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Le fasi della vita di una giovane italiana a Berlino

Trasferirsi a Berlino è diventato una moda—ma, come ogni moda, è tale perché alla radice ci sono delle ragioni molto sensate a livello pratico e molto convincenti a livello astratto.

L'autrice in una città tedesca che non è Berlino.

Quando VICE mi ha chiesto di scrivere un articolo sugli italiani a Berlino—perché si va, come si sta e perché si rimane o si ritorna—ero assai scettica. In primo luogo perché negli ultimi anni Berlino è diventata meta tanto ambita quanto inflazionata, almeno per quanto riguarda un certo tipo di immigrazione giovane e privilegiata. In secondo luogo perché, nonostante si siano normalizzati, certi fenomeni che rendono Berlino una città eccezionale sono ancora considerati una novità. In poche parole, trasferirsi a Berlino è diventato una moda—ma, come ogni moda, è tale perché alla radice ci sono delle ragioni molto sensate a livello pratico e molto convincenti a livello astratto.

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Pur essendo una persona molto emotiva, non prendo mai decisioni impulsive. Trasferirmi a Berlino è stata forse l'unica decisione "insensata" che io abbia mai preso—tanto più che tra il momento in cui presi questa decisione e quello in cui la misi in atto passò più di un anno e mezzo. Ero stata a Berlino nei primi Duemila, da ragazzina, con i genitori: mi ero fatta delle gran narrazioni, apprezzato la street art e comprato libri costosi di Gestalten. Nel 2010 i Magnetic Fields suonavano al Babylon e io avevo un credito regalo di laurea per la mia migliore amica. Così prenotiamo un weekend lungo a metà marzo. Non facciamo nulla di particolarmente non-turistico e dormiamo in un bed&breakfast di gestione cinese a Prenzlauerberg: non esattamente l'esperienza più autentica della città.

Eppure—e ricordo perfettamente quel momento—arriva la domenica mattina in cui facciamo colazione molto tardi in un cafè di una vietta alberata col marciapiedi a ciottolato e mi è chiarissimo che non posso vivere senza quella città. Ogni istante passato lontano da Berlino mi appare come perdita di preziosissimi istanti di vita. Quella domenica mattina ho avuto la netta sensazione che Berlino fosse un posto in cui avrei potuto vivere bene. In cui sarei stata felice.

La cosa bizzarra è che non è che la mia vita a Milano fosse infelice. Ero stata da poco assunta da VICE e avevo un ragazzo di cui ero molto innamorata. Se ci ripenso, ricordo che presi la decisione di lasciare Milano come un gioco ma di fatto mi attivai in modo molto concreto per realizzarla: misi a termine il mio impiego da VICE per riuscire a laurearmi in tempo ed intensificai le dolorose lezioni di tedesco che prendevo già da un po'.

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Da metà tedesca, vedevo il trasferimento come un'occasione per riallacciare i rapporti con una cultura che sentivo molto distante e, soprattutto, traumatizzata dagli annuali incontri familiari per il compleanno del nonno. Oggi, dopo quasi quattro anni da residente berlinese, capisco che il tedesco fu poco più che una scusa. Il motivo reale era un altro: Berlino è una città eccelsa e io volevo farne parte.

È per questo che parlare del mio trasferimento mi provoca sempre un po' di imbarazzo: perché a differenza di Londra—che è una città dove si parla la lingua più facile del mondo e che fa del flusso costante di stranieri, studenti e lavoratori, la sua principale e storica grandezza—Berlino è una delle città più povere della Germania, con una disoccupazione che nel 2011 sfiorava il 23 percento (ora siamo al 12 percento, ma i dati non rispecchiano la situazione reale), con un'offerta formativa che, seppur eccellente, non eguaglia quella britannica e un'industria terziaria che prima dello scoppio delle start-up era rivolta perlopiù al mercato nazionale.

Trasferirsi a Berlino mi sembrava dunque in molti casi più un capriccio romantico che una vera necessità, come quelli che sublimano le loro aspirazioni intellettuali con una mansarda a Parigi o i fricchettoni d'Erasmus che eleggono quella meraviglia di Barcellona a Capitale Internazionale dei Bonghi. Ma come è bello il fatto che Parigi o Barcellona sono molto di più degli stereotipi a cui ci piace ridurli, è anche bello che Berlino non ce l'ha uno stereotipo particolare, ma vive piuttosto di un conglomerato confuso di fenomeni più o meno rispecchianti la situazione reale.

