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A8N8: Sei del deserto e non lo sai

Jeff Wall

La fotografia—intesa nel senso in cui molte persone la praticano—non è altro che la fusione tra un quadro e un romanzo.

Ritratto di Gilda Aloisi
Foto per gentile concessione di Galleria Lorcan O’Neill, Roma

Un giorno, verso la fine degli anni Settanta, Jeff Wall camminava per le strade di Vancouver e assistette a una scena che lo colpì, ma che non riuscì a fotografare. Così decise di ricrearla meticolosamente nel suo studio e di fotografarla in differita. In quel momento non solo capì che la fotografia era il suo mezzo espressivo, ma anche che avrebbe continuato a ricostruire la realtà. Ancora oggi, dopo che le sue foto sono state vendute per cifre record, e dopo le retrospettive al MoMA e alla Tate, Wall usa i metodi della fotografia documentaristica per testimoniare eventi che non sono mai esistiti, fissati da una finta memoria—un metodo di lavoro molto più vicino a quello del pittore o dello scrittore.

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Una delle cose che ho imparato dall’incontro con Jeff Wall è che fotografare un fotografo non è cosa semplice. Molti di loro si contorcono davanti a un soggetto per coglierne al meglio l’essenza, facendo richieste in continuazione. Gilda, la nostra fotografa, non ha voluto impartire alcun tipo di istruzione (anche perché il soggetto in questione è già splendido senza ulteriori forzature), e Wall se n’è risentito. Lo ha fatto in modo educato, gentile, e un po’ beffardo: lui vuole essere manipolato, come fa con i soggetti delle sue fotografie.

VICE: Ho appena visto la sua ultima mostra, “Portrait”. L’arte classica influenza ancora il suo lavoro?
Jeff Wall: Molte persone hanno l’impressione che tutto quello che faccio sia strettamente connesso all’arte del passato, ma le cose non stanno esattamente così. Ne ho parlato molto, 20-30 anni fa, e forse questo ha portato la gente a pensare che il mio rapporto con l’arte del passato sia più forte o speciale di quanto non sia realmente. Traggo ispirazione dall’arte, non importa che sia antica, molto antica, contemporanea; non conta che si tratti di pittura, fotografia, o qualsiasi altro medium; e la ragione per cui m’interessa è perché mostra come un momento qualsiasi, un momento come questo, abbia in sé il potenziale per diventare un’opera d’arte in epoche diverse, quindi è una sorta di guida per ogni artista.
La mia relazione con l’arte del passato non è sempre la stessa e non m’interessa definirla: i critici e altre persone l’hanno già fatto per me, solitamente attraverso la comprensione parziale o il totale fraintendimento o l’interpretazione di cose che ho detto tempo fa, quando cercavo ancora di spiegare, in parte, quello che faccio.

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La sua prima serie di fotografie, Landscape Manual—una piccola brochure di foto di Vancouver in bianco e nero scattate dal finestrino di un’auto—è del 1969, ma il suo catalogo ragionato inizia con The Destroyed Room (1978). Cos’è successo tra il 1969 e il 1978?
[ride] Sono successe tantissime cose! Ok, cercherò di essere sintetico. Da adolescente disegnavo e dipingevo molto. Erano gli anni Sessanta, quindi ho vissuto quella decade mentre le cose accadevano. Per te è solo storia, io ero lì. C’erano molti stravolgimenti in atto nel mondo dell’arte: dall’arte concettuale al post-minimalismo, e poi le performance e così via. Tutte queste cose m’interessavano. Sembrava che dipingere e disegnare fosse un tantino fuori moda, così iniziai a sperimentare, nello spirito dell’epoca. Ho imparato tanto, divertendomi. Mi piaceva l’arte degli altri, ma non ero ancora bravo in niente. Sapevo di non poter essere un pittore moderno come Matisse e presto capii di non poter essere neanche un artista concettuale come, metti, Lawrence Weiner. Era un periodo confuso, difficile. Ero come perso, mentre lottavo per capire come diventare un artista. Continuai a sperimentare con la fotografia e altri media. Per un periodo volevo fare film.
Mi ci sono voluti dieci anni per trovare il mio strumento. Lentamente, la mia propensione verso la fotografia ha preso il sopravvento e infine sono arrivato al genere di cose che faccio adesso—che implica il recupero di ciò che mi piace dell’arte del XIX secolo, del XVII secolo, del XX secolo. Quindi l’arte del passato mi ha aiutato moltissimo a trovare la mia strada nel mondo contemporaneo, e questo ritorna alla tua prima domanda sul perché ne sono così influenzato: non ho mai considerato fuori moda l’arte del passato perché non sarei mai potuto essere un artista concettuale o post-concettuale.

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Ma lei continua a essere considerato un artista concettuale.
Sul mio lavoro sono state dette tantissime stupidaggini, cose che non hanno nulla a che vedere con quello che faccio. Non sono un artista concettuale. Conosco molti artisti concettuali e ho sviluppato il mio lavoro anche attraverso il dialogo con l’arte concettuale, ma faccio fotografie, è molto diverso.

