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A8N4: Il numero dello spettacolo

La malavanità

Il cinema guarda la mafia che guarda il cinema.

Fino a qualche decennio fa, i clan erano più simili a tribù che ad aziende, e il capo mafia richiedeva rispetto per il ruolo “regolatore” che esercitava sulla popolazione sottomessa, spesso povera, alla quale era meglio non mostrare eccessiva ricchezza. Oggi, invece, i mafiosi utilizzano la ricchezza per essere accettati nelle realtà affaristiche lontane dai tradizionali confini regionali. Il boss di stanza a Milano usa in segreto gli stessi rituali del passato per dimostrare l’affiliazione al clan, mentre alla luce del sole si atteggia e parla come un affermato uomo d’affari, che come gli altri produce e fa girare l’economia. Non è più solo un parassita che estorce denaro, ma un vero soggetto economico: visto il successo del suo prodotto e l’enorme giro d’affari, il trafficante-broker di cocaina non si sente più un criminale, ma un businessman come gli altri. Il denaro guadagnato viene poi reinvestito in alberghi, ristoranti, locali notturni, aziende, società e nel lusso più pacchiano. Nei paesini sperduti della Locride e dell’Aspromonte, i mammasantissima della ‘ndrangheta dominano la comunità dai loro grigi e incompleti palazzotti di cemento armato, mentre a nord della Linea Gotica costruiscono ville da sogno, simili (se non identiche) a quelle che si vedono nei film hollywoodiani in cui i padrini conquistano consenso sociale e si fanno apprezzare dalla gente che conta grazie alla loro ricchezza. Il 24 giugno 2011 i finanzieri del GICO di Reggio Calabria hanno sequestrato una serie di beni alla ‘ndrangheta, al clan Alvaro di Sinopoli, una cosca dell’Aspromonte che ha sempre preferito agire nell’ombra, arricchendosi senza mostrare—o almeno così hanno fatto in Calabria, in puro stile ‘ndranghetista. Ma la modernità si è imposta anche su di loro, facendo perdere importanza alle regole interne che hanno portato le ‘ndrine molto in alto. Così tra i beni sequestrati ecco spuntare una villa nascosta tra la vegetazione, abusiva, e costruita sul modello di quella di Tony Montana in Scarface. Il clan degli Alvaro è lo stesso a cui nel 2009 sequestrarono il Cafè de Paris di Roma, il simbolo della dolce vita di felliniana memoria.

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Il caso più noto di imitazione del modello Montana è quello della villa di Walter Schiavone, camorrista appartenente ai clan dei casalesi, cugino del più noto Francesco Schiavone, detto “Sandokan”. L’abitazione è un’ambiziosa ricostruzione della villa del film in salsa casertana, forse una delle più riuscite. Bisogna precisare che i camorristi si sono distinti fin dagli inizi per i gusti eccentrici e l’ostentazione del potere, a differenza dei più “sobri” mafiosi calabresi.

I boss siciliani sono quelli che hanno ispirato i primi film hollywoodiani dedicati alla mafia, che spesso glorificavano il loro successo. Con questi film sono diventati i modelli da seguire per altre organizzazioni mafiose e per le nuove generazioni che desiderano avvicinarsi al mondo criminale. I mafiosi incarnano il modello di società in cui arrivare in fretta alla meta, anche con mezzi illegali e aggirando le regole, è un imperativo di vita. Lo spiega bene Roberto Saviano, che su La Repubblica ha scritto: “Tony Montana viene dalla miseria: cacciato dalla Cuba di Castro che si libera dei criminali dopo la rivoluzione, approda negli Stati Uniti senza niente in tasca, inseguendo il sogno americano. E qui crea illegalmente una fortuna. L’uomo che si costruisce da sé, il self-made man spietato ma con regole proprie, consapevole che avrà tutti vicino finché sarà in alto e che tutti si allontaneranno quando cadrà.” La mafia crea consenso attorno a sé non solo con lo scambio di favori e benefici, ma anche vestendo i suoi uomini più rappresentativi di un’aura mitica, e raccontando solo una faccia della realtà. Le pellicole hollywoodiane che hanno descritto la mafia e i suoi capi puntano l’attenzione sugli stili di vita, mentre lo squallore del quotidiano rimane nascosto. Quello che interessa raccontare sono la ricerca e la conquista del potere, e i simboli che lo certificano. E visto che la mafia ama l’apparenza e che si parli delle gesta dei capi, i suoi affiliati accettano di buon grado queste rappresentazioni, ma solo se fatte come dicono loro: il cinema, la letteratura, le copertine dei giornali sono ottimo materiale per i boss, ma solo se è preminente il lato folkloristico dell’Organizzazione. Quando un giornalista chiese come i capi clan avrebbero accolto un’eventuale trasposizione teatrale de Il giorno della Civetta, Leonardo Sciascia rispose che sarebbero stati in prima fila: “La mafia è vanitosa.”

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A Boscoreale, provincia di Napoli, Carlo Padovani ha pensato bene di mettersi in casa una riproduzione in ceramica del protagonista di Scarface. Quando i Carabinieri l’hanno trovato, non potevano credere ai loro occhi. Montana ha ufficialmente scansato, o quantomeno affiancato, le immagini sacre di cui i boss si sono da sempre circondati. Le statue di Padre Pio, di San Gennaro e di San Michele Arcangelo ora stanno accanto alle raffigurazioni dei padrini dei film.

