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La festa delle armi

Il 2 giugno non è solo la festa della Repubblica ma anche, e soprattutto, la festa della armi.

Questo sabato, per festeggiare la Repubblica, sono andato su google, ho digitato “2 giugno” e ho perso ore e ore tra parole come “parata”, “festa” e “protesta”. Dopo non molto, mi sono reso conto che in realtà, la parola chiave è una sola: "armi". Il mercato della guerra va benone, soprattutto in Italia. Le armi rappresentano l’essenza di un'economia anti-crisi e se cercate lavoro, temete Equitalia e avete il pallino dell'armiere, il mondo delle cose che esplodono potrebbe essere esattamente quello che fa per voi. Nel 2011 le esportazioni di questo made in Italy hanno toccato molti Paesi extra-Nato, Ue e Osce. Il 64 percento del pacco bellico è andato ad altri, perlopiù a quei Paesi in cui—eticamente—sarebbe meglio esportare altro, ma proprio altro, tipo qualsiasi altra cosa. Algeria, India, Arabia Saudita, Turkmenistan, Russia, Gabon, Panama ed Egitto. L’Italia è tra i primi produttori di armi al mondo, e la situazione difficilmente cambierà a breve. Il mercato è in crescita, le banche non accennano a cambiare aria e i mercanti d'armi, spalleggiati un po' da tutti quelli che hanno voce in capitolo nel mondo del profitto, fanno tutto il possibile per evitare il confronto con chi è incaricato, in teoria, a tutelare il commercio d'armi da, per e attraverso i nostri confini.

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Ma come funziona la vendita di armi? I contratti tra venditore e acquirente consistono in compensazioni economiche. Il Paese A vende al Paese B e in cambio il Paese A si impegna a comprare dal Paese B. Così il Paese A vende spara-tutto al Paese B e il Paese B vende al Paese A ananas e meloni, e petrolio. Queste compensazioni si chiamano “offset” e rappresentano uno di quei miracoli del capitalismo che sembrano funzionare più o meno ovunque, se ci si trova dalla parte giusta dello scambio. Non sono io a dirlo, ma alcuni professionisti del settore che di armi ne sanno sul serio. Ho fatto due chiacchiere a riguardo con Piergiulio Biatta e Carlo Tombola di OPAL, con cui ho parlato dopo aver provato, invano, a contattare i veri protagonisti della scena, ovvero la Beretta, una delle più grandi aziende del settore.

La questione delle armi e delle esportazioni è ovviamente molto complessa. Volendo sintetizzare al massimo, esiste un commercio di armi civili e un commercio di armi militari, “stesse armi ma diverse destinazioni, e diversi controlli.” Delle esportazioni militari si possono sapere mittenti, intermediari e destinatari—in teoria—delle esportazioni civili no. Nel commercio di queste armi mittente, intermediari e destinatari sono un punto di domanda che va a trovare conferma nelle guerre del mondo, primavera araba in testa.

“Di queste armi conosciamo il valore, non le quantità, non i destinatari. Per quanto ne sappiamo abbiamo armato chi ha represso la primavera araba. Delle armi civili si occupa solo il prefetto, il benestare all’esportazione è suo e di nessun altro.”

Sì o no lo dice il prefetto del territorio in cui queste armi vengono prodotte, lo stesso prefetto che risponde alle domande delle associazioni che fanno domande sulle cose della guerra. Il prefetto però non risponde, ci ho provato anche io, ed è stato un coro di “Pausa pranzo”, “Turno mattina”, “Ho il gatto sul fuoc… tututututu”. “È difficile individuare i veri destinatari. Si conoscono le nazioni, ma non i destinatari, e nessuno vuole rispondere.“ E neanche le aziende vogliono parlare, come per il prefetto, le telefonate sono finite in dei vaghi “Mi spiace è in riunione”. Ma non tutto il mondo è Italia. “Nel mercato della guerra gli Stati Uniti sono estremamente cristallini. Senza andare così in là, la Francia è molto più trasparente dell’Italia e noi siamo l’anomalia.” L’unica cosa certa sono i soldi, a palate. “Quello delle armi è uno dei pochi settori che non ha risentito della crisi, anzi”, e le banche, quelle armate, non hanno nessun interesse a mollare l’osso.

E se ogni anno lo Stato pubblica il rapporto delle armi esportate, il 2012 deve aver patito un massicio calo d’attenzione perché la tabella generale sulle operazioni autorizzate si è persa, irrimediabilmente, e l’incertezza di cosa e chi ha esportato non ha lasciato nessuno spazio alla verità. “Non abbiamo idea di dove vadano a finire le transazioni e la trasparenza è un ideale.” Sapere i dettagli di questo commercio sembra impossibile. “Beretta non ce lo dirà mai, le aziende produttrici non vogliono avere niente a che fare con noi. Non ci sono interlocutori disposti a parlare dei propri traffici, si parla tanto di leggi e regolamenti, ma alla fine non cambia mai niente, anzi, sembra peggiorare.”