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Gli uomini sono più sinceri quando li si spinge al limite

Nei suoi progetti, Michael Christopher Brown insegue facce e luoghi in transizione: dalla Libia alla Russia, da Broadway al Congo, cerca di esplorare la "relazione tra la distanza e l'onestà" attraverso la fotografia.

Congo. Un soldato delle FARDC posa per un ritratto di Lake Kivu.

Il fotografo americano Michael Christopher Brown, a volte rifuggendo la macchina fotografica e usando la fotocamera del cellulare, ritrae luoghi in pieno cambiamento––dalla Libia alla Russia, a Broadway fino a Goma, in Congo, dove lavora attualmente. Brown dice di interessarsi alla "relazione tra la distanza e l'onestà." Parafrasandolo, Brown crede che solo quando veniamo spinti fino al nostro limite estremo siamo veramente sinceri.

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Il suo lavoro in Libia nel momento immediatamente successivo alla caduta di Gheddafi è stato ripreso dalla HBO nel documentario Witness: Libya e andrà a comporre il suo prossimo libro, Libyan Sugar, pubblicato da Twin Palms Publishers nel corso del 2014. Dato che le linee telefoniche continuavano a saltare, ho raggiunto Michael via email.

VICE: Cosa pensi del lavoro che fai? Ti vedi più come un artista o come un giornalista? 
Michael Christopher Brown: Ho sempre vissuto grazie al fotogiornalismo, ma ultimamente ho iniziato a percepirlo come una struttura troppo rigida perché mi consentisse di crescere artisticamente. Non mi sono mai identificato con il fotogiornalismo, e sono sempre stato ispirato dalle cose che succedevano in strada. Poi, pochi anni fa, ho scoperto che potevo esprimermi meglio scrivendo, e attraverso la scrittura ho compreso come la fotografia manchi di definizione. Da quel momento ho iniziato ad attraversare la fase in cui mi trovo tuttora, dove cerco di usare la fotografia più come un individuo, un cittadino, che come un fotografo il cui lavoro è illustrare o documentare qualcosa. Questo passaggio, dalla mera documentazione del mondo esterno alla documentazione e all'analisi del mondo esterno e del mio mondo interiore, è stato un grande cambiamento.

Com'è iniziata la tua carriera come fotografo? 
Quando sono stato preso per uno stage al National Geographic. Grazie ai lavori che ho fatto lì sono stato in grado di ottenere un buon numero di incarichi subito dopo essermi trasferito a New York nell'inverno del 2006.

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Quando lavori in zone di guerra ti preoccupi del fatto che la scena, nelle tue fotografie, possa finire per essere dominata da foto di armi e feriti? Come fai a trovare l'arte nel conflitto?
Be', vivo nell'est del Congo, che è una zona di intensi conflitti, ma non lavoro sulle prime linee. Sono tentato, ma evito perché lo si fa più per una sorta di dipendenza che non per le proprie idee artistiche. Ho bisogno di identificarmi con qualsiasi cosa stia accadendo prima di andare al fronte. Devo sentirmi coinvolto in modo molto profondo, come se combattessi io stesso. In Libia è stato così, ma non mi è più capitato da quel momento, se non una volta, brevemente, all'inizio della guerra in Siria. Comunque sia, non mi è mai capitato in Congo, anche perché da quanto comincio a capire di quello che succede qui il conflitto ha matrici etniche e di potere, e io non riesco ad immedesimarmi né con una né con l'altra etnia, né con chi non ha il potere né con chi ce l'ha. Alla fin fine, sono solo un bianco che viene dalla Skagit Valley: un alieno.

Rwindi, Congo. 2012

Capisco.
Trovare l'arte nel conflitto, come dici tu, credo voglia dire trovare un modo per identificare la tua situazione con quello che sta succedendo sul posto, e farlo in un modo personale, in cui anche altri possano identificarsi. Questo è ciò che rende un lavoro qualcosa di stimolante, perché è molto più che fare delle belle foto, è avere una visione del mondo che mi sembra essere, oltre a ciò che possiamo lasciare ai posteri, l'unica cosa che possiamo condividere con tutti. Voglio far sì che quanti vedono i miei lavori si sentano ispirati da ciò che hanno appena visto, non che ne siano distrutti: anche se si tratta di immagini brutali. Forse è un po' forzato, ma penso sia difficile per, che so, l'americano medio, guardare foto di conflitti in zone lontanissime del mondo e identificarsi in quelle immagini. Ma è esattamente ciò che spero di riuscire a fare con il mio progetto sulla Libia.