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Die Besichtigung, ovvero il primo ostacolo

L'autrice mentre si ingozza sul balcone di casa

La cosa notissima di Berlino è il suo mercato immobiliare, che, checché vi dica chi si è trasferito nel 2000 o io, rimane uno degli aspetti più convenienti della città. È vero che negli ultimi anni i prezzi delle case si sono alzati vertiginosamente, ma è anche vero che rimangono spaventosamente bassi rispetto alla media delle capitali europee. Ma se è facile pagar poco, non è altrettanto facile accaparrarsi una stanza o un appartamento.

Nel primo anno ho cambiato cinque case, convivendo con amiche del cuore, antipatici lettori monacensi di Der Spiegel e due tedesche che praticavano la quaresima per gioco. Oltre al fatto che la città è un unico via vai di gente che arriva e che va senza la certezza di rimanere per più di due mesi (la maggior parte degli immigrati privilegiati arriva per provare, e senza un piano preciso), il cercante casa si deve sottoporre all'umiliante processo delle Besichtigung, aka visita della casa o della stanza in affitto.

Nel secondo caso il poveretto è costretto a candidarsi ad una media di venti annunci al giorno prima di essere invitato a palazzo in una WG (casa condivisa) dove verrà esaminato da un gruppo di forse futuri coinquilini. Il protocollo è standard: arrivi, sorridi, ti viene offerto del tè al rooibos che non puoi rifiutare, racconti perché sei lì e se ammetti che mangi carne devi perlomeno accettare la condizione del latte senza lattosio.

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Se è vero che la cultura tedesca è meno accogliente di quella italiana, è anche vero che a Berlino vige un atteggiamento parecchio—concedetemi il termine—socialista e durante quelle visite, che pure erano una tremenda prova di umanità falsata (come ci si promuove a uno sconosciuto?!), ho avuto anche dei momenti felici. Ricordo un appartamento meraviglioso affacciato su Tempelhof da condividere con un simpatico zozzone con cui avevo discusso appassionatamente di Rammbock occhieggiando il vicino-di-casa che faceva rigurgitare il figlio neonato sul mio ginocchio; mi sembrava il paradiso, salvo poi perdere l'occasione perché volevo comprare una lavatrice e lui no—ma del resto sporcello era e sporcello rimase. In un'altra occasione, dopo aver googlato il proprietario di un'altra casa e aver scoperto che era un modello, mi ero presentata truccata come una minorenne di Kurfürsterstraße. Finì che non presi né la stanza né lui, ma il coinquilino del modello diventò il mio ragazzo e il modello si rivelò essere un palazzinaro di anni 40, per cui, tutto sommato, meglio così.

Shisha, avocado e salmone

Le rotoballe a Tempelhof

Argomento spinoso che segue il discorso "trovar casa" è quello della gentrificazione. A Berlino, soprattutto nei quartieri un tempo periferici di Neukölln, Wedding, Moabit e Treptow, la si può vedere ad occhio nudo—nei quartieri più centrali di Prenzlauerberg e Kreuzberg il processo è già completato.

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Quando ho trovato un appartamento nella zona meno hip di Neukölln, l'affitto del mio bilocale era assolutamente alla portata della squattrinata studentessa quale ero, ma anche tre volte tanto quello delle mie vicine. Questa coppia di cubane, oltre ad avere un cane perennemente in calordde, vive in una casa con tre stanze più cucina e pagano tipo 130 euro perché dodici anni fa, quando ci si sono trasferite, la zona era poco più che una succursale di Istanbul nonché fastidiosamente vicina all'aeroporto di Tempelhof, oggi riconvertito a parco gigantesco senza alberi (e luogo del cuore di molti berlinesi, sottoscritta compresa).

A Neukölln la gentrificazione ha invaso la popolarissima Weserstraße che il sabato sera si trasforma in un parco giochi del primo mondo, con baretti tutti uguali—pareti scrostate, candele, Żubrówka, burger bar vegani e più americani sguaiati di quanti britannici in infradito abbiate mai incontrato sulle Ramblas. Ma se il cambiamento viene vissuto con spocchia dai vecchi residenti, porta anche i suoi lati positivi: spostandosi progressivamente verso ovest, tra i vialoni di Karl-Marx Straße e Hermannstraße, si estende una rete di viuzze civilissime tutte volte allo sfruttamento "consapevole" del territorio.

Un esempio di sfruttamento consapevole del territorio è quello messo in atto in egual modo dal mio proprietario di casa e dal piccolo mercato del sabato di Schillerkiez. Il primo è un orrido speculatore che mi abbandonò il giorno in cui le tubature del cesso scoppiarono riversando nella mia cucina le feci dell'intero palazzo*. Il secondo è invece un dimesso appuntamento gastronomico che ti fa godere di un quartiere storicamente emarginato senza per forza infilarsi in uno di quei diner scandinavi che ti propinano frittelle di quinoa con topping di avocado e salmone affumicato (che a dire la verità non mi fanno proprio schifo). Alla fine della giornata io do soldi a entrambi, e perciò mi sento sia vittima che fautrice di questo spinoso fenomeno.

