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Macro

Questa è la fine che fanno i tuoi vestiti quando non li metti più

Tutti conosciamo i contenitori gialli per il deposito degli indumenti usati, presenti ovunque nelle nostre città. Ma cosa succede davvero quando ci gettiamo dentro qualcosa, e che fine fanno i nostri vecchi vestiti?

Un giorno, anche questi vestiti verranno donati. Forse. Foto di Joshua Haddow.

Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!

Da qualche tempo i cassonetti della raccolta di indumenti usati sono diventati componente fissa del panorama urbano. Solo a Roma ce ne sono più di 1800, mentre ogni anno in tutta Italia si raccolgono circa 110mila tonnellate di vestiti, poi smistate da enti caritatevoli, associazioni impegnate nel terzo settore, cooperative o imprese commerciali.

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Liberarsi dei vecchi vestiti e depositarli nelle campane del riciclo può apparire come una scelta piuttosto logica, specie se si pensa al fatto che, secondo un articolo di The Atlantic dell'estate scorsa, gli americani acquisterebbero attualmente cinque volte la quantità di vestiti che compravano nel 1980. Il che comporta una serie di problemi diversi e ben più essenziali rispetto al dover trovare uno spazio dentro l'armadio nel quale verranno infilati.

Nella sola città di New York, per esempio, vengono gettate nell'immondizia 193mila tonnellate di vestiti l'anno, circa il cinque percento dei rifiuti totali. Dal 1999 al 2009, la mole di rifiuti tessili è cresciuta del 40 percento: una montagna che continua a ingrandirsi senza trovare sbocchi, se non quelli offerti dallo smistamento e dal recupero di questo tipo di materiale che altrimenti, se gettato nell'indifferenziata, genererebbe quantità di percolato e gas metano che arriverebbero a quasi 400mila tonnellate di CO2 su 110mila tonnellate raccolte.

Il problema, tanto negli Stati Uniti quanto in Italia, è che rispetto al resto della raccolta differenziata classica, quella dei tessuti avanza a ritmi ancora piuttosto bassi. Ma quando invece depositiamo un sacchetto di abiti dismessi in uno dei sopracitati cassonetti gialli, cosa succede? Che fine fanno effettivamente i nostri vestiti?

Negli Stati Uniti, dei circa 2 milioni di tonnellate di tessuti che gli americani riciclano ogni anno, meno della metà viene riutilizzato come indumenti: il 30 percento di questi viene recuperato per uso industriale, il 20 per riempire poltrone e isolare case, e gran parte di ciò che resta—860 mila tonnellate—viene spedito nel terzo mondo, muovendo un giro d'affari di quasi 700 milioni di dollari all'anno, animato da società for profit che collaborano con ONG varie.

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In Italia si stima che la raccolta differenziata di rifiuti tessili, malgrado tutto, sia cresciuta fino a raggiungere il 12 percento del totale dei rifiuti e circa 80mila tonnellate annue, che secondo l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale corrisponderebbero a qualcosa come due kg di vestiti usati a persona. La filiera tuttavia è alquanto complessa, e non si riduce al semplice passaggio "Metto nei cassonetti gialli la maglia Hard Rock Cafe Budapest —> Senzatetto di Modena indossa maglia Hard Rock Cafe Budapest."

Una volta scaricata parte di questi due kg pro capite sotto forma di sacchetto, quest'ultimo viene generalmente raccolto da alcune cooperative che si aggiudicano la gestione della cosa dagli enti pubblici—la maggior parte dei comuni italiani, attualmente, affida infatti il servizio a operatori che raccolgono gli abiti dai cassonetti e li smistano verso i punti di raccolta.

Arrivato nel centro di stoccaggio per pochi centesimi al pezzo (circa 20/30 cent), il vostro sacchetto viene poi trasportato verso un impianto di recupero, dove i vestiti vengono igienizzati e classificati. È a questo punto che le aspettative del dispensatore medio di indumenti usati cominciano a divergere dalla realtà, alimentando quell'irreferenabile cinismo che si crea attorno a questo tipo di cose, come un'eco parente del "Non faccio la differenziata perché tanto scaricano tutto quanto nella stessa discarica."

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Se infatti negli Stati Uniti la natura di "società a scopo di lucro" di chi spesso si occupa di queste cose provoca da tempo qualche irritazione—anche per il fatto che per questioni comunicative la donazione viene ancora sentita come "gesto di misericordia più che come forma di riciclaggio," come spiegava Jackie King della Secondhand Materials and Recycled Textiles Association—in Italia numerose inchieste testimoniano che riusciamo a saltare direttamente questo passaggio e ad appaltare parte della raccolta a organizzazioni criminali.

Come spiegava Gianfranco Bongiovanni dell'Associazione Occhio del Riciclone—che insieme alla Onlus Humana People to People Italia nel maggio scorso ha presentato la ricerca "Indumenti usati: come rispettare il mandato del cittadino?"—"il problema è che nel corso della filiera intervengono vari soggetti che non sempre sono controllati. Il 70 percento finisce negli stabilimenti di Prato ed Ercolano," e gli abiti che non finiscono per essere riciclati (25 percento) o smaltiti (7 percento) "diventano beni e vengono dati a dei grossisti." Da qui in poi se ne perde ogni traccia.

