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A9N3: Il sottobosco ucraino è roba dura

L'ultima dei Lykov

Dal 1936, Agafia vive nel completo isolamento della taiga siberiana. Siamo andati a trovarla per aggiornare il mondo sulla sua vita.

Foto di Peter Sutherland

Ci sono dilemmi morali contro cui antropologi ed etnologi combattono da tempo immemore, nel tentativo di documentare persone che vivono separate dalla civiltà o nascoste negli ultimi angoli inesplorati del pianeta. Ma questi problemi diventano irrilevanti dato che il mondo, invasivo e infestante com’è, trova sempre il modo di scovarle. I Lykov—una famiglia russa che ha vissuto nelle lande siberiane senza contatti umani per la maggior parte del Ventesimo secolo—non sono una tribù sconosciuta, come le poche rimaste ancora nascoste agli occhi del mondo moderno in Sud America. Non si sono nemmeno opposti violentemente a ogni contatto con l’esterno, come continuano a fare i sentinelesi delle Isole Andamane. Quando chiedo alla settantenne Agafia, unica superstite del clan Lykov, se abbia mai desiderato non essere stata scoperta dal gruppo di geologi che nel 1978 trovò la sua famiglia, nel completo isolamento della taiga siberiana, scuote la testa. “Non so se saremmo riusciti a sopravvivere [senza di loro],” dice. “Eravamo a corto di cibo e attrezzature. Non avevo più neanche una sciarpa.” Per una volta, l’intransigente curiosità umana che cerca di svelare ogni segreto del pianeta è riuscita a salvare, e non a distruggere, una realtà così unica.

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Tutto è cominciato nel 1936, quando Karp Lykov e sua moglie Akulina decisero di allontanarsi dalla società. Stufi dei comunisti e, in generale, della vita in città, si avventurarono con i loro due figli nel profondo della taiga. Il motivo che li aveva spinti a compiere questo viaggio era stato l’omicidio del fratello di Karp per mano di una pattuglia di bolscevichi appena fuori dal loro piccolo villaggio alla periferia di Kursk, nella Russia occidentale. I Lykov erano pacifisti convinti, in quanto membri dei Vecchi Credenti, una setta cristiana ultra-ortodossa staccatasi dalla Chiesa russa nel Diciasettesimo secolo. Dopo aver scelto un terreno, i Lykov vi costruirono una capanna e misero al mondo altri due figli, vivendo una vita al cui confronto La casa nella prateria sembra uno spring break a Daytona. Dipendevano da un telaio, che avevano trascinato per centinaia di chilometri e con cui tessevano i vestiti, e sopravvivevano mangiando patate e funghi selvatici. Nel 1961, dopo quasi trent’anni passati nei boschi, una tempesta di neve distrusse il loro raccolto. Si salvarono mangiando la corteccia degli alberi e le proprie scarpe; Akulina preferì morire di fame piuttosto che lasciare a digiuno i figli. Dopo la morte di Akulina, la famiglia continuò a vivere una vita isolata fino al 1978, quando un gruppo di geologi (che stavano sondando l’area in cerca di petrolio) si imbatté nel loro insediamento. Negli anni successivi, in tutta la Russia cominciarono a girare voci su una strana famiglia che viveva nel mezzo del nulla, e così i Lykov divennero degli improbabili eroi popolari. L’attenzione fu dovuta in gran parte a Vasilij Peskov, giornalista russo che sulla famiglia scrisse numerosi articoli e un libro, Eremiti nella taiga, bestseller in Russia ma introvabile altrove. (È fuori catalogo praticamente ovunque, e una copia usata su Amazon arriva a costare 900 dollari.) Uno alla volta, tutti i membri della famiglia morirono. Alcuni sostengono che i geologi avessero esposto i Lykov ad agenti patogeni sconosciuti al loro sistema immunitario, causandone la morte; altri pensano siano state morti naturali. Qualunque sia stata la causa, Karp è morto nel 1988, sopravvivendo a tutti i suoi figli ad eccezione dell’ultimogenita. Agafia lo ha seppellito sul pendio della montagna grazie all’aiuto di alcuni amici geologi. Per poco la mia troupe e io, nel mezzo dei preparativi per il viaggio alla ricerca dell’ultima Lykov, non abbiamo annullato il servizio, in seguito alla pubblicazione, sulla rivista della Smithsonian Institution di gennaio, di un articolo d’archivio che si concludeva con la decisione dell’allora quarantacinquenne Agafia di continuare a vivere da sola nei boschi siberiani, anche dopo la morte di suo padre. Ma la storia risaliva a 25 anni fa, e ormai l’autore non aveva più né i mezzi né la forza fisica per viaggiare nella taiga e vedere come se la passava Agafia a 70 anni. Così siamo andati noi. A febbraio siamo andati in Siberia per cercare Agafia e aggiornare il mondo sulla sua vita. Per poterla rintracciare, a 250 chilometri di distanza dalla civiltà, bisogna passare oltre gli infiniti controlli del governo di Putin— bisogna anche superare diverse guardie forestali che reclamano la giurisdizione sulla taiga. Mi è stato detto che in estate si può raggiungere il luogo in cui abita con una discesa in canoa di sette giorni. In inverno, invece, l’unico modo per arrivarci è a bordo di un elicottero. Considerando le asperità che deve affrontare nella vita di tutti i giorni, mi è sembrato giusto andarla a trovare nel periodo più arduo dell’anno.