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Se i giovani turchi se ne stanno nei loro shisha bar—che d'estate emanano un femminile olezzo di ciliegia—noi indossatori di trainer vintage non proviamo certo a forzare l'integrazione. Non sarà il massimo dell'integrità sociale, ma è anche vero la rilassatezza che si respira da queste parti, nonostante lo spaccio selvaggio lungo la linea della U8 e i capannelli di alcolizzati che si aggirano come zombie dietro ad ogni angolo**, mi ha regalato un'ampiezza di visione che difficilmente avrei potuto acquistare stando nella cerchia dei Navigli.

"Da dar via" ma questo anche no

Uno degli aspetti che apprezzo di più di Berlino è infatti il dominante anti-classismo. Già la cultura tedesca è molto più meritocratica di quella italiana e molto meno elitaria di quella britannica; in più Berlino mantiene, come già detto, un certo spirito socialista e, soprattutto, l'idea che la ricchezza e l'esclusività non siano valori positivi a priori. Berlino ha finalmente dato sfogo all'insofferenza che ho sempre provato nei confronti della mentalità milanese negativa, quella provinciale e abitudinaria nonostante le sue risorse, così aggrappata alle apparenze e ai lignaggi sociali da essere allergica a qualsiasi tipo di variazione.

Berlino, al contrario è la città con il più alto tasso di Nokia 1100 pro capite, dove se hai vestiti troppo pregiati diventi sospetto. Quella città dove funziona il concetto di "dar via", che non è una metafora sessuale ma un collaudato sistema di riciclo dei beni: a nessuno fa schifo prendere un divano usato, perché all'Ikea lo troveresti o più brutto o più caro. È una città che ti dà dei soldi quando ti ci trasferisci (pochi, probabilmente una strategia di popolamento risalente al post-Muro) e dove l'infrastruttura statale di corsi di integrazione, asili, sussidi, mezzi pubblici, RIMBORSI (in Germania ti rimborsano anche i lacci delle scarpe se riesci a convincerli che è stata colpa dello Stato) funziona per davvero. Scrivendolo in completa onestà, Berlino è soprattutto una città che non ti sfrutta come altri megalopoli europee, ma che anzi, se ti impegni con un po' di intelligenza e buon cuore, ti ripaga con moneta ben più preziosa di quella che tu le hai dato.

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*Storia vera: mi svegliai una mattina e, entrata in cucina, sentii un inusitato sciaf sciaf sotto i piedi nudi. Camminare in punta di piedi sulla merda degli altri è un'esperienza che sconsiglio anche al peggior nemico—in questo caso trattasi del grassissimo idrualico Buchholz, che vedendo la scena esclamò: "Anvedi come viene giù la Scheißeallee!"
**Emblematico il commento di un residente di Mitte che mi aiutò a fare il trasloco: "Minchia, The Wire."

Tutti in coda da LIDL

Al banco frigo "Itaglia"

Berlino non sarebbe però quella che è senza i suoi abitanti: Noi e gli Altri. Per un periodo chiamavano Neukölln "PIGS" perché c'era la più alta concentrazione di "rifugiati" della crisi dell'eurozona.

Gli italiani a Berlino sono la terza minoranza più popolosa, cioè 20.000 in una città di 3 milioni e mezzo. Prima di noi ci sono solo polacchi e turchi, quindi fossi in voi me la menerei anche un po', per questo terzo posto. Gli italiani di qui sono vari e per me conoscerne così tanti—più che in patria—è stato un po' come fare il militare durante il fascismo: mi sono fatta più italiana. Non esiste una maggioranza regionale e copre una varietà demografica simile a quella messa in luce dal buon Gian nel pezzo sugli italiani a Londra. C'è il cameriere impizzato (ed ex galeotto) della pizzeria napoletana verace come il ragazzino fiorentino venuto su a far solo festa, senza dimenticare la brianzola laureanda in filosofia teoretica, ora designer di successo per un duo di stilisti polacchi.

