa concezione dell’ordine pubblico. La scuola, infatti, è nata sotto una cattiva stella: il suo primo direttore è stato l’ex questore Oscar Fioriolli, che secondo il commissario Salvatore Genova era presente alle torture inflitte ai brigatisti che avevano rapito il generale James Lee Dozier nel 1981.

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La gestione di una scuola importantissima come quella sull’ordine pubblico viene così affidata ad appartenenti della vecchia guardia, e non a persone che magari hanno una diversa sensibilità e che appartengono a un nuovo modo di pensare la polizia. È sempre il vecchio gruppo che comanda. Poi non so come si sia evoluta la scuola di formazione; certo, a vedere queste situazioni non sembra che stia dando i frutti sperati.

A proposito del gruppo che guida la polizia da vent’anni: come si è potuto ammassare così tanto potere in capo a poche persone che, tra l’altro, sono sempre riuscite a passare indenni a grossi scandali e inchieste giudiziarie?
A riprova di questi tesi basta pensare che, proprio in questi giorni in cui si è discusso di abusi e violenza della polizia, Gianni De Gennaro è stato riconfermato dal Governo Renzi alla presidenza di Finmeccanica. A ben vedere non si tratta solo della conferma di un uomo, ma di quella che è stata una linea di guida comportamentale dell’intera polizia italiana.

Per il resto, spiegare come sia potuto nascere questo gruppo di potere, composto da poliziotti dalle altissime capacità investigative, è semplice e complesso allo stesso modo. Sicuramente si forma nei primi anni Novanta, cioè in anni cruciali per la lotta alla mafia e anche per alcune cose di cui veniamo a sapere solo oggi, come ad esempio la trattativa Stato-mafia. Chi ha avuto incarichi importanti all’epoca, probabilmente è venuto a conoscenza di aspetti importanti della storia del nostro paese che ha condiviso con una parte delle istituzioni e della politica italiana di quel periodo.

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Questo spiega già, quindi, alcuni legami che si creano in quel periodo e si sviluppano e continuano negli anni a venire. Quel gruppo iniziale poi si insiederà ai vertici della polizia italiana, controllandone da Roma la struttura gerarchica piramidale. Questo ha comportato non solo il controllo delle carriere, con il potere di nominare i responsabili degli uffici periferici, ma anche la gestione di appalti e dei tantissimi soldi che sono passati per il Viminale, in particolare per il Dipartimento di pubblica sicurezza.

Grazie a queste posizioni, il gruppo ha creato una rete di controllo interno e ha tessuro rapporti in maniera assolutamente trasversale con la politica—due fattori che gli hanno permesso di durare per tutto questo tempo.

A riprova della trasversalità del “partito della polizia”, ieri il comune di Roma ha approvato una mozionevotata da esponenti di destra, sinistra, Movimento 5 Stelle e altriin cui si esprimeva “incondizionata solidarietà alle Forze dell’ordine.” Come mai, anche di fronte ad abusi, la politica si sente comunque sempre in dovere di appoggiare la polizia?
Mettere sotto accusa la polizia è sempre difficile: dovunque si vada c’è una difesa corporativa, e la polizia è considerata una delle istituzioni “intoccabili”. In altri paesi, come ad esempio Inghilterra o Stati Uniti, quando un poliziotto supera il confine e viene messo sotto indagine non scatta quella polemica politica per cui c’è lo difende e chi lo accusa. È lo Stato che mette sotto accusa l’agente, che a quel punto si sveste della sua divisa e diventa un cittadino come tutti gli altri che viene giudicato.

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In Italia, appunto, c’è questa doppia posizione che in realtà è più uno starnazzare inutile. Quando si sospetta che il poliziotto abbia commesso qualche abuso la destra lo difende, e la sinistra, che è passata dal rifiuto della divisa a una difesa acritica che a volte ha superato persino quella della destra, da una parte lo difende, mentre dall’altra lo accusa ma poi non compie mai atti concreti.

Sembra quasi che il PD abbia paura di prendere una posizione critica nei confronti della polizia per timore di essere additato come “comunista” o “eversore”. In realtà, poter criticare liberamente i vertici della polizia quando sono responsabili di reati o altri fatti poco opportuni è sicuramente una prerogativa di una democrazia compiuta.

I fatti di Napoli e Genova, i casi Aldrovandi e Cucchi e le molte violenze impunite di questi anni hanno creato una frattura profonda tra i cittadini e la polizia?
Con una parte di cittadinanza la frattura sicuramente c’è stata. A 14 anni di distanza la gente è rimasta segnata da quello che è accaduto a Genova. C’è ancora, ed è terribile per un paese democratico, una certa paura della divisa. In più, questo tipo di sentimento e di sfiducia non appartiene solo al cittadino “di sinistra”; anche quello “liberale” ha sofferto molto per questo tipo di ferita.

Tuttavia, ed è inutile nasconderselo, c’è una larga parte della popolazione italiana che, temendo tutto quello che è disordine e contestazione, preferisce cedere alla polizia una quota dei propri diritti e della propria libertà. In sostanza, questa parte della cittadinanza da un lato non storce il naso di fronte alle violenze della polizia; dall’altro chiude gli occhi e passa sopra agli abusi con la speranza che questo surplus di violenza possa garantirgli una vita più tranquilla. E questa è una dimostrazione di scarsissima maturità democratica.

Il criminologo Francesco Carrer dice verso la fine del tuo libro che “ogni paese ha la polizia che si merita e, comunque, che è stato capace di darsi.” Ecco, secondo te che tipo di polizia c’è nell’Italia del 2014?
Per quella che è la mia conoscenza dell’ambiente da tanti anni, mi sento di dire di aver fiducia in tantissimi singoli poliziotti e funzionari. Ho molto meno fiducia, per come è strutturata e impostata, nell’Istituzione Polizia.

Ma in fondo, come si chiedeva sempre Carrer, perché dovremmo avere una polizia migliore della politica, della pubblica amministrazione, del giornalismo o della società?

La polizia è un uno dei tanti specchi dell’Italia, e in essa si possono vedere i vizi che affliggono il paese—tra cui il clientelismo, il pressapochismo e l’assenza di una vera meritocrazia. Purtroppo quando c’è qualcosa che non va nella polizia i danni, sia in senso figurato che concreto, sono molto più evidenti.

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