San Berillo, il quartiere degli emarginati nel centro di Catania

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A12N2: In due senza casco

San Berillo, il quartiere degli emarginati nel centro di Catania

Siamo stati nel quartiere di San Berillo, in centro a Catania, dove decenni di fallimenti delle politiche urbanistiche hanno aggravato la situazione del quartiere, tra prostituzione, occupazioni abusive e degrado.

Così entro a San Berillo: sono quattro vie eppure il quartiere sembra una giungla nel centro storico di Catania. Ad accogliermi trovo un cantiere: alcuni operai stanno cercando di mettere in sicurezza una palazzina di cui non vedo né il tetto né la facciata. "Qui è come un domino, se crolla un palazzo crolla tutto," mi dicono. Riesco a distinguere quello che doveva essere il pianterreno. Chi ci abitava ha lasciato i suoi segni. Adesivi di pin up, tre poster di Marilyn Monroe, un calendario di Padre Pio. Appartenevano a una delle prostitute transessuali che lavorano in queste catapecchie, quel che resta del vecchio quartiere a luci rosse di Catania.

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Gli operai mi dicono che i lavori, questi lavori, sono cominciati da poco più di un mese, ma non sanno quando finiranno. Uno di loro mi dice che "per il momento ci sono solo i soldi per altri tre mesi di cantiere." Fa un cenno verso il cielo, dove una volta doveva esserci il tetto del palazzo. I crolli degli edifici qui sono talmente frequenti che nessuno ci fa più caso.

Quando però c'è quasi scappato il morto, a novembre del 2015, il comune è stato costretto a intervenire e ad aprire un tavolo tecnico con la Protezione civile per dichiarare lo Stato di Emergenza. Le case vicine al crollo sono state sgomberate e l'intero quartiere è stato chiuso al traffico, anche pedonale. Poi, mentre ancora un mese dopo al Comune parlavano di "verifiche tecniche sugli immobili", "messa in sicurezza dell'area" e si dava la colpa del disastro alle piogge copiose, le transenne cementate al suolo sono state sradicate e gli abitanti del quartiere—prostitute, senzatetto e migranti soprattutto—sono tornati nelle loro case. D'altronde qui è così da sessant'anni.

È stato un tentativo di risanamento lasciato a metà a dare al quartiere la facies dello sventramento che conosciamo oggi. San Berillo è infatti un quartiere storico del centro, ma è anche e soprattutto il fallimento di una politica urbanistica il cui unico risultato è stato il perdurare e l'aggravarsi dell'emarginazione, di crolli, sfratti e nuove occupazioni.

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Eppure era uno dei quartieri popolari più grandi nel centro storico di una città italiana. Sorto nella seconda metà dell'Ottocento per l'arrivo disordinato di manovalanze del porto, operai della stazione e zolfatari delle fabbriche circostanti, tra le due guerre si è ampliato fino a ospitare botteghe di ogni tipo, teatri, e case d'appuntamento—tutto senza una regolamentazione urbanistica. Per questo l'odore tipico del quartiere è a lungo stato quello delle fogne a cielo aperto. E per questo San Berillo è diventato presto un problema per Catania.

Situato nel pieno centro storico di Catania, San Berillo ospita molte prostitute, migranti e occupanti abusivi.

Negli anni Cinquanta la giunta comunale lanciò un piano urbanistico per traghettare la città nella modernità dotandola di un'arteria unica, formata da Corso Sicilia e Corso Martiri della Libertà, che dalla stazione portasse in centro. Questo programma prevedeva, di fatto, l'abbattimento pressoché totale del quartiere. La decisione non venne però solo dall'alto: nell'estate del 1949 il quotidiano La Sicilia indisse un referendum per chiedere ai cittadini quale opera pubblica volessero vedere realizzata con i fondi regionali. Vinse la "strada dalla stazione centrale a piazza Stesicoro": l'imminente sventramento di San Berillo ebbe così anche una legittimazione popolare.

Fu chiaro fin da subito che questo risanamento non avrebbe creato alcuna connessione tra il tessuto urbano precedente e quello futuro. I 30.000 "deportati di San Berillo" vennero trasferiti nella periferia ovest, nel quartiere residenziale appositamente in costruzione—San Leone, che i suoi abitanti chiamano ancora "San Berillo Nuovo". Chi restò allora ebbe sulla carta la possibilità di esercitare, attraverso una Cooperativa o un Consorzio (i prodromi del successivo Comitato Pro San Berillo), il diritto di prelazione per l'acquisto dei lotti—anche se, nella realtà dei fatti, i lotti erano troppo grandi e quindi troppo costosi perché gli abitanti potessero pensare di acquisirli. L'operazione, comunque, venne appaltata all'ISTICA, l'Istituto Immobiliare Catania, una società privata dietro cui si muovevano la Democrazia Cristiana, i piccoli poteri economici locali, il Banco di Sicilia e la Società Generale Immobiliare del Vaticano.

