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Macro

Ok, c'è stato il referendum, ma adesso cosa succede in Grecia?

Nonostante le intense drammatizzazioni sui suoi esiti e significati, la verità è che il referendum greco non ha cambiato le carte in tavola. Ecco un po' di cose da sapere per capire cosa succederà.

Una manifestazione per il "no" ad Atene, pochi giorni prima del Referendum. Foto di

Panagiotis Maidis

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Nonostante le intense drammatizzazioni sui suoi esiti e significati, la verità è che il referendum greco non ha cambiato le carte in tavola. Sì, è vero, l'odiato Varoufakis si è dimesso—un messaggio di distensione di Tsipras verso i negoziatori europei—e il governo di Atene può rivolgersi a Bruxelles dicendo di avere con sé la stragrande maggioranza dei greci. Ma le due metriche fondamentali di tutta questa faccenda rimangono invariate: il governo greco è ancora senza cash, e gli europei sono ancora molto restii a fornire fondi.

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La vacanza forzata delle banche greche e della borsa di Atene è stata prolungata almeno fino a giovedì––ma, giunti a quel punto, arrivare di nuovo al weekend sarà un attimo e c'è da attendersi che accadrà proprio così. I mercati finanziari hanno reagito alla notizia del NO con una seduta molto negativa nella giornata di lunedì e risultati non particolarmente positivi nella giornata di martedì 7 luglio mentre il valore dell'Euro è rimato sostanzialmente stabile. Oggi l'Eurogruppo, la riunione informale dei Ministri della Finanza dell'area Euro, si incontrerà per continuare a discutere i possibili piani di salvataggio. Insomma, Tsipras ha una mano più forte ma il tempo continua a passare e lo scetticismo verso la permanenza della Grecia nell'Euro si fa sempre più forte. Ecco un po' di cose da sapere per capire cosa succederà.

Alexis Tsipras in piazza Syntagma ad Atene dopo la vittoria del "no" al referendum. Foto di Panagiotis Maidis

1. Alexis Tsipras ha un piano

In Europa aspettano al varco il primo ministro greco, che ieri, con la benedizione del presidente della Repubblica ellenica Pavlopoulos, è riuscito a mettere insieme i cinque principali partiti greci (SYRIZA, Nea Democracia, To Potami, Pasok e il partner di governo Anel), esclusa l'estrema destra di Alba Dorata e i comunisti del KKE, per una dichiarazione comune rivolta ai partner europei.

"La recente decisione del popolo greco non è un mandato di rottura ma è un mandato di continuazione e rafforzamento dello sforzo per ottenere un accordo socialmente giusto e finanziariamente sostenibile," si legge nella lettera. "Il governo si prenderà la responsabilità di continuare le negoziazioni in questa direzione. E ogni leader politico contribuirà a questo obiettivo nel quadro del proprio ruolo politico e istituzionale-" Insomma, il fronte greco si è ricompattato nel dire: non vogliamo uscire dall'Europa.

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Ma cosa vuole esattamente Tsipras? Al momento, i dettagli della sua proposta non sono ancora stati svelati, ma esistono alcuni elementi. Innanzitutto, bisogna considerare che, già prima del referendum, Tsipras aveva lanciato segnali di apertura accettando molte, se non tutte, le proposte di riforma della Troika, seppure con alcune condizioni. È probabile che quella rimanga una delle basi del nuovo negoziato. Secondo le ultime indiscrezioni, Tsipras chiederà un taglio del debito pubblico posseduto dai creditori internazionali pari al 30 percento, un prestito-ponte da parte dei paesi europei per poter affrontare le scadenze fiscale imminenti e il trasferimento dei circa 30 miliardi di euro oggi in mano alla Banca Centrale Europea dall'istituto di Francoforte all'ESM, il fondo salva-stati dell'eurozona creato nel 2011.

Code ai bancomat ad Atene dopo l'annuncio del referendum. Foto di

Panagiotis Maidis

2. 20 luglio, il giorno del default

Un simile piano permetterebbe alla Grecia di aggirare la deadline fondamentale del 20 luglio, che oggi rappresenta il giorno del possibile, e definitivo, fallimento greco. Quel giorno, infatti, il governo dovrà ripagare 3,5 miliardi di euro alla Banca centrale europea. È una rata molto pesante e dal profondo significato tecnico e simbolico. Se la Grecia non pagherà l'istituto di Francoforte, che come il Fondo Monetario Internazionale––su cui la Grecia è in arretrato di pagamento––è un "senior creditor", probabilmente Mario Draghi prenderà nota, definendo questa scelta un "evento creditizio", cioè un default capace di innescare una serie di nefaste conseguenze.