A Woman and her Doctor, 1980-81

Qual è il suo rapporto con la letteratura? Se dovesse paragonare la sua opera a quella di uno scrittore, chi sarebbe?
Ho scattato foto che sono esplicitamente ispirate agli scritti di altre persone, come Mishima o Kafka, ma non penso che questo definisca una relazione con un autore. Sono stati incidenti, sarebbe facilmente potuto succedere con qualcun altro. Quindi, la mia relazione con, metti, Ralph Ellison—perché ho scattato foto molto elaborate basate sul suo libro Invisible Man—è stata comunque incidentale: un giorno mi è successo di essere completamente assorto dal libro e l’immagine è apparsa. Il rapporto che ho con la letteratura è molto importante. Penso che, in qualche modo, tutti i fotografi siano personaggi ibridi: da un lato romanzieri, dall’altro pittori. E la fotografia—intesa nel senso in cui molte persone la praticano—non è altro che la fusione tra un quadro e un romanzo. Walker Evans ha detto: “Non c’è romanzo che non sia un libro di fotografie,” quindi pensava che il compito di uno scrittore fosse quello di descrivere eventi che potrebbero esistere come fotografie.

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Non a caso Walker Evans, in principio, voleva diventare uno scrittore. Le ho chiesto del suo rapporto con la letteratura perché le sue foto mostrano importanti qualità narrative: l’osservatore può facilmente immaginare una trama, una storia…
Evan si è sempre considerato un romanziere. Quando capì che non sarebbe mai stato all’altezza di Flaubert, cambiò rotta e diventò un fotografo per avere la possibilità di scrivere, in qualche modo, il suo romanzo. Lui lo fece in stile documentaristico, il mio è uno stile cinematografico. Molti fotografi hanno un legame molto forte con la letteratura e si sentono, in qualche modo, scrittori. Penso di essere uno di loro.

Per anni ha utilizzato i lightbox come supporto per le sue fotografie, ma ha ripetuto più volte che questa scelta non ha niente a che fare con i mass media o con la pubblicità. Cosa l’ha portata a scegliere i trasparenti, all’epoca? Il caso?
Anche questo è stato, in parte, un incidente. Quando ho finalmente capito di poter lavorare con la fotografia come poi ho fatto—come, metti, in The Destroyed Room—volevo creare questa grande foto, un tableau, che si potesse appendere al muro, che assomigliasse a un dipinto, che fosse a colori, che potesse contenere finzione e realismo allo stesso tempo, ecc. Ma, negli anni Settanta, il colore era complicato da usare dal punto di vista tecnico.

Boxing, 2011

Perché era instabile o…
Instabile lo è ancora, ma aveva anche altri problemi. Ero molto insoddisfatto della maggior parte dei supporti a colori. Andai al laboratorio con cui lavoravo e mi mostrarono questo materiale che allora chiamavano cybacrome. Era un materiale opaco ma era anche molto brillante, riflettente e questo non mi piaceva. Pensai “E adesso che cosa faccio? Non c’è modo di stampare una foto a colori che mi piaccia”. E il ragazzo del laboratorio mi disse “Hai mai preso in considerazione il supporto trasparente? Lo usiamo spesso per le pubblicità.” Me lo mostrò ed era vivido, aveva una buona saturazione, così gli dissi che ci avrei pensato. Subito dopo venni in Europa e visitai molti musei, tra cui il Prado. Andai da Madrid a Londra in autobus e, lungo il tragitto, continuavo a vedere questi tabelloni pubblicitari, così cominciai a mettere in relazione le due cose: la bellezza dei dipinti, la loro luminosità, e quello che mi aveva detto il ragazzo al laboratorio. Mi dissi, “Proviamo.” È dipeso tutto dalle circostanze. Non era mia intenzione fare un commento sui mass media semplicemente perché non l’ho mai trovato interessante, non sono un artista pop.

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Le sue foto ritraggono alcuni aspetti della realtà meglio di molte immagini documentaristiche. Pensa che sarebbe in grado di raggiungere lo stesso risultato con un’istantanea?
L’ho fatto più volte. Non ho un metodo. Se fosse possibile scatterei solo istantanee. Quello che faccio quando elaboro le mie immagini costruite non è l’opposto della snapshot photography. La fotografia è un medium enorme, complesso, e non c’è un solo modo di praticarla. Non c’è contrasto tra la snapshot photography e qualsiasi altro tipo di fotografia: è una sorta di continuum. Nei miei montaggi digitali—composti da dieci, 20, 50 immagini—le istantanee giocano un ruolo importante. Sono state scattate in un luogo, ma ritraggono solo quello che l’obiettivo ha visto in quel momento. Quindi la relazione tra un approccio alla fotografia e un altro non è mai definita e le persone che cercano di definirla finiscono sempre per fare cose meno interessanti. Possiedo ogni tipo di macchina fotografica—ho una macchina digitale, ho la fotocamera del cellulare, ne ho una analogica—e le uso tutte. Se decido di essere Cartier Bresson faccio questo, se voglio essere Steven Spielberg faccio quello. La fotografia ti permette di essere chiunque e, in un certo senso, di rubarne l’identità, anche se solo per pochi minuti. È questa la ragione per cui penso sia meglio non cercare di definire la fotografia a te stesso.

