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Intervista ai registi di Mine, l'ultimo capitolo del "nuovo cinema italiano"

Mine, un film di coproduzione italo-spagnola, fa parte di quel filone salutato come "il rinnovamento del cinema italiano" preceduto da Jeeg Robot, Veloce come il vento e in parte anche Gomorra. Ne abbiamo parlato coi registi.

Una scena del film.

Tutte le foto per gentile concessione dell'ufficio stampa di Mine.

Mentre due giovedì fa su Rai 1 andava in onda l'ennesimo Italia-Spagna degli ultimi anni, faceva le sue prime apparizioni in sala, con solo 200 copie, Mine, diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, Fabio&Fabio nei credits. Se il tesissimo trailer non ha fatto breccia nella vostra bacheca di Facebook in questi giorni, ecco due parole su cosa sia Mine: è un film di coproduzione italo-spagnola, prodotto dall'americano Peter Safran (The Conjuring, Buried), uscito in Italia in anteprima mondiale e già venduto in tutto il mondo.

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Mine si svolge nel deserto afghano e racconta la storia del Marine Mike Stevens. In seguito al fallimento di una missione, Mike sfugge ai nemici inseguitori e a una forte tempesta di sabbia: dopo alcune ore di cammino, si ritrova in una zona minata. Lì mette un piede su una mina antiuomo, con la certezza che i soccorsi non arriveranno prima di due giorni, e che un movimento del piede lo farà saltare in aria. Dovrà fare appello a tutte le sue risorse per sopravvivere alle condizioni ambientali, ai predatori notturni e ai suoi demoni interiori, per uscire da una situazione disperata.

Se si è parlato di Mine, però, è anche e soprattutto perché il film fa parte di quel filone salutato come "il rinnovamento del cinema italiano" preceduto da Jeeg Robot, Veloce come il vento e in parte anche Gomorra. Da questi esempi, Mine si differenzia perché il look e la storia sono davvero da studios importanti, da blockbuster. Non a caso Fabio&Fabio hanno lavorato per tre anni come sceneggiatori per la 20th Century Fox, adattando un loro cortometraggio fantascientifico con la casa di produzione americana.

A pochi giorni dall'esordio in sala, li abbiamo incontrati per parlare del film e dell'accoglienza ricevuta. VICE: La prima settimana ha dato risultati positivi, ma dal mio punto di vista non è una grossa sorpresa. Mine è un classico High Concept Movie, basato su un'idea forte e subito riconoscibile, appetibile per i mercati internazionali e per un pubblico molto vasto. Siete d'accordo con questa definizione, e ne avete tenuto conto in fase di progettazione?
Fabio&Fabio: La strada dell'high concept è fondamentale per raccogliere gli interessi di produttori e distributori. Per poter fare il film, insomma. Lo abbiamo tenuto presente fin da subito, ma è stato il cavallo di Troia per raccontare altre cose. Abbiamo cercato di usare codici riconoscibili al pubblico, come quelli del film di "genere", per poi far passare un messaggio personale. Mine, come idea di fondo, è un survivor-movie [come 127 ore e All is lost], ma c'è un tema forte, quello della paura di andare avanti, che lo colloca nel film d'autore. Il survivor non sarebbe stato abbastanza per raccontare la nostra visione. Spesso facendo film di questo tipo si finisce per tenere un gran ritmo, senza però raccontare veramente qualcosa.

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Come avete conciliato questi due mondi, il pop e il film d'autore, e avete mai pensato di virare verso una strada piuttosto che un'altra?
Ci siamo confrontati con questo problema del bilanciamento in ogni fase. Sia nella sceneggiatura, ad esempio tramite determinati colpi di scena, che nella regia. Abbiamo variato molto il linguaggio visivo, e anche la fase di montaggio è stata cruciale. Ci chiedevamo continuamente se i significati del film fossero chiari, se stessimo virando troppo sul film d'autore. Ecco, se stessimo andando a finire troppo sul commerciale, però, non ce lo siamo mai chiesti.

A questo proposito, avreste potuto spingere molto di più sull'azione, sugli ostacoli che Mike deve superare fisicamente—penso alla scena dell'assalto dei cani o alla seconda tempesta di sabbia.
[Nel film] accadono tante cose, potrebbe quasi essere definito una specie di Die Hard su una mina. L'idea della mina, in particolare, ci è venuta mentre eravamo in una fase di stallo lavorativa. Stavamo riscrivendo per l'ennesima volta il lungometraggio adattato da un nostro corto, Afterville. Eravamo bloccati, non sapevamo fare il passo successivo. Il film viene dalle nostre mine, dai nostri blocchi. E il motivo per cui sta arrivando emotivamente alla gente è perché ognuno ci rivede le sue.

Una scena del film.