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Mossa da tali potentati e appoggiata dalla stampa, che la considerava una bonifica "necessaria e urgente", iniziò quella che presto sarebbe stata rinominata "la più grande operazione speculativo-finanziaria mai realizzata a Catania." Tanto che Giuseppe Mignemi, uno degli ingegneri a capo della commissione di collaudo comunale, poco dopo denunciò la procura della Repubblica e il sindaco Luigi Ferlita per peculato e distrazione di due miliardi di lire a favore dell'ISTICA. Gli imputati, condannati in primo grado a quattro e cinque anni di carcere, saranno poi assolti in appello. I lavori, iniziati nel 1957, s'interruppero dieci anni dopo nel mezzo di scandali e contenziosi tra Comune e ISTICA.

Da allora, poco o niente è successo. Del vecchio San Berillo sono rimaste quattro vie, qualche palazzina sventrata, le prostitute, i trans e i migranti. Il quartiere è oggi un corpo estraneo alla città, eppure a questa legato indissolubilmente. I suoi confini così ben definiti, le case diroccate, le strade strette e l'odore di piscio lo separano dal resto del centro, ma la pietra lavica e i colori scuri di quelle macerie fanno da tramite con la città circostante.

Una delle quattro voragini rimaste dopo il tentativo di "bonifica" di San Berillo, mai portato a termine.

Restano di certo le cicatrici di quello sventramento: quattro enormi voragini profonde 30 metri e larghe più di 100 proprio nel centro della città, tra i palazzi degli anni Sessanta, le banche e i negozi. Sotto gli occhi dei catanesi ormai assuefatti. "Il catanese medio purtroppo con San Berillo, tranne che per andare a puttane, ci si rapporta poco—ne conosce il perimetro esterno," mi dice la sera stessa un ragazzo di Catania. Oggi questi buchi sono discariche a cielo aperto nascoste goffamente da un muro di cemento armato alto poco più di due metri.

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Sul fondo di uno di questi enormi crateri si raccolgono mucchi di rifiuti: i residui, probabilmente, di uno dei precedenti sgomberi. Sul lato della sottile striscia di terra che le circonda ci sono quattro piccole baracche costruite con lamiere—non riesco a capire se sono abitate. Fuori da una delle case sono minuziosamente allineate scarpe di varie misure, ma sembra non esserci nessuno. L'unico segno di vita sono gli escrementi umani deposti vicino a una latrina a cielo aperto. Una signora si sporge da uno dei balconi del palazzo che si affaccia sulla voragine, mi guarda e scuote la testa.

A cinquant'anni dallo sventramento fallito ancora manca un piano di bonifica, e continua a crescere il divario tra i nuovi palazzoni sorti lungo Corso Sicilia e la geografia molto più remota delle stradine. Anche del piano di risanamento presentato nel 2012 dall'architetto e "pioniere della sostenibilità" Mario Cucinella— spazi verdi, culturali e commerciali—non si è più avuta notizia.

"Franchina" è il nome con cui tutti nel quartiere conoscono Francesco Grasso, 60 anni, una delle centinaia di prostitute transessuali che negli anni Ottanta si sono trasferite a San Berillo per lavorare nei piani bassi delle case diroccate e abbandonate dagli occupanti, nonché una memoria storica degli ultimi trent'anni del quartiere. La prostituzione è da sempre legata al quartiere— "Fino agli anni Cinquanta San Berillo era un posto come tutti gli altri, forse più malfamato perché c'erano la prostituzione e il contrabbando di sigarette," ci ha raccontato un ex residente del quartiere trapiantato a San Leone quando aveva dieci anni—che ha ospitato prima le case chiuse di era fascista e poi, quando la legge Merlin le ha bandite, la prostituzione in casa e di strada.

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"La prostituzione non è stata debellata, tante sono rimaste qua esercitando il mestiere che conoscevano senza la protezione dello stato," racconta Franchina. "Siamo state noi a tenere in piedi il quartiere in tutti questi anni, nel bene e nel male," continua, seduta sul letto della casa dove lavora.