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Tutti godiamo di periodi più o meno fortunati, ma una cosa solitamente ci unisce: il cibo di merda. A parte il salmone e la birra, che arrivano prelibati a metà prezzo, e con l'esclusione del pane nero che qui fanno molto bene, il resto è uno scempio (anche se davvero a buon mercato). Il pellegrinaggio gastronomico a cui mi sottopongo per avere una dieta decente spesso non vale la candela: se il formaggio di capra non osceno ogni tanto arriva al discount, per trovare un olio che non sia il Bertolli devi andare per forza nei supermercati sciccosi. La mia amica Nicoletta, da barese doc, una volta si è fatta spedire 6 litri prodotti a mano dalla nonna, ma è finita che abbiamo quasi rovinato la nostra amicizia perché le avevo rubato una tanica. Il caffè me lo faccio mandare da mammà—lo ammetto con un certo orgoglio—mentre dal Lazio stiamo organizzando una spedizione all'ingrosso di pecorino romano.

La comunità internazionale potrà essere forse compatta per il cibo, ma non lo è altrettanto per quanto riguarda le ondata migratorie. Sono molti gli amici che ho perso, tra una marea e l'altra: Berlino è una città tanto accogliente all'inizio quanto difficile da sostenere dopo i fuochi d'artificio iniziali.

Hartz IV, o dell'integrazione

Una decorazione trovata in una vecchia casa.

In questo senso due cose mi hanno aiutato: avere un progetto lavorativo e continuare gli studi. Cominciamo dall'ultimo.

Le università berlinesi sono buone, e soprattutto, gratuite, anche per le specialistiche. Ciò che rende l'offerta formativa ancora più attraente è la vita culturale. Tra le qualità maggiori di Berlino che nomino sempre c'è questa: l'offerta culturale e d'intrattenimento è così vivace e accessibile che qualsiasi mostra a Parigi ti sembra una scoreggia datata e ogni warehouse londinese una furto per divertimento e portafogli. Lo studente qui gode di uno status impagabile, che ho imparato a invidiare non appena mi sono laureata. Una mia compagna di corso ha fatto finta di iscriversi a Egittologia solo per avere il rinnovo del tesserino per i mezzi pubblici, tanto costosi altrimenti che uno è costretto alla bicicletta anche nei mesi più infausti di gennaio e febbraio.

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Da ragazzina metropolitana non avevo mai provato tale emozione, ma è stato con i primi tepori della primavera che alla veneranda età di ventiquattro anni ho finalmente imparato ad andare in bicicletta. Vorrei dire che la uso con grande disinvoltura, ogniqualvolta devo recarmi in centro città per partecipare a una conferenza sull'antropoceneo sull'accelerazione del capitalismo. Sembra una battuta ma è vero: se si è una persona culturalmente curiosa, le possibilità di crescita intellettuale berlinesi sono infinite, e, soprattutto, gratuite.

Quanto alle possibilità di crescita economica, be', quella è un po' un'altra storia. La famigerata "Silicon Allee" è diventata il punto di partenza per centinaia di startup—Sound Cloud, Etsy e co. hanno qui le loro sedi principali—che sì offrono lavori di tutti i tipi, ma fomentano anche un sistema di mini-job precari e non necessariamente professionalizzanti. La ricerca è dura, soprattutto se il tuo tedesco vacilla e non sei madrelingua inglese. Infatti, e qui ci cade un altro elemento bizzarro di Berlino, non è indispensabile conoscere la lingua per vivere e lavorare in questa città… anche se le occasioni di integrazione si riducono parecchio. E non tanto per poter godere delle gioie della televisione tedesca—che da generazioni appassiona il pubblico autoctono con Tatort, una specie di CSI anni Settanta che ogni domenica sera attira spettatori di ogni tipo, al di là delle qualità della serie—quanto per beneficiare al 100 percento del mercato del lavoro.

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Da neoassunta in una compagnia di rating d'arte contemporanea, noto con sbigottimento la serietà con cui lavorano—una serietà che da una parte rasenta la sfiga e l'eccesso di zelo e dall'altra rende ben chiaro perché la Germania è una tale macchina da guerra: la professionalità e la precisione non vengono trattate come un vezzo, ma come uno strumento indispensabile per il raggiungimento della felicità. Che poi il mio impiego sia temporaneo, la dice lunga su questa felicità; io nel mio piccolo sono però contenta, perché il presente mi dà l'illusione che il mio futuro sia infinito, e nel frattempo posso sempre fare domanda per il sussidio o l'Hartz IV.

I long john con le birkenstock e la vita sociale

Non è vero, il sussidio non è così facile da ottenere: scherzando, mi piace dire che premia soprattutto i ragazzi padri. Un giovane padre—anni 29, figlia di 12—è stato il primo berlinese che mi ha spezzato il cuore. Come nei peggiori cliché da manuale, era un berlinese vero della DDR (quota indigeni incontrati ad oggi: cinque), faceva parte di una gang di graffitari storici e rubava nei supermercati. All'inizio scettica, quando mi ha regalato una scamorza rubata dal formaggiaio biologico, sono poi fritta in un brodo di giuggiole.

