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Com'è crescere nella mafia italo-americana

Ci siamo fatti raccontare come era davvero la mafia italo-americana nella Brooklyn degli anni Settanta da Frank DiMatteo, cresciuto in una famiglia di sicari e uscito dalla malavita negli anni Duemila.

DiMatteo (a sinistra) e la sua gang nel 1970. Foto per gentile concessione di Frank DiMatteo

Frank DiMatteo è nato nel quartiere di Red Hook, a Brooklyn, ed è cresciuto in una famiglia di sicari della mafia italo-americana. Quando cresci con Crazy Joe Gallo che ti abbraccia talmente forte da farti piangere—come è successo a DiMatteo bambino—la tua infanzia non è esattamente delle più regolari. Nel suo nuovo libro, The President Street Boys: Growing Up Mafia, uscito il 26 giugno negli Stati Uniti, DiMatteo racconta com'è stato crescere in una famiglia mafiosa a New York. DiMatteo invece— dopo aver lasciato gli studi in giovane età ed essersi unito ai President Street Boys, conosciuti anche come la famiglia Gallo—si definisce un "sopravvissuto alla mafia". Mentre molti dei suoi compagni sono finiti incaprettati nel bagagliaio di una macchina o sul fondo dell'oceano, DiMatteo, a 58 anni, è ancora in piedi. E, a differenza di molti ex affiliati della mafia italo-americana che hanno deciso di far conoscere la loro storia, DiMatteo non vive nascosto. È uscito dalla mafia nei primi anni Duemila, con la sua integrità intatta, e vive ancora a Brooklyn.

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L'abbiamo contattato per sapere com'era lavorare per la mafia quando era l'associazione criminale più potente d'America, e perché ha deciso di fondare Mob Candy, una rivista che si occupa soprattutto di cultura—e nello specifico di criminalità organizzata.

VICE: Come è stato crescere in una famiglia mafiosa, a Brooklyn, negli anni Sessanta e Settanta?
Frank DiMatte: A nove, dieci anni non me ne fregava niente. Ero impegnato a essere un bambino. Non capivo cosa fosse la mafia, perché non se ne parlava esplicitamente, e non eravamo bombardati costantemente da notizie come lo siamo adesso. A dieci anni cominci a notare che i tuoi zii sono diversi da quelli dei tuoi compagni. Parlano sempre sotto voce, in casa ci sono persone che vanno e vengono, sono vestiti in modo diverso dagli altri. Verso i 12, 13 anni sapevo chi era ognuno dei miei parenti. All'età di 13 anni, guidavo e ho cominciato a prendere qualche lezione di vita. Allora sapevo esattamente quello che stava succedendo, ero al corrente di diverse cose, anche se non di tutto. Non è che uccidessi gente a 13 anni, ma andavo in discoteca con quelli che uccidevano. E facevo da autista, perché a 13 anni ero già più di un metro e 80. Li portavo in un sacco di ristoranti, discoteche, strip club. Praticamente, è stato facendo da autista che ho capito quello che succedeva.

Il mio padrino è Bobby B. Botty, uno dei sicari del clan Gallo. È stato lui a voler diventare il mio padrino, eravamo molto legati. Gli ho fatto da autista per un paio di anni, nei primi Sessanta. Era un personaggio, un assassino esperto, ma era anche molto simpatico, uno un po' fuori di testa. Certo, i suoi crimini erano molto, molto gravi, eppure se lo sapevi prendere era un tipo divertente. Se non lo conoscevi, invece, era una persona indecifrabile: non riuscivi a farti un'idea di chi fosse. Sono persone strane, appartengono a una razza molto particolare.

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DiMatteo, in giacca a righe, nel 1977.

Era come un vero e proprio lavoro? Cioè, avevi degli orari fissi? E soprattutto, sapevi cosa facevano le persone che portavi a spasso?
Nessuno veniva da me e mi diceva, "Ehi, Frankie, ora ti spiego nei minimi particolari cosa faremo oggi." Non puoi raccontare qualsiasi cosa a chiunque, e loro lo sanno benissimo. Anzi, ti dirò che le persone che vogliono sempre parlare un sacco di quello che fanno mi spaventano. Io non dovevo sapere niente. Se non ero direttamente chiamato in causa, allora era meglio, per loro e per me, che ne restassi fuori.