Francesco Grasso, che tutti chiamano "Franchina", accanto alla croce dipinta all'ingresso di casa sua. Anni fa Franchina ha fondato un gruppo di preghiera nel quartiere.

La realtà è che non avendo la capacità di bonificare il quartiere da un punto di vista "urbanistico", dopo i tentativi degli anni Cinquanta le autorità hanno deciso di concentrarsi sulla bonifica dei residenti. "Negli anni Ottanta i poliziotti passavano almeno una volta a settimana, e ci dicevano di chiudere," ricorda Franchina. "Noi ce ne andavamo e dopo una mezz'oretta tornavamo, anche perché guadagnavamo molto: era quasi una gara tra le ragazze a chi faceva guadagnare di più al suo protettore."

Uno degli ultimi atti della guerra alla prostituzione, e alla miseria, di San Berillo si è consumato nel 2000, a opera dell'allora sindaco Umberto Scapagnini. Il suo intervento di riqualificazione è stato anche—pare fortuitamente—accompagnato da un'indagine della polizia volta a sgominare l'organizzazione criminale che gestiva lo sfruttamento delle prostitute provenienti dalla Colombia e dalla Repubblica Dominicana nella zona. "Entrarono nelle case sfondando tutte le porte," racconta di quella notte Franchina. "Poi arrivarono con i pullman e caricarono le ragazze, espellendo le molte straniere con un foglio di via." In seguito al blitz parecchie case sono state murate e la maggior parte delle prostitute si sono spostate in altre zone.

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La retata del 2000 ha ridotto notevolmente la prostituzione nel quartiere, ma in assenza di una prospettiva seria di riqualificazione—che continua a incombere parimenti come una minaccia e un'illusione sul quartiere—le case rimaste hanno trovato nuovi occupanti abusivi. Di prostitute, tra le "storiche" e le nuove, ne sono rimaste poco più di una cinquantina. "La maggior parte sono inquiline abusive," racconta Franchina, tra le poche a essersi comprata una casa nel quartiere, negli anni Novanta, per 30 milioni di lire. "Cosa manca? I clienti," dice con un tono scherzoso che non riesce a nascondere la preoccupazione per il futuro.

Le prostitute non sono le uniche rimaste a San Berillo: nel quartiere ci vivono soprattutto migranti senegalesi e i loro figli—molti sono qui da tre generazioni. Sono tra i pochi che hanno accettato di affittare le case diroccate. Queste due comunità più coese si amalgamano con chi non ha trovato alloggio altrove, senzatetto, chi non ha uno stipendio fisso.

Incontriamo G., un operaio rumeno di 48 anni che da quattro vive qui. Ci fa entrare in quello che chiama il suo "magazzino", un enorme garage dove tra pennelli da muratore, attrezzi e montagne di vestiti due tende nascondono un materasso appoggiato per terra. "Prima di me, qui stavano dei senegalesi in affitto, ma poi è arrivata un'agenzia immobiliare che si è comprata molte case in questa via e li ha cacciati. Ma che io sappia le case non le hanno ancora vendute," racconta. E quindi, in attesa che qualcuno le compri, ci vive lui.

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Qualche strada più in là incontriamo Ornella, che si prostituisce a San Berillo da poco più di un anno; m'invita a entrare in casa sua. Ha i capelli ricci e degli occhiali con una montatura spessa e rosa. Passiamo attraverso un piccolo androne e saliamo le scale di cemento armato. La parete che le costeggia è crollata, e una tenda divide l'edificio da quello accanto. Attraverso la tenda s'intravede la luce di un piccolo televisore. Sono in due a lavorare in questa casa: una fa il turno di giorno, l'altra il turno di notte. "Qui rigenerano, rifanno i palazzi, però le puttane vivono in case diroccate," dice Ornella seduta su un materasso appoggiato a terra, accanto al quale ha messo degli specchi per coprire i buchi nell'intonaco. "Potrebbero darne una delle nuove a noi." Come opera di bene, s'intende.

All'una e mezza la maggior parte della comunità senegalese si riunisce in un piazzale all'ingresso del quartiere, dove una famiglia ha aperto un piccolo ristorante. C'è un barbiere che ha allestito il suo negozio in piazza, i bambini giocano a pallone mentre i vecchi se ne stanno seduti su sedioline all'ombra a far passare il tempo. "Questo quartiere ha sempre accolto tutti gli esclusi, i derisi, gli emarginati," racconta Franchina. Le chiedo come sarebbe stato San Berillo senza le prostitute. "Diverso sicuramente," mi risponde. "Peggio?" le chiedo. "Mah, peggio accussì," dice, allargando le braccia.