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Quando siamo arrivati, Agafia ci stava aspettando fuori dalla sua capanna come una nonna che aspetta impaziente la visita dei nipotini. La riserva naturale dove vive è stata chiamata Territorio Lykov in onore della sua famiglia, e la sua capanna si trova in cima a una punta rocciosa, dove scorre il guizzante fiume Erinat. Per essere una donna di settant'anni che una volta ha dovuto mangiarsi una scarpa per non morire, sono rimasto sorpreso da quanto sembrasse in buona salute. La sua proprietà include diverse capanne e costruzioni più piccole per capre, polli, provviste e dispense di cibo, oltre ad un giardino sulla collina scoscesa dietro all’abitazione principale. (Durante la nostra visita il giardino era ricoperto di neve, come sempre durante l’inverno siberiano.) Nel corso degli anni, con l’aiuto di amici e curiosi di passaggio, è riuscita a costruire tutto questo, partendo dalla baracca a una sola stanza dove un tempo viveva con tutta la famiglia. Decine di gatti vagano liberamente per la proprietà. Dopo averle consegnato in regalo una capra e un pollo, intervisto Agafia a un piccolo tavolo vicino alla riva del fiume. Le chiedo cosa sia successo da quando vent'anni fa è morto suo padre. “Quando è morto,” dice, “Non avevo più nessuno ad aiutarmi o su cui fare affidamento. Ho tagliato la legna da ardere da sola.” Come molti anziani che vivono nelle campagne russe, Agafia riceve un sussidio dal governo, ma è perlopiù auto-sufficiente—cucina, pesca e si prende cura degli animali da sola. Mi racconta che le difficoltà della vita quotidiana nella taiga sono aumentate insieme agli anni. “Non è facile fare il fieno e badare alle capre,” dice Agafia, e aggiunge che adesso possiede un fucile per difendersi dalla fauna locale. “La scorsa estate, un orso ha distrutto tutto ciò che c’era qui intorno, io mi sono nascosta nella capanna. Ha afferrato uno dei sacchi di farina e ha calpestato l’orto di carote. Ho scavato una buca, e l’orso ci è rimasto intrappolato.” Agafia, tuttavia, non è completamente sola. Ha un vicino di nome Yerofei Sedoj. Inizialmente era venuto qui per lavorare come cercatore di petrolio e viveva a circa 15 chilometri dal terreno di Agafia, insieme agli altri geologi della sua impresa; ma in seguito venne licenziato per ragioni poco chiare, che non ha voluto commentare. Così tornò in città, dove finì col perdere una gamba incancrenita. Quando un dottore gli disse che ritornare alle acque limpide della taiga avrebbe giovato alla sua salute, decise di aprire un negozio ai piedi della collina di Agafia, sulle sponde del fiume, e sono ormai 16 anni che vive qui. Yerofei mi dice che è tornato nella taiga principalmente perché voleva aiutare Agafia, che aveva vissuto da sola per anni. Guardando la sua gamba monca, la sua motivazione non sembra molto realistica. Agafia racconta una storia diversa. “All’inizio mi dava una mano con le capre. Tagliava la legna. Ora non fa più nessuna di queste cose. Sono due inverni che aiuto Yerofei a procurarsi il legname. Come può aiutarmi? Sono io che l’ho aiutato in questi 16 anni. Pianto le patate per lui. Gli porto la legna da ardere. Sono 16 anni che dipende completamente da me. Yerofei è inutile. Nessuno ha bisogno di lui. Non