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E come speri di riuscirci? È una domanda difficile.
In Libia si trattava soltanto di vivere un'esperienza e registrarla usando lo stesso strumento che stavano usando i giovani libici, ovvero un cellulare. Ma il lavoro completo è molto più di questo. Nel libro ci sono un sacco di parti scritte e più di 400 foto, e dei miei amici hanno messo insieme su screenprojects.org un'installazione della durata di 20 minuti, fatta con spezzoni di miei video del 2011. Spero che quando tornerò a New York quest'anno avrò la possibilità di mostrare alla gente tutte queste cose, insieme a una dozzina di altri oggetti.

Kashgar, China. 2009.

Cosa pensi, oggi, della Primavera Araba? 
Dopo la mia esperienza in Libia non mi interessava molto seguire il resto della Primavera Araba anche se, all'inizio del 2012, stavo pensando seriamente di andare in Siria. Ero appena tornato dal Libano e avevo iniziato a monitorare la situazione e a contattare gente per trovare un modo di entrare nel paese, finché Remi Ochlik e altri giornalisti non sono stati uccisi. A quel punto ho ripreso a farmi la solita domanda: perché lo sto facendo? Ho deciso di aspettare e sono contento di averlo fatto. All'inizio la situazione sembrava simile a quella che c'era in Libia, ma presto è diventata sporca, in tutti i sensi, fino a trasformarsi in qualcosa che per me, da esterno, è irriconoscibile.

Puoi raccontarmi di quando sei stato rapito a Bengasi? 
Sono stato rapito poco dopo la fine della guerra. È stato strano. Stavamo riprendendo dei vagabondi a Bengasi, e quando abbiamo finito siamo montati su un furgone che sussultava e sobbalzava. Quando siamo scesi ci si è radunata intorno una grande folla, e l'umore generale è peggiorato quando dei miliziani hanno visto l'autista tirare fuori il suo AK-47 e fingere di sparare in aria per spaventare la folla. Lui se n'è andato senza di noi, ma loro hanno pensato che fossimo suoi colleghi, o almeno questa è stata la scusa che hanno usato per prenderci in ostaggio. Secondo un altro autista che era con noi, avevano intenzione di portarci nella loro base fuori città e derubarci, o forse peggio. Erano coinvolti vari veicoli di miliziani, avevano puntato una pistola alla testa dell'autista e ci avevano confiscato i telefoni.

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È successo mesi dopo la fine ufficiale della rivoluzione, la situazione era losca e imprevedibile perché la linea del fronte non era più ben delimitata. Alla fine, mentre il veicolo su cui eravamo stati fatti salire era imbottigliato nel traffico, sono riuscito ad aprire la portiera, uscire in mezzo alla strada e chiamare aiuto, finché la gente non è uscita dalle auto e venuta in nostro soccorso. A quel punto i miliziani sono fuggiti.

Kashgar, China. 2009. 

Che situazione. Di alcuni dei tuoi lavori, soprattutto quello sulla vecchia città cinese di Kashgar, mi hanno colpito i colori ricorrenti. Nelle foto di Kashgar erano il blu e il rosso. È una cosa che fai apposta? 
No, erano semplicemente i colori del luogo, che fosse giorno o notte. In alcune di quelle foto i colori sono stati leggermente modificati dalla macchina fotografica, perché le foto sono state scattate con pochissima luce.

Cosa ti ha portato in Congo? 
Nel 2012, per il loro numero su Internet e la tecnologia, ho proposto alla redazione di TIME Magazine un'inchiesta sui conflitti per il controllo dei minerali in Congo. Dopo l'inchiesta sono rimasto lì per un po', e poi ci sono tornato spesso fino a quando, a novembre, non mi sono trasferito a Goma.

Rwindi, Congo. 2012.

