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Maurizio Milani

Maurizio Milani—nato Carlo Barcellesi—è, molto semplicemente, un genio. Alcuni lo amano e lo venerano in quanto tale. Altri non lo capiscono, dicono che è “un comico che non fa ridere”. Io sono clamorosamente, evidentemente, tra i primi. Milani ha scritto otto libri, i cui titoli dovrebbero darvi un’idea della genialità di cui parlavo prima: Animale da fosso; Un uomo da badile; Vantarsi, bere liquori, illudere la donna; La donna quando non capisce s’innamora; In amore la donna vuol tribolare; L’uomo che pesava i cani; Del perché l’economia africana non è mai decollata e infine l’ultimo, Mi sono iscritto nel registro degli indagati. Milani è anche una delle ragioni principali per le quali leggo Il Foglio, quotidiano sul quale mantiene una rubrica fissa, quasi sempre esilarante, dal titolo “Innamorato fisso”. Non voglio dilungarmi più di tanto, se non per dire che a me fa molto, molto ridere e che secondo me—e non solo secondo me—è uno dei migliori scrittori italiani degli ultimi 40 anni. Ma non è solo un grande autore: è anche dotato di un modo di parlare e di un tempismo comico tale che farebbe ridere anche sentirlo leggere i comunicati ANSA. Guardatevi tutte le sue clip su YouTube, e ditemi voi. La più popolare inizia con Milani che dice, “Allora, Giorgio Armani si è offeso perché non vado a chiedere la carità sotto casa sua.” E poi finisce con, “A me piace farmi compatire. Non ho bisogno di soldi: lo faccio per parlare con la gente. Sto bene di famiglia.” Purtroppo questi due minuti di genialità contano solo 13.000 visualizzazioni. Alla fine, rimanere incompresi è il destino di ogni genio. Conoscerlo è stato un onore e un piacere. Ci siamo presi un caffè sotto la redazione di Vice e abbiamo chiacchierato per un’oretta. Ecco quello che ci siamo detti. Vice: La prima volta che ti ho visto in TV ero molto piccolo. Mi ricordo benissimo di te—era uno di quei programmi con la passerella di comici—ma non ricordo nemmeno che programma fosse. Ricordo che tutti i comici apparivano sul palco e magari due di loro avevano la parrucca, uno faceva un’imitazione, uno era vestito da pirata o qualcosa del genere. Poi sei apparso tu e non avevi niente di strano addosso. Eri in giacca. Non so come dire, nessuna—
Maurizio Milani: Nessuna barriera. Ti ricordi che anno era? A dire il vero no. Sarà stato il ’95. E me la ricordo proprio bene, perché quella sera eri l’unico comico apparso sul palco che non interpretava nessun personaggio. Non eri Michelino il bambino scemo o Peppe il benzinaio spregiudicato. Sei apparso sul palco in giacca e hai detto, “Bon. Non ho hobby. Bevo.”
[ride] Allora era Zelig. Ma questa necessità di interpretare il personaggio con il tormentone—nel senso che ormai sembra necessaria per avere successo—come la vivi? Tu non l’hai mai fatto, vero?
No. Però va be’, il tormentone, in effetti, è un escamotage giusto. Anche nella musica, devi seguire una specie di tormentone, anche nel jazz, però non è una decisione presa mio malgrado. Ma non è nemmeno una scelta ponderata, come quella di mettersi seduti a un tavolo e scegliere un tormentone. Quindi come funziona, per te?
Per me, è come se parlassi con te adesso, solo che ogni tanto devo metterci una frase un po’… così. Mentre sto parlando razionalmente con te, potrei dire, “Quel pannello solare lì, tiriamolo giù, e diamolo al campo nomadi di Piacenza.” Questa è quella roba lì, puoi aggiungerla, però poi devi parlare normale. Chiaramente se sei in televisione devi concentrare tutto in tre minuti, di quelle frasi lì— tipo,“Pale eoliche? Tiriamole giù!”—ne devi mettere tante, con poche pause. È l’unica differenza. Però no, non amo i tormentoni. E c’è anche la necessità di interpretare un personaggio. Anche se Maurizio Milani stesso è un personaggio.
Io mi chiamo Carlo Barcellesi. All’anagrafe non mi chiamo Maurizio Milani. Ok, ma non sei Antonio Albanese che fa Alex Drastico, nel senso: lui è comunque noto come Antonio Albanese, e poi magari in un pezzo fa Alex Drastico. Invece tu sei Maurizio Milani e basta. Maurizio Milani sei tu. L