E dire che mi credevo impermeabile al tipo, dopo fughe in camporella nella fattoria di Görlitzer Park con un educatore biondissimo e un anno trascorso come fidanzata di un batterista jazz che d'estate faceva il muratore per pagarsi l'incisione del vinile. Pensavo di averle viste tutte, insomma, i long john arrapantissimi e le birkenstock indossate senza ironia. Invece l'homo faber tedesco mi conquistò nuovamente, trapano alla mano e senso dell'umorismo sotto le scarpe, ma con tutto un senso nuovo di trattare le donne (poca galanteria e molta onestà, agli antipodi del maschio italiano). Infatti, le donne. Quelle tedesche non saprei dirvi come sono, ma certo è che non gettano nello sconforto come gli uomini locali, che prima di baciarti ti chiedono il permesso e prima di andarci a letto fanno passare un paio di guerre mondiali.

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La vita sociale è infinita: non solo i bar non chiudono finché l'ultimo avventore se ne va (cioè, mai), ma si può fumare dentro. Tutti hanno avuto il loro periodo più o meno psichedelico, e come gli spacciatori migliori (tutti pugliesi) insegnano, quello è un business che va sempre a gonfie vele. C'è stato sì, un buio (quanto divertente) inverno, in cui tra amici si assumevano pomodorini russi sott'olio e vodka-mate per tirare le luci dell'alba, unico momento in cui sembrava fosse davvero sensato andare a ballare.

Ma per il resto, allo "sballo" vero e proprio ho sempre preferito il temporeggiare in tremende kneipen aperte 24/7. Alcuni non la pensano così e un paio di volte mi sono fatta trascinare la domenica mattina, alito fresco di caffè e dentifricio, dentro i tuguri di qualche festicciola etero friendly ma non ho resistito molto. Forse è per questo che preferisco l'altro evento sociale tipico, che sta a Berlino un po' come a Milano l'aperitivo: l'opening. L'inaugurazione della galleria d'arte è raramente occasione per apprezzare le opere in mostra, ma grande opportunità per mischiarsi alla fauna locale e farsi schifare dalla gioventù all'avanguardia dell'UdK.

Non mi dilungo sulle mode locali, dato che ne avevo lungamente blaterato qui e avevo già cantato le gesta dello storico brand Carlo Colucci qui.

Carbonara und eine Coca Cola

"L'istruzione della lira e gelati Motta con brio": un video cruciale per capire le relazioni italo-tedesche

Cosa rimane di tutto questo? Cercare di condensare la vita a Berlino in un articolo—che pure è luuunghissimo, chiedo scusa—è un'azione frustrante e impossibile.

Senz'altro avrò mancato di rispetto a qualcuno: a me, a chi ci vive da sempre, a chi ci vive da mai. Dopo un anno o giù di lì vivere a Berlino smette di essere una novità e diventa semplicemente il posto in cui vivi. Eppure, e credo che sia un sentimento diffuso, uno non smette mai di pensare alla città di Berlino. Quasi come se vivere a Berlino fosse una condizione esistenziale, con tutti i suoi pro e i suoi contro: non ce ne si dimentica mai.

Protagonista silenziosa di questa condizione è l'Italia. Il fatto è che nessuno ha smesso di sentirsi italiano. Anzi. Ovviamente appena lasciata la patria uno si sente doppiamente legato. Ma poi, in un modo forse un po' ipocrita, forse un po' sincero, si dimenticano le vessazioni subite finché non ci si rimette piede.

Allora appena atterrati ricominciano gli sbuffi e le lamentele, fanno arrabbiare le cose che non funzionano e ferisce vedere la sciatteria con cui si tratta il proprio paese. Ma uno impara anche a guardare le cose con un occhio diverso, più flessibile. Il gorgonzola che tua madre tira fuori dal frigo "così è della temperatura giusta" cessa di essere un miraggio ma sai anche che se lo mangiassi tutti i giorni smetterebbe di piacerti così tanto. Credo che il concetto di "casa" diventi più a misura d'uomo, quando non è "per sempre". È un privilegio raro; permette un'identità flessibile e l'illusione di essere più di uno. Basti una citazione di Gino Paoli, per concludere questo post in melassa e descrivere il mio stato d'animo ogni volta che riprendo il mio aereo per Berlin Schönefeld: "ora è già tardi, ma è presto se te ne vai."

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