L'immagine iconica di un uomo su una mina è arrivata prima dell'idea di raccontare l'essere umano incapace di fare il passo successivo nella vita?
L'immagine della mina è arrivata prima, e completamente a caso, non sapremmo nemmeno ricostruire come e quando. Certo è che abbiamo capito subito che avesse un valore metaforico. Così abbiamo iniziato a costruirci sopra la storia.

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La questione "dell'immagine" è sicuramente centrale, si può dire che Mine sia un film molto "visivo". Quali sono le vostre influenze?
Tutti i linguaggi di cui siamo appassionati come il fumetto, l'animazione e i videogame danno degli spunti che poi rielaboriamo anche al servizio del film. Il fumetto per esempio attua un grande lavoro di stilizzazione. Noi cerchiamo di creare immagini che abbiano un significato per come sono composte. Non stilizziamo ogni inquadratura come fanno film tipo Sin city o 300. Però lavoriamo in questo senso, e molto viene dalla preparazione degli storyboard, che riteniamo strumento uno fondamentale.

A livello cinematografico, siamo cresciuti con il cinema americano degli anni Ottanta, con registi come Carpenter, Spielberg e Zemeckis, ma anche registi come Kurosawa e Tarkovskij ci hanno influenzati. Tra gli autori più recenti, Nolan e Fincher.

Parliamo di come avete fatto a mettere su la baracca. È il vostro primo film, la location [il deserto afghano, ricreato alle Canarie] non era delle più semplici e non avevate un budget consistente. Quali sono stati i passaggi più difficili nella realizzazione di un progetto come questo?
Paradossalmente, la fase più facile è stata lo shooting, che comunque è stato un casino. La pre-produzione non è stata un grande travaglio per certi versi, perché l'idea era girare un film asciutto e "realizzabile". Sapevamo che in qualche modo l'avremmo fatto, però far capire esattamente quello che volevamo far passare noi come autori, non è stato semplice.

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Ci sono volute sette stesure per rendere la sceneggiatura proponibile. Poi, mentre eravamo sul set, ci hanno dimezzato il budget e il compenso: il film doveva essere finanziato in un certo modo, con una grossa società alle spalle, ma le cose sono cambiate per via delle tempistiche strette e perché Armie Hammer [al suo primo ruolo da protagonista, con tutto il film sulle spalle, ma già scritturato da grandi registi come Clint Eastwood, in J.Edgar, e David Fincher, in The Social Network] doveva andare via entro una certa data, la moglie doveva partorire. In fase di montaggio c'è stato un duro confronto con i produttori, ma alla fine siamo giunti a un compromesso che ha migliorato il film.

Inoltre ci ha aiutati molto girare a Fuerteventura, per via delle norme fiscali agevolate. Negli ultimi anni un sacco di gente è andata a girare là. Ridely Scott, per fare Exodus, ha affittato l'intera isola. Tutti gli abitanti ci hanno lavorato.

Una scena del film.

Ritenete che il percorso del vostro progetto, fatto anche di coproduzioni, sia replicabile in Italia?
Per fare un film del genere girare in inglese è molto meglio, puoi attirare grossi nomi ed essere facilitato. In generale, in Italia dopo Jeeg Robot e Gomorra le cose si stanno muovendo, anche se c'è sempre un po' di timore. A noi hanno dato il Mibact [il fondo ministeriale per il cinema] dopo lo shooting. In fase di stesura, dove tutto è più incerto, sarebbe stato più difficile. Con la commedia o il dramma vai sempre sul sicuro. Però almeno se ne parla di queste cose, non sono più un tabù.

A proposito di Jeeg Robot e Gomorra, in Italia sono aumentati i prodotti esportabili o dai temi attuali. Negli ultimi tempi, secondo me, si attua anche un po' il meccanismo per cui un film italiano ben recensito lo si va a vedere per "orgoglio nazionale". Come se dovessimo riscattarci. Vi sentite parte di un'ondata che forse sta muovendo qualcosa nel nostro cinema? O quantomeno la riconoscete?
La riconosciamo e speriamo di esserne parte. Ma è anche più di come dici tu. Non c'è solo voglia di riscatto. C'è voglia di qualcosa di nuovo. La commedia e il film d'autore italiani hanno stancato, così come i film di genere americani, che non rischiano e non stupiscono, non emozionano. Questi film sono film migliori, usano il genere come tramite per raccontare storie che appartengono agli autori. E la differenza si vede.

La cosa bella di questa ondata è anche che i protagonisti sono registi e sceneggiatori che si sono presi sulle spalle i loro progetti, in prima persona. E poi sono della stessa generazione. Ci si inizia a parlare, a scambiarsi le idee, i consigli. Il passo avanti lo stiamo facendo anche a livello tecnico: la color correction e il sound design di Jeeg e Veloce come il vento spaccano, nonostante budget che sono infimi rispetto a quelli americani. Ma in fondo l'arte di arrangiarsi fa il regista italiano.

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