Srebrenica continua a seppellire i suoi morti

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Srebrenica continua a seppellire i suoi morti

A quasi 18 anni di distanza dal massacro, il fotografo Mattia Vacca è andato in Bosnia per documentare il ritorno delle famiglie delle vittime.

Ogni generazione ha la propria guerra; non solo guerra vissuta, ma anche vista e mediata. La mia generazione ha visto l’Iraq e l’Afghanistan, proiettati sullo schermo della tv in salotto. La generazione di mio padre è stata testimone della guerra in Vietnam. Per un’altra generazione la guerra vista è stata l’esplosione di violenza in ex-Jugoslavia, un conflitto divampato e alimentato da spinte nazionaliste e differenze etniche e religiose.

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Mattia Vacca, fotografo e fotogiornalista della zona di Como, fa parte di quest'ultimo gruppo: è rimasto talmente affascinato dalle immagini provenienti dalla guerra in Bosnia che il suo primo medium-term project è incentrato proprio sulla situazione della zona, a quasi 18 anni di distanza. Tra le sue foto c'è un reportage sul massacro di Srebrenica, di cui ricorre oggi l'anniversario. In questa enclave musulmana della Bosnia, l’11 luglio 1995 i soldati serbo-bosniaci del comandante Ratko Mladic e gli uomini di Željko Ražnatović—meglio conosciuto come Arkan la tigre—hanno massacrato ottomila abitanti della cittadina, abbandonando i cadaveri in fosse comuni.

Abbiamo incontrato Mattia per capire qualcosa di più della sua fascinazione per i Balcani, del suo progetto Srebrenica: Requiem for a Dream e dell’etica del fotogiornalista di fronte al dolore altrui.

VICE: Prima di tutto, da dove viene questo interesse per i Balcani?
Mattia Vacca: Devi tenere conto del fatto che il grosso della guerra è stato a metà degli anni Novanta. Srebrenica risale al ’95, quando avevo 17 anni e cominciavo ad avere consapevolezza di quello che stava succedendo. È stata la guerra della mia adolescenza. Con il tempo, specie durante il primo anno di università ho cominciato a interessarmi anche ai profughi che arrivavano dall’ex Jugoslavia, attraverso l’Adriatico, in Italia. Con questa situazione che si stava sviluppando vicino ai nostri confini non potevo non interessarmi. La mia fascinazione per i Balcani viene dalla fotografia di James Nachtwey, Paolo Pellegrin e Ivo Saglietti che ha sempre lavorato nella zona e proprio con un lavoro su Srebrenica, nel 2010, ha vinto il World Press Photo Award.

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Sei andato sui luoghi della guerra jugoslava 16 anni dopo, nel 2011. Cosa hai trovato per il tuo reportage?
Sono partito con delle idee sulla Bosnia che paradossalmente sono state confermate appena arrivato in aeroporto. Atterrato a Sarajevo ho trovato due carri armati e dei militari armati alla leggera: quello che mi aspettavo. Una volta uscito, trovo una meravigliosa località turistica, non un’ex zona di guerra. A Sarajevo c’è una vastissima popolazione di giovani che da tutta la Bosnia accorre per le vacanze. C’è una vita notturna grandiosa. Ma camminando per strada, alzi la testa e trovi un colpo di mortaio sulla facciata di un palazzo. Sembra quasi parte dell’architettura della città. Per strada ci sono le cosiddette “rose”,  i crateri da esplosione, dipinti di rosso per renderli più evidenti. Sarajevo ha in sé le ferite della guerra ma anche la rivalsa culturale da città dell’est. Più mi rendevo conto di questo, più riconoscevo che la Bosnia delle foto e dei filmati che avevo visto all’epoca non esisteva più.