In sostanza, il passaggio che va dalla consegna del vestito usato all'affidamento alla cooperativa rischia spesso di non essere adeguatamente controllato, semplicemente per il fatto che per partecipare all'assegnazione del servizio nei bandi di gara comunali non sono previsti criteri specifici. In pratica ci si può far assegnare dagli enti locali dei punti di raccolta senza dimostrare di possedere un certificato antimafia né spiegare cosa si intende fare col materiale, e piazzare dei contenitori in prossimità di chiese—per esempio—lasciando intendere alla cittadinanza che la raccolta sia organizzata dalla parrocchia, o comunque da un ente religioso.

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Così se parte del materiale riciclato finisce per essere effettivamente donata ai più bisognosi, o riciclata, o venduta legalmente all'estero—soprattutto verso Africa ed Est Europa: l'Italia è il settimo esportatore al mondo—è anche vero che un'altrettanto significativa porzione di abiti usati e consegnati a questi contenitori finisce col fare il giro lungo e alimentare un mercato illecito molto lucrativo. Nelle stesse carte di inchieste come Mafia Capitale e Terra dei Fuochi, per esempio, si parla di vestiti usati che finiscono per alimentare traffici illeciti per un giro d'affari che ammonterebbe a oltre 200 milioni all'anno.

La conseguenza è che a ONLUS e cooperative del terzo settore vengono praticamente affiancate da contrabbando, traffico illecito e riciclaggio che arrivano a interessare anche i più alti livelli della criminalità organizzata, Camorra inclusa. Cosa che non può stupire, se si pensa alla quantità ingente di materiale che si può trovare in giro quotidianamente, e al fatto che lo si può raccogliere e rimettere sul mercato a prezzi miserevoli, guadagnando sulla quantità e i bassissimi costi di reperimento delle "materie prime".

A Roma, per esempio, il sostituto procuratore di Roma Alberto Galanti aveva scoperto che gli abiti usati, una volta presi dai contenitori, venivano poi rivenduti senza i trattamenti di igienizzazione previsti dalla normativa. L'inchiesta ha rivelato poi come una delle cooperative coinvolte nei primi 8 mesi del 2012 fosse riuscita a piazzare quasi tre tonnellate di abiti usati tra Tunisia, Polonia e Campania, ricavando quasi mezzo milione di euro con un guadagno sul pezzo singolo che andava dai 35 ai 58 centesimi—da moltiplicare poi per le 12mila tonnellate totali.

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Per far questo, molte organizzazioni criminali si fingono associazioni di carità, come nell'inchiesta lucana "Panni sporchi", che ha scoperto un flusso illegale di scarti tessili gestito da una finta organizzazione umanitaria che si incaricava poi di vendere il prodotto in Italia e all'estero, per un giro d'affari che l'inchiesta ha scoperto essere di "alcuni milioni di euro."

"Attualmente, purtroppo, i criteri di affidamento del servizio raramente favoriscono le filiere virtuose," spiegava la ricerca di Occhio del Riciclone e Humana People to People Italia. Un affidamento spesso deciso senza "seri regimi di trasparenza" che richiederebbero "una chiara presa di posizione dell'istituzione pubblica, che ha il potere di introdurre misure e regole precise."

Il problema, dunque, sarebbe essenzialmente politico: l'assenza di un adeguato controllo all'imboccatura della filiera consente a chiunque di deviare il corso di questa opera presumibilmente utile a livello sociale, e convogliarlo verso un traffico incontrollato che frutta centinaia di milioni di euro. Per questo, spiega Karina Boli, presidente di Humana People to People Italia, "occorrerebbero normative per obbligare gli operatori del mercato a una maggiore trasparenza informativa nei confronti della comunità," per ostacolare un sistema di assegnazione che spesso—come emerso nell'ordinanza di un'inchiesta romana che è poi giunta a una dozzina di condanne per traffico illecito e associazione per delinquere—lavora grazie a un "sistema collaudato di […] compiacenze politiche e meccanismi procedurali di facilitazione degli affidi."

Nell'attesa che politica e istituzioni si muovano per regolamentare tutta la filiera, a chi deposita i propri abiti usati nei cassonetti non resta che fare uno sforzo per distinguere i cassonetti "buoni" da quelli "truffa". I primi in genere dovrebbero essere riconoscibili dall'indicazione ben visibile degli estremi della società raccoglitrice, o dell'associazione che si è incaricata del servizio, con tanto di numero di telefono, indirizzo e sito internet. Perché, in ultima analisi, non ha alcun senso criminalizzare un fenomeno come quello del riciclo degli abiti usati, che può essere utile per la comunità in vari modi e si basa su una proprietà personale che, nel momento in cui viene depositato nell'apposito cassonetto, si è in qualche modo guadagnata una valutazione prossima agli zero euro. Le alternative al riciclo dei vestiti sarebbero comunque poche: non comprare più nulla, indossare cinque o più strati di vestiti al giorno, Inquinare L'Universo.

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