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Fotografare la bellezza e la brutalità delle megacittà asiatiche

Michael Wolf è un fotografo tedesco. Nel 1994 si è trasferito a Hong Kong, e da anni fotografa le città più popolose dell'Asia per documentare le difficili condizioni di chi le abita.

Aggiornamento: il 27 aprile 2019 è morto nella sua casa di Hong Kong Micheal Wolf. Il fotografo, vincitore di due World press photo, si è spento all'età di 64 anni. Riproponiamo una nostra intervista fattagli su uno dei suoi progetti più noti: quello sulle magacittà asiatiche.

Michael Wolf è un fotografo tedesco sessantenne che nel 1994 si è trasferito a Hong Kong. "Amo la velocità con cui cambia," mi ha detto. "A livello estetico, è perfetta per me." Dopo aver lavorato come corrispondente fotografo per il settimanale tedesco Stern Michael ha deciso di rivolgere il suo obiettivo verso le megacittà—i centri abitati ad altissima densità di popolazione sorti in tutto il mondo nel corso degli ultimi decenni, soprattutto in Asia. L'ho chiamato per scoprire cosa pensa di questi strani posti che decine di milioni di persone chiamano casa.

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VICE: Tanto per cominciare, cos'è una megacittà?
Michael Wolf: Le megacittà sono città con più di cinque milioni di abitanti. Non penso che per l'Europa si possa parlare di megacittà: Parigi ha due milioni di abitanti, mentre in Cina una città con tre milioni di abitanti è considerata piccola. Si parla di città di cinque, dieci, 25 milioni di abitanti.

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Perché nelle tue foto sembrano sempre posti tristi?
Be', le megacittà hanno un sacco di lati negativi. Sono centri basati sul profitto. Chi ne sta ai vertici non si preoccupa di chi ci vive, vogliono solo fare soldi. La conseguenza è che da un lato queste città spaventano e intimidiscono, mentre dall'altro sono estremamente belle. In The Architecture of Density [il suo progetto fotografico sulla crescita di Hong Kong] le si può guardare come si guardano dei quadri.

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E invece le persone che vivono in scatole di cartone nella metropolitana di Tokyo? Quella è una cosa bella?
Be', di loro mi piace la capacità che hanno di arrangiarsi. Il mio lavoro affronta principalmente lo sviluppo dell'architettura per far fronte a un bisogno, ma c'è anche spazio per una riflessione di natura economica. Dato che vengo dal mondo del fotogiornalismo, direi che nel mio lavoro c'è anche un aspetto di critica sociale.

E in cosa consiste questa critica?
Mi sono sempre schierato a difesa delle classi più basse. C'è un mio progetto, 100x100, in cui ho fotografato 100 appartamenti di un edificio di Hong Kong in via di demolizione, tutti di dieci piedi per dieci. Mostro le condizioni di vita in questa città—ma ti ripeto, mi piace concentrarmi sulla vita e sulla capacità di adattamento delle persone. Qui ci sono persone normali e le loro vite sono ciò che sto cercando di documentare.

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E come fai a documentare una cosa di questo tipo?
È semplice: ogni giorno esco di casa, vado in giro e scatto fotografie. L'unico problema è che non parlo cantonese, per cui talvolta mi porto dietro un interprete.

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Quindi hai fiducia nelle persone?
Certo che sì.

Anche se si tratta di 25 milioni di persone che vivono una sopra l'altra?
Be' no, ma se parli con queste persone in modo superficiale ti diranno sempre che i complessi di appartamenti in cui vivono sono molto convenienti. Prendendo l'ascensore puoi arrivare al centro commerciale, alla metro e a scuola. Ma se riesci a conoscerle e a scavare più a fondo viene fuori che ognuno di loro vorrebbe avere più spazio. Magari vivere in una piccola casa in campagna. È un desiderio che accomuna tutti, ma se ci pensano si deprimono. Sono molto bravi a mettere da parte quelli che considerano dei problemi. In queste condizioni emerge tutta la loro creatività e la loro capacità di adattarsi. È sopravvivenza, ed è questo quello che mi interessa.

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