Invece, nello specifico, perché hai deciso che la parte principale del tuo lavoro sarebbe stata su Srebrenica?
Il motivo è il legame particolare con l’evento.Dopo aver letto del massacro per anni, dopo aver visto centinaia di fotografie e altrettanti video, volevo confrontarmi con quello che è venuto dopo. Come ho detto Sarajevo non offriva più gli spunti classici. Mentre Srebrenica sì, visto che da quasi 18 anni è meta del ritorno delle famiglie delle vittime. Volevo confrontarmi non più tanto con il massacro che è stato, quanto con il ritorno delle persone che avviene ogni anno. Ogni luglio, le vedove, i figli e le figlie degli uomini uccisi a Srebrenica tornano per seppellire i resti dei loro cari disseppelliti negli anni. Come è possibile che a 18 anni di distanza non siano ancora stati seppelliti tutti?
Quello che ci permette di mettere insieme un progetto a così tanto tempo di distanza è il fatto che solo 5.000 bare siano state interrate, su un totale di 8.000 vittime accertate. Una settimana dopo il massacro, i serbi sono rientrati nel villaggio con dei bulldozer, hanno riaperto le fosse comuni e hanno cercato di insabbiare tutto, spostando i cadaveri in altre zone della Bosnia. Così facendo, i corpi sono stati maciullati nonché resi irriconoscibili. Alcuni sono stati messi in cisterne d’acqua, ad esempio, a marcire. Ovviamente rimettere insieme dei cadaveri richiede tempo. Ci sono famiglie che, ad oggi, hanno ritrovato solo un braccio o un teschio del proprio caro. Trovare il 100 percento di un corpo a Srebrenica è impossibile. Il lavoro di ricomposizione dei corpi spetta all’International Center for Missing Persons (ICMP), che da anni non fa che recuperare i resti, fare test del DNA e avvertire le famiglie quando qualcosa viene trovato. Se la famiglia decide che è abbastanza, si procede con il funerale. Ecco cosa avviene ogni anno: un funerale di massa.

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Perché hai deciso di visitare Srebrenica proprio due anni fa?
Il motivo principale è stata la cattura di Ratko Mladic, il macellaio di Srebrenica. Era a 80 chilometri dal villaggio, latitante, protetto da non si sa chi. Quando ho sentito la notizia, ho capito che dovevo partire.

Qual è stata la prima scena che hai visto, una volta arrivato a Srebrenica?
Allontanandosi da Sarajevo si può vedere una Bosnia molto diversa. Sembra la montagna del nord dell’Italia con l’aggiunta, però, di scheletri di case bombardate e boschi completamente minati. Srebrenica appare proprio in questo tipo di campagna. La prima scena che mi si è parata davanti è questa valle, coperta di lapidi. Cinque, seimila lapidi bianche del memoriale di Potocari, su un lato, verso il basso, a destra. Sulla sinistra mi sono trovato la fabbrica di batterie della città. Paradossalmente la fabbrica che dava da vivere agli abitanti è stata anche un mattatoio in cui hanno trovato la morte moltissime persone. Poco più avanti, nella piazza del villaggio, c’era una jeep con la scritta “TV” tracciata con il nastro adesivo, retaggio di un'epoca passata. C’erano tutti, CNN, NBC e così via. Sono arrivato due giorni prima dei funerali. Come funziona l’intera celebrazione?
Le bare vengono trasportate con dei camion da Tuzla, dove ha sede l’ICMP. Le salme vengono poste nel vecchio quartier generale delle truppe ONU, dove le famiglie possono poi trovare il cadavere del proprio caro e portarlo nel memoriale a valle, dove avviene il funerale. Quando sono arrivato c’erano le vedove che attendevano i camion con i cassoni stipati di bare.

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Quando hai cominciato a scattare, che approccio hai usato?
Ho cominciato a scattare da subito, appena arrivato. Avevo tutto quel carico così ingombrante di conoscenze sulla guerra e sul massacro che mi sembrava quasi irreale trovarmi davvero lì. Ho cominciato con il prendere le misure di quello che volevo fotografare. La prova vera è propria è stata nella "black room" accanto all’ex quartier generale dei caschi blu. Ci sono due fogli enormi con numero della bara e nome del defunto. I familiari hanno avuto contatti con l’ICMP, ma quello è il momento decisivo.