Un intero paese collaborava con il “sistema” di cui Padovani farebbe parte: donne, ragazzi, e bambini che facevano da vedette per segnalare l’arrivo delle forze dell’ordine. I bambini guadagnavano 200 euro, i pusher400, più il dieci percento su ogni dose venduta. A sorvegliarli c’erano dei controllori, i capi-reparto. La Procura antimafia di Napoli ha scoperto una struttura simile a un’organizzazione industriale, che vive di miti, leggende, simboli, e soprattutto dell’arroganza di decidere della vita degli altri. La collaboratrice di giustizia Valeria Tufano, ex spacciatrice del Piano Napoli, a Boscoreale, entrò nell’organizzazione a 13 anni. In una conversazione registrata dagli investigatori si rivolgeva al boss Francesco Casillo, sovrano della piazza di spaccio dal 1991, pregandolo di “assumere” il figlio nel “sistema”. Questo è il contesto in cui la figura di Tony Montana è diventata un modello da seguire, e in ultima istanza da santificare.

Anche Il Padrino è uno dei film preferiti da una nutrita schiera di giovani aspiranti mafiosi. Non a caso il boss Luciano Liggio, arrestato poco tempo dopo l’uscita de Il Padrino in Italia, si presentò ai giudici con un look simile a quello di Vito Corleone. Vale la pena di ricordare il caso di Daniel Carbuccia, l’aspirante mafioso newyorkese finito nel 2010  sotto processo per omicidio. Il New York Post riportò una registrazione della polizia mentre il boss dava ordini precisi ai suoi sodali: “Domani mi servono persone nella corte perché il tipo possa vederci. Voglio solo che mi possa vedere. Ricordati la scena de Il Padrino quando il tipo sta testimoniando contro Michael Corleone e il fratello entra dentro.” La risposta del compagno di crimine fu: “Oh sì, e il tipo allora lo lascia stare. Fallo, merda.” E Corbuccia concluse: “È il mio film preferito.”

Le pellicole hollywoodiane che raccontano di boss diventati padreterni hanno sicuramente ispirato un narcotrafficante della ‘ndrangheta di livello internazionale come Francesco Ventrici, uomo della cosca Mancuso di Limbadi, provincia di Vibo Valentia. Ventrici lavorava a Bologna per loro. Ufficialmente era un imprenditore dell’autotrasporto, le ditte che facevano capo a lui hanno lavorato per anni con commesse affidate da importanti nomi della grande distribuzione. In realtà, sugli stessi camion viaggiava la cocaina che dal Sud America raggiungeva il porto di Gioia Tauro o porti più piccoli del Vibonese. Ventrici affiancava alle doti imprenditoriali un linguaggio da gangster: “La guerra con noi in Calabria non la vince neanche il Papa,” così ha minacciato due manager che volevano privarlo del monopolio del trasporto su gomma. Anche Ventrici ha voluto una villa da sogno nelle vicinanze di Bologna, come i protagonisti dei film di mafia. Se fosse stato costretto a investire in Calabria, nella sua Vibo, probabilmente avrebbe ordinato di costruire un’anonima palazzina, e l’avrebbe lasciata incompleta. Ma in Emilia no: è una terra ricca, le ville ci sono già e una in più non desta particolare clamore.

Alfonso Perrone, detto “O Pazzo”, affiliato al clan dei casalesi, è il boss che ha fatto tremare gli imprenditori della provincia di Modena. La sua casa di Nonantola è una palazzina come tante. All’interno, però, è dotata di tutti i comfort, che per il camorrista diventano simboli del potere raggiunto: lampade a raggi Uva, trono dorato ricoperto di velluto rosso à la Scarface, mazze da baseball con cui intimidiva gli imprenditori. Il clan guidato da Perrone recuperava crediti per conto di altri imprenditori, che si affidavano alle convincenti mazze dei mafiosi per stringere i tempi dei pagamenti. “O Pazzo” è noto alle cronache anche perché utilizzava un lampeggiante blu che sistemava sul tettuccio dell’auto per intimidire le vittime. Scene da mafia movie che avvengono nel Sud come nel Nord Italia. E come nei film, per fortuna, alla fine questi guappi di camorra e manager della ‘ndrangheta vengono arrestati, processati e il più delle volte condannati. E se la prima fase della carriera di un boss è contraddistinta da accumulo esorbitante di denaro e potere fulmineo, il secondo atto è fatto di latitanza, privazioni, galera o morte. E non ci sono eccezioni. È toccato anche a Giulio Lampada e a Paolo Martino. Secondo gli investigatori sono personaggi quotati nella ‘ndrangheta lombarda. Agli occhi dei milanesi appaiono come due normali manager. Eppure la loro eleganza e il loro stile con cui sono riusciti a mimetizzarsi tra i gangli dell’economia meneghina non hanno dissuaso la Procura antimafia di Milano dall’arrestarli. Non gli hanno trovato armi e droga addosso o negli scantinati delle loro case, bensì innumerevoli conti, denaro e quote societarie. Boss con il pc portatile—come scrive Davide Milosa—che la pistola la lasciano volentieri a casa. Uomini di successo effimero e vanità infinita.