aiuta, dev’essere aiutato.” Un giorno, mentre intervisto Agafia, salta fuori un altro aspetto quantomeno criptico del suo rapporto con Yerofei. “Ci sono stati due brutti incidenti,” dice. “Chissà cosa gli passava per la testa… Ha commesso un peccato dopo l’altro. Mi stava minacciando.” Dopo qualche mia insistenza, Agafia ha rifiutato di approfondire l’argomento. Anche Yerofei ha preferito evitare di rispondere a queste osservazioni. È difficile stabilire se i commenti di Agafia, imperscrutabili ma sinistri, si riferissero a qualcosa di drammaticamente serio o fossero solo il prodotto dei battibecchi di due anziani ammattiti dalla solitudine. Qualsiasi cosa sia successa, Agafia e Yerofei si trovano qualche volta in casa dell’ultimo per ascoltare la radio, che rappresenta il loro unico contatto con il mondo esterno. “Nei notiziari sento parlare di crimini ed esplosioni,”dice Agafia. “È spaventoso. Che problema hanno quelle persone che si fanno saltare per aria nei luoghi pubblici?” Sebbene abbia pochi beni materiali, Agafia possiede una forte fede. Come i suoi parenti stretti e lo zio morto da tempo—quello ucciso dai comunisti nel 1936—Agafia è una Vecchia Credente. Ha imparato a leggere studiando la Bibbia e ancora oggi si sveglia presto tutte le mattine per pregare. Di tanto in tanto legge il giornale dei Vecchi Credenti, quando le viene portato da qualche visitatore. Una delle nozioni più singolari che ha appreso leggendo questo giornale è che i codici a barre sono un simbolo del demonio. “È il marchio dell’Anticristo,” dice. “Quando qualcuno mi porta un sacco di semi con il codice a barre impresso sopra, estraggo il contenuto e brucio subito il sacchetto. Solo allora posso piantare le sementi senza timori. Il marchio dell’Anticristo è un segno della fine del mondo,” racconta. “Dio non salverà tutti quanti.” L’unica cosa che Agafia odia quanto i codici a barre, sono le città—delle quali, sorprendentemente, ha una buona conoscenza. Nei primi anni Ottanta, quando gli articoli di Vasilij Peskov avevano trasformato la famiglia Lykov in un fenomeno nazionale, Agafia fu invitata dal governo sovietico a compiere un giro del Paese per la prima volta nella sua vita. Nonostante la reticenza del padre (che morì poco dopo il suo ritorno), accettò l’invito e per un mese girò la nazione a bordo di elicotteri, treni, aerei e automobili. Poté vedere cose insolite come mucche, cavalli, negozi, città e banconote, per poi ritornare dal padre, chiedendosi come poteva spiegargli il disastro di Chernobyl. Da allora, nonostante le pressioni delle autorità russe perché si trasferisca in una città o in un villaggio, Agafia ha lasciato casa sua solo altre cinque volte—principalmente per far visita a parenti che non aveva mai incontrato e per ricevere cure mediche. Ci ha raccontato che bere qualsiasi cosa al di fuori dell’acqua del suo amato Erinat la fa ammalare, così come l’aria di città. “Fa paura, lì fuori,”dice.“Non riesci a respirare. Ci sono auto ovunque. Non c’è aria pulita. Ogni macchina che passa libera tossine nell’aria. Non ci sono alternative, se non di rimanere in casa.”

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Prossimamente su VICE.com il nostro documentario dedicato ai Lykov.

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