Ritrae spesso incontri tra classi sociali. Ha mai avuto la tentazione di dare delle connotazioni politiche alle sue fotografie?
Penso che abbiano già una chiave di lettura politica: ritraggono rapporti umani e tutti i rapporti umani sono, in qualche modo, politici. L’oggetto principale di molte mie fotografie è il confronto tra individui diversi fra loro, tra persone in conflitto, gente che è stata maltrattata dagli altri o dalla società. Non m’interessa fornire una presa diretta sulla realtà, penso solo che alcuni soggetti siano parte del momento, parte della quotidianità e, dato che lavoro attraverso l’intuizione e il caso, se vedo qualcosa del genere e mi colpisce in quanto possibile foto, so che la ragione risiede nel mio rapporto con quel materiale sociale. Non tento di definire quella relazione, penso solo: ecco una foto, questo contiene qualcosa, e lo prendo da lì. E poi ovviamente, dentro ogni foto, c’è qualcosa di speciale, ma quel qualcosa non è sempre definibile, e questo mi piace. È qualcosa che puoi trovare in tutta l’arte interessante: la chiave di lettura sociale è lì ma non puoi puntarci contro il dito e dire esattamente cosa significa. Questo è ciò che la rende interessante.

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Milk, 1984

Forse Dead Troops Talk (1992) ha varie chiavi di lettura politiche. 
Forse, ma quali sono?

Secondo alcuni Dead Troops Talk contiene le lezioni morali de La zattera della Medusa. Susan Sontag ha scritto che può essere interpretata come una fotografia contro la guerra e come un commento sulla fotografia di guerra nei media. Nel mio caso, il significato più evidente, è che gli uomini amano la guerra.
Sì, forse. Forse agli uomini piace, forse la trovano eccitante e forse se ne pentono non appena vi sono coinvolti. Forse la odiano, forse ne hanno paura, forse la sognano, forse amano semplicemente parlarne. In quella foto, la fantasia era che questi ragazzi, uccisi durante l’azione, fossero in una sorta di stato allucinatorio. Li vedi ritornare in vita, e cosa direbbero? Ogni persona è differente, quindi la loro relazione nei confronti della guerra non è unica, è una sorta di relazione diffusa. La foto non dice niente a proposito della prima guerra in Afghanistan, non penso che insinui qualcosa riguardo all’Unione Sovietica, ma in un certo senso sta dicendo qualcosa riguardo a tutti questi argomenti, alla storia e così via. Non sto negando che questi temi siano parte della mia immaginazione, ma non so come fornire una risposta politica alla domanda. Penso che l’immagine mi trattenga dal farlo. Quando scatti una fotografia, questa ti blocca dallo spiegare certe cose in un certo modo, e forse ti porta ad avere un approccio diverso che è difficile da definire.

Perché gli uomini isolati sono un tema ricorrente nel suo lavoro?
Lo sono?

Sì, lo sono.
Be’, ce n’è uno nella mostra che hai appena visto, quindi suppongo che tu abbia ragione. Non so, non interpreto il mio lavoro. In passato pensavo di poterlo fare, ma adesso credo che sia una sorta d’illusione. Sai, le persone sono attratte dalle cose. Forse tu sei attratta da cose che io neanche noto. Possiamo dire perché siamo chi siamo? Io non penso di poterlo fare. E adesso sono così vecchio, non m’interessa.

Un’ultima domanda: le piace il mondo che ritrae? È emotivamente coinvolto dai suoi soggetti?
Sì, lo sono, ma non so che aggettivo usare nei loro confronti. Penso che il sentimento più comune di un artista verso ciò che ritrae sia una sorta di affezione, di attaccamento. Mettiamo che stia scattando una foto a un ragazzo che si sta riparando dalla pioggia: provo affetto per la faccia di quel ragazzo, mi piace la pioggia e mi piace l’aspetto che hanno le gocce di pioggia sulla sua giacca e mi piace l’aspetto che ha il vecchio muro di mattoni e penso che l’ombra sia gradevole e amo le foto in bianco e nero e mi piace come l’acqua bagna i suoi pantaloni per poi cadere a terra.
Qualunque sia il soggetto, quando diventa una foto, io guardo all’intera immagine con una certa gentilezza e questo sentimento è parte di ciò che la rende bella. Provo questa emozione, la sento nei confronti di qualcosa e inizio a lavorarci, ed è probabilmente una delle cose che ti colpiscono quando vedi il lavoro finito. Può essere una sensazione immediata o può essere molto difficile da costruire. Quest’emozione è come l’oceano e tutto il resto fluttua al suo interno.