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"Ci sono interessi economici fortissimi che ruotano attorno al risanamento di San Berillo," racconta Roberto Ferlito, che nel 2004 con la moglie e i due figli si è trasferito qui e nel 2013 ha fondato il Comitato Cittadini Attivi di quartiere, che si propone di offrire un futuro diverso ai suoi abitanti. "Al momento le società non sono ancora riuscite a vendere le proprietà, ma è chiaro che la loro intenzione sia di comprare, demolire tutto e costruirci sopra." Come mi ha detto G., negli ultimi 15 anni molte società immobiliari hanno acquistato le case del quartiere, perché sanno che quando qui verrà tutto raso al suolo il valore dei terreni sarà altissimo. Su chi in effetti sia interessato a comprare le case, e chi tra i privati abbia investito sul risanamento, circolano voci discordanti.

Ad oggi del Comitato fanno parte quasi 100 persone, tra membri e sostenitori. Mediano tra i diversi gruppi di abitanti. Hanno aperto uno sportello legale e uno sanitario, e organizzano incontri con studenti a cui raccontano la storia del quartiere. "Noi speriamo di formare i giovani che andranno a far parte della nuova classe dirigente, vogliamo comunicare loro che anche posti come questo hanno un valore," racconta Roberto, che si autodefinisce un conservatore estremo.

Secondo lui, il degrado di San Berillo è anche il risultato delle politiche urbanistiche di diverse amministrazioni siciliane che negli anni non hanno saputo riconoscere il valore culturale di un quartiere come questo. E la sua opinione non sembra isolata, né tantomeno inverosimile: il problema dei fondi stanziati per la conservazione urbana e culturale in Sicilia è tristemente noto.

Il Comitato dei Cittadini Attivi, insieme ad altre associazioni, ha avviato un tentativo di recupero sociale e abitativo del quartiere—quello che in passato si è cercato di ottenere con le politiche calate dall'alto, forse potrà diventare realtà se la spinta verrà dal basso. Anche se lo stesso Roberto ammette che le associazioni da sole non possono ambire a rigenerare un quartiere così strutturalmente, e da così lungo tempo, in miseria. E chi potrebbe aiutare, portando capitali e riqualificazione, ha interessi del tutto divergenti da quelli dei residenti. Senza contare la presenza di almeno due distinti gruppi di abitanti, migranti e prostitute, che da oltre 35 anni convivono nel quartiere e lo ritengono casa loro.

L'interno completamente diroccato, ma non per questo disabitato, di una casa di San Berillo.

"Da una parte ci sono case che hanno 20 proprietari," spiega Andrea D'Urso, anch'egli parte del comitato. "Dall'altra sperando nella speculazione edilizia sono entrate in gioco le grandi famiglie imprenditoriali catanesi, che hanno ovviamente una visione tutta loro." Per non dimenticare la lunga tradizione delle promesse delle politiche urbanistiche.

Seppure— al momento in cui scrivo— non sia stato approvato né tantomeno avviato alcun piano di rifacimento tra i molti presentati, l'assessore all'urbanistica e al decoro di Catania Salvo di Salvo giura che tra cinque anni il progetto per la rigenerazione del quartiere sarà non solo avviato ma completato. "San Berillo sarà una bellissima area pedonale che conserva i tratti morfologici del quartiere, con case per studenti, parchi e botteghe artigianali."

Un futuro in cui per ora gli abitanti faticano a credere. Dipinta accanto all'ingresso di casa di Franchina c'è una grande croce bianca e azzurra: per dieci anni Franchina aveva adibito il pianterreno a luogo di preghiera, preferendo dopo qualche tempo affittare un'altra abitazione per lavorare—era capitato che durante una messa passasse qualcuno in motorino e chiedesse il costo di una prestazione, indifferente al momento di raccoglimento. Ora anche la piccola cappella è stata spostata qualche porta più giù, e ogni mercoledì Franchina e altre prostitute si riuniscono per pregare con le Suore di Madre Teresa di Calcutta.

Nella strada accanto a questo luogo di preghiera ci sono due transenne appoggiate—simbolicamente, parrebbe—con un po' di nastro segnaletico, a indicare che il tetto della casa adiacente è crollato. Mi sporgo e noto che è il retro dell'edificio dove lavora Franchina. Seduta tra le macerie, aspetta pazientemente il suo prossimo cliente. Mi vede, e con un sorriso scuote la testa.

Tutte le foto di Claudio Majorana. Segui Flaminia su Twitter.