Com'era, allora, la vita all'interno della mafia italo-americana?
Erano tutti impegnati a fare le loro cose. C'era chi si occupava di furti, chi faceva altro—insomma, si cercava di portare a casa il pane. Erano gli anni Settanta. Non giravano così tanti soldi. Non eravamo ricchi. Ogni santo giorno cercavamo qualcosa da fare, perciò quello che sarebbe successo era del tutto imprevedibile. Eravamo ragazzi di quartiere. Ed eravamo tutti diversi. C'era quello scontroso, quello simpatico, quello sempre ubriaco, quello sempre fumato, e quello che ti faceva ridere. Con noi c'erano anche ragazzi ebrei, portoricani, siriani. Era un circo, ecco cos'era.

E Crazy Joe Gallo, com'era?
Joe è finito in prigione quando avevo quattro o cinque anni. È uscito quando ero adolescente, a 16 o 17 anni, quindi l'ho visto per un anno—penso dal 1971 al 1972. Joe era Joe. Faceva paura. Aveva sempre gli occhi che gli brillavano. Sorrideva spesso, ma di certo non era un tipo con cui scherzare. C'è anche da dire che quando eri con lui non avevi paura di niente. Aveva una vita piuttosto sregolata quando è tornato, era sempre fuori a bere. Portava avanti gli affari, ma passava un sacco di tempo a Manhattan. Tutti noialtri, a quei tempi, eravamo fissi a Brooklyn. Non ci allontanavamo mai molto dal nostro quartiere.

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Io vivevo con il mio padrino e Pete il Greco. Lo vedevamo al massimo una volta a settimana. Magari veniva da noi in qualche locale. Era piuttosto matto. Funzionale, ma matto. Non aveva paura di niente. Era come i gangster degli anni Venti. Pensava di poter fare tutto ciò che gli pareva. Credeva che nessuno gli potesse sparare, che nessuno avrebbe avuto il coraggio di farlo. Ma sapevamo che si sbagliava. Era fuori da solo un anno quando lo hanno ucciso.

Che impatto hanno avuto gli anni Sessanta sulle nuove leve?
Gli anni Sessanta hanno sicuramente avuto un impatto. Le nuove leve erano un po' diverse dai criminali di strada cresciuti negli anni Venti. Questi ragazzi, sulla fine degli anni Sessanta, inizio Settanta, non avevano la stessa "fame". Erano semplicemente cattivi ragazzi. Quello che gli anni Sessanta hanno fatto, è stato aprire le porte a crimini diversi, nel campo della finanza, e questi ragazzi avevano un'impostazione mentale diversa. Poi è arrivata la marijuana. Tra gli anni Venti e Quaranta non credo che fosse così diffusa. Questa gente si faceva le canne per strada come se niente fosse. Erano mezzi pazzi. È cambiato tutto. Loro sono cambiati. Il rispetto, il modo di pensare. Non seguivano tutte le regole come la generazione precedente. Ci ridevano.

Come sei uscito dalla mafia, e come hai scampato il carcere?
Sono stato fortunato. Ci ho visto giusto in un paio di cose. Sono stato molto, molto fortunato ad andarmene, soprattutto con tutte le spie che ci sono. Il boss era stato spodestato, quindi nessuno è venuto da noi a dirci, "Non potete farlo, non potete lasciare la mafia." Tutti collaboravano con la giustizia. Se ne sono andati tutti. Siamo usciti dalla porta proprio come se niente fosse. Nessuno ci ha seguito, nessuno ci ha chiamato. Siamo stati fortunati.

Cosa pensi, oggi, della mafia italoamericana a New York?
Non hanno idea di quello che fanno. Sono giovani. Molti non sanno un cazzo, perché quelli che sapevano sono morti, o sono in carcere. Molti fanno finta di niente ma collaborano con la giustizia. Altri sono impazziti, in carcere. Quelli che emergono ora non hanno nessuno che gli insegni. Leggono sui libri e imparano a dire "omertà" [in italiano nell'originale].

Metà di quelli che dovrebbero comandare non hanno nemmeno più un soprannome. Non si baciano in pubblico perché hanno paura. Hanno paura di tutto. Sembra uno scherzo ora, davvero. Non c'è rispetto. Tutti gli altri ci ridono dietro. Gli albanesi ridono, i russi ridono—non c'è rispetto. E l'altra cosa è che ci sono 200 spie, nessuno di loro è morto. Nessuna spia è morta, sono sempre qui. Segui Seth Ferranti su Twitter.

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