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Tra queste, la più immediata sarebbe la chiusura dei rubinetti del denaro a favore delle banche greche e, di conseguenza, il crollo del sistema dei pagamenti nazionale. Infatti, la cosiddetta Emergency Liquidity Assitance, o ELA, la liquidità di emergenza pompata dalla Bce che al momento tiene in piedi gli istituto di credito della Grecia, può essere offerta solo a "istituzioni finanziari solventi", cioè non fallite.

Ma un fallimento dello stato greco genererebbe immediatamente problemi enormi nelle banche del Paese, che hanno in pancia molti titoli garantiti dallo stato il cui valore crollerebbe. La sospensione dell'ELA significherebbe, molto semplicemente, che il governo di Atene dovrebbe "sequestrare" la Banca centrale greca e iniziare a stampare nuova moneta per dare ossigeno all'economia nazionale. Non sarebbe necessariamente l'uscita dall'Euro––un processo che presenta enormi problemi legali––ma un primo passo verso un precipizio i cui esiti sono tutt'altro che definiti.

Una manifestazione in sostegno del "sì" al referendum in piazza Syntagma, ad Atene. Foto di

Panagiotis Maidis

3. Dov'è Angela Merkel?

Per settimane Angela Merkel è stata in silenzio. Durante tutta la sua carriera politica, è stata sempre molto cauta, ma anche capace di assestare colpi vincenti al momento giusto. Nella crisi europea sembra aver perso il suo tocco magico. Fino a pochi mesi fa, ad Atene c'era un governo amico (guidato dal conservatore Samaras) e alcuni piccoli segni di ripresa economica, tanto che persino il New York Times tesseva le lodi della cancelliera, definendola un potenziale "leader del mondo libero."

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Ma, nonostante le preoccupazioni espresse in sua presenza dallo stesso Samaras, a fine 2014 Merkel non capì che dietro questa apparente stabilità la frustrazione dei greci per le misure di austerità stava crescendo oltre i livelli di guardia. Quando Samaras chiese un segno di buona volontà, offrendo altre riforme in cambio di meno tagli alla spesa, Merkel lo rimandò a casa a mani vuote. Il resto––il trionfo di Syriza proprio su una piattaforma politica di fine dell'austerità, le trattative, il referendum––è cronaca recente e oggi nessuno crede che la gestione della crisi da parte di Berlino sia stata brillante.

In tutte queste settimane, Merkel si è sistematicamente rifiutata di discutere la questione, sostenendo che si trattava di un problema che i ministri delle finanze dovevano risolvere tra loro, arrivando a zittire Tsipras quando, alla riunione dei leader europei del 25 giugno scorso, il premier greco aveva chiesto di discutere del salvataggio greco a un summit dedicato ai temi dell'immigrazione.

Il referendum greco ha rimesso la questione su binari esclusivamente politici, e ieri Merkel si è recata a Parigi per incontrare il leader francese, François Hollande. Al termine dell'incontro, auspicando un accordo ma sottolineando l'importanza del "rispetto delle regole" da parte dei greci e senza fare niente per smentire le varie voci che vogliono una Germania già in corso di discutere piani di "aiuto umanitario" per il post-Grexit più che piani di salvataggio del Paese. Ma la Germania rimane il Paese più esposto d'Europa verso il governo greco, per oltre 50 miliardi di euro, mentre la Bundesbank, la banca centrale tedesca, ha di recente ammonito che un'eventuale uscita della Grecia dall'Euro porterebbe a perdite superiori ai 14 miliardi di euro già accantonati per questo evento.

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Sostenitori del "no" in piazza ad Atene. Foto di

Panagiotis Maidis

4. Mario Draghi

Mentre i leader politici sono bloccati dai loro veti incrociati, a muoversi è la Banca centrale europea. Che ieri ha mantenuto stabile a 89 miliardi il livello di liquidità di emergenza a favore delle banche greche, allo stesso tempo aumentando il cosiddetto "haircut" per alcuni titoli. Questo significa che, quando le banche greche andranno a chiedere denaro alla Bce depositando a garanzia titoli (definiti "collaterali"), queste otterranno meno denaro per ogni classe di titoli depositati, in particolare se legati a garanzie del governo.