Ho cominciato a scattare seriamente, concentrandomi sul luogo e sull’atmosfera, ma soprattutto sulle vedove che si disperavano. Sappiamo che nell’islam il lamento funebre è devastante ma molto composto, allo stesso tempo. Non appartiene alla nostra cultura. L’audio che c’era in quella stanza non me lo scorderò mai. Ho scattato per otto o nove ore di fila, senza fermarmi. Non avevo più schede. Più andavo avanti e più rallentavo e le foto mi venivano meglio. Maturavo dal punto di vista dell’approccio, mentre tutto era in continua evoluzione. Quel pomeriggio, grazie ad un traduttore, ho parlato con una vedova che urlava a squarciagola contro Mladic.

Dove sta il limite tra interesse giornalistico e voyeurismo? Non ti sei mai sentito come se stessi sfruttando il dolore altrui?
Da un punto di vista professionale Srebrenica è una sfida. Dentro al comando ONU ci sono solo fotografi. Vedove e fotografi. Alcuni sono estremamente irrispettosi. Uno di loro girava con una scala di alluminio facendo un rumore assordante, per fotografare le vedove dall’alto. Io, come ti dicevo, ho preferito scegliere un approccio rispettoso. Avevo tutto il carico di aspettative del passato e di emozioni del presente. In un certo modo ero un testimone pronto a stimolare la coscienza di chi di Srebrenica sa nulla. In tutto questo, però, non mi sento di dire che sono andato a Srebrenica per il bene dei bosniaci. Ero lì per un qualcosa di personale. Mi sono sentito anche un po’ colpevole,per quell’egoismo che ti porti dietro. Sei lì per cercare una foto, un’estetica in un momento difficilissimo, pieno di dolore.

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Ci sono dei fotografi molto onesti che parlano dell’adrenalina che si prova ad andare in guerra, che è quello che li spinge a continuare. Altri si fanno intervistare e parlano della questione di principio, dell’essere testimone. Sono convinto che in buona parte mentano. Le vere motivazioni che ti muovono sono altre. Mi sento umano nel dolore che provo, nell’empatia e nella colpa che sento. Ma c’è da dire che il fotogiornalismo è diventato estremamente auto-referenziale.

In che modo ha influito l'esperienza di Srebrenica sul tuo lavoro?
È stato qualcosa di particolare. Professionalmente parlando sono riuscito a confrontarmi con un lavoro fatto all’estero, qualcosa di impegnativo e non immediato. Probabilmente mi serviva anche per lasciarmi alle spalle tutti gli stereotipi che ho accumulato sulla Bosnia e su Srebrenica; quegli stereotipi che mi aspettavo si realizzassero appena atterrato a Sarajevo. Vedi, Srebrenica e il dopoguerra bosniaco sono stati fotografati dal ’95 in poi, senza sosta, da fotografi più bravi di me, sempre in un certo formato, composizione e colore—in bianco e nero. Pensavo di poter fare qualcosa di diverso, una volta lì. Ma ho scoperto che è molto difficile. Negli anni si è venuta a creare una “grammatica” fotografica per parlare di Srebrenica. Una grammatica da cui è difficile sfuggire e a cui, io stesso mi sono piegato. Personalmente, parlando di emozioni sento di aver sfatato parte di quella carica drammatica che Srebrenica aveva nella mia mente. Per dirti, mesi dopo ho sognato di portarci mia figlia e non era più il teatro di un massacro, ma una cittadina serena, di montagna. È come se avessi risolto un nodo interiore che mi portavo dietro da anni.

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Segui Matteo su Twitter: @MattCngr

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