Le foto delle Olimpiadi, invece, sembrano mostrare un'altra faccia del tuo lavoro. Come cambia il tuo approccio quando si tratta di fotografie sportive? 
Sono andato a Pechino per la rivista di ESPN ed ero il loro unico fotografo, per cui avevo sulle mie spalle la grossa responsabilità di dover immortalare tutto e di doverlo fare usando, spesso, lenti lunghe. Per tutta la prima settimana mi sono trascinato dietro una grossa lente e quasi non ho dormito né mangiato, finché l'editor non mi ha detto di fare quello che volevo. Cosa che voleva dire andare in giro e fare ciò che gli altri fotografi non stavano facendo, anche se i nostri accrediti non erano un granché. C'è un motivo se i fotografi di, diciamo, Getty o Sports Illustrated o AP fanno le foto migliori: hanno gli accrediti migliori. Se non hai quel tipo di accredito ti ritrovi sugli spalti. Così sono andato in giro fra la folla e ho cercato di concentrarmi su quello che accadeva dietro le quinte.

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Molti dei tuoi lavori, in particolare quelli su Kashgar e sull'Alaska, sono ambientati in luoghi remoti. Sei particolarmente attratto da questi posti?
Non lo sono più, ma al tempo lo ero o per il lavoro che mi veniva assegnato (in Alaska ci sono andato per National Geographic Magazine, a Kashgar per Smithsonian) o perché volevo fotografare alcuni aspetti della vita di persone che si trovano in mezzo a grossi cambiamenti. A volte queste due cose si fondevano insieme, come nel caso dell'Alaska e di Kashgar.

Il servizio sull'Alaska parlava di un giovane avventuriero, Andrew Skurka, e del suo viaggio in solitaria tra i ghiacci. Ma in realtà parlava di un giovane che affronta la natura, che è totalmente in balìa degli elementi. Gli esseri umani sono così slegati dal mondo naturale, non viviamo più nella natura. E la natura diventa per noi molto spaventosa quando realizziamo di non avere più alcun controllo su di essa. Il servizio su Kashgar, invece, parlava di una città fondata dalla popolazione uigura che era stata dominata dai cinesi. Parlava dei cambiamenti nella vita della popolazione uigura, di cosa stava scomparendo e in cosa si stava modernizzando.

Andrew Skurka e Roman Dial, Alaska, 2010.

Pensi che la nascita e la diffusione del giornalismo dal basso stia danneggiando il tuo lavoro? Ti preoccupa il fatto che chiunque possa fotografare con il proprio cellulare quello che accade? 
Per citare Chuck Close, "la fotografia è l'unica arte in cui un capolavoro può nascere per caso." Chiunque, nel luogo e nel momento giusti, è in grado di scattare una grande foto, persino la fotografia automatizzata di Google Street View. Ma se dev'essere un lavoro, è importante la costanza: per questo i capolavori casuali scattati da un amatore non soppianteranno mai le ottime foto scattate da un professionista.

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Quel che mette in pericolo il fotogiornalismo è il modo in cui lavorano i fotogiornalisti più irriducibili. Ma io penso che più immagini ci siano meglio sia. Certo, ci sarà bisogno di più editor e curatori per setacciare questa grandissima quantità di informazioni (grazie per gli hashtag, Dio), ma in realtà sono convinto che stiamo entrando nell'età d'oro della fotografia, perché sarà finalmente disponibile a tutti e subito.

OK. Grazie, Michael.

Per vedere altre foto, vai alla pagina successiva.

Kashgar, China. 2009. La polizia pattuglia giorno e notte la città vecchia di Kashgar. 

Kashgar, China. 2009.

Kashgar, China. 2009.

Kashgar, China. 2009.

Kashgar, China. 2009.

Goma, Congo, 14 dicembre 2012. All'aeroporto di Goma, gli aerei dismessi dopo le guerre o le eruzioni vulcaniche sono diventate un parco giochi frequentato dai bambini di strada, che spesso raccolgono anche i rottami per rivenderli.

Congo. 2013.

Rwindi, Congo. 2012.

Congo. 2013.

Alaska. 2010. Andrew Skurka sulle montagne Kichatna.

Altre foto:

The Sochi Project, un promemoria della triste eredità delle Olimpiadi