È di fatto una riduzione ulteriore del cash a favore delle banche del Paese, ma non sono in pochi a pensare che la mossa di Draghi sia ben calcolata. Di fronte all'opposizione sempre più forte del governatore della Bundesbank, il tedesco Weidman (che avrebbe votato NO alla decisione di ieri perché considerata "troppo morbida"), Draghi avrebbe spinto le banche greche un passo in più verso il precipizio, ma fermandosi giusto un passo prima, per mettere sufficiente pressione ai ministri che oggi si incontrano per una soluzione al problema greco.

Continua a prevalere la visione che non sarà la Bce a stabilire l'uscita della Grecia dall'Euro, vista come una decisione politica troppo forte per un organismo tecnico e indipendente. Anzi. Secondo Erik Jones, della John Hopkins University, Draghi sarà coerente fino in fondo alla promessa di fare "tutto il possibile all'interno del proprio mandato" per preservare l'Euro e la stabilità della moneta––e non sono pochi i possibili assi nella manica di Francoforte, anche con un acquisto diretto di titoli attraverso un cambiamento dei termini del cosiddetto Quantitative Easing.

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Eppure "queste sono tutte scelte politiche, ergo vanno oltre il mandato della Bce," secondo Jones. "Ma sono scelte necessarie e quindi i politici europei devono essere pronti a sostenere qualsiasi strada che la Bce ritenga maggiormente percorribile." Sono ipotesi che restano da valutare, e la Bce oggi rimane una delle istituzioni più criticate per la gestione della crisi. Secondo l'economista Paul De Grauwe, ad esempio, Francoforte non avrebbe compreso l'entità del debito pubblico greco, "causando una crisi bancaria non necessaria." Parole che si aggiungono a quelle dei giorni scorsi da parte di Charles Wyplosz, direttore dell'International Centre for Money and Banking Studies, secondo cui la sospensione dell'ELA, decisa per la prima volta il 28 giugno, avrebbe deliberatamente innescato una serie di eventi che condurranno inevitabilmente all'uscita della Grecia dall'Euro. Ma Mario Draghi ha già salvaguardato l'unione monetaria quando i leader europei non sono stati capaci di farlo.

Festeggiamenti per la vittoria del "no" al referendum ad Atene. Foto di

Panagiotis Maidis

5. C'è Putin al telefono

Nel frattempo, da Mosca Vladimir Putin ha telefonato a Washington, sponda Fondo Monetario Internazionale, per auspicare un pronto accordo tra la Troika e la Grecia. Da quando è in carica, Alexis Tsipras si è recato per ben due volte a Mosca e anche in queste ore ci sono state telefonate tra il leader greco e quello russo. Non bisogna sottovalutare questo aspetto.

La Grecia è stata storicamente un Paese nell'orbita di influenza Occidentale, grazie ai rapporti privilegiati delle sue élite con gli Stati Uniti, l'Inghilterra e l'Europa. È proprio in virtù di questa relazione che la Grecia ha potuto formarsi come stato stabile e come potenza regionale in grado di tenere testa alla Turchia nel Mediterraneo orientale.

L'ingresso di una Grecia ripudiata dall'Europa nell'orbita russa potrebbe avere rilevanti conseguenze geopolitiche. Anche per questo Barack Obama è più volte intervenuto per cercare una risoluzione positiva alla crisi e il Fondo Monetario Internazionale, guidato dalla francese Lagarde ma capitalizzato principalmente con fondi USA, ha nei giorni scorsi insistito sulla necessità di un taglio del debito greco per garantire sostenibilità di lungo periodo, come sostenuto a lungo da Tsipras e dal suo ex ministro Varoufakis. Eppure secondo fonti di Bruxelles citate dal quotidiano greco Ekathimerini, 16 dei 18 altri Paesi dell'area Euro sarebbero ormai favorevoli a un'uscita della Grecia dalla moneta unica. I due che ancora si oppongono, probabilmente Italia e Francia, avranno vita dura per convincere i propri partner a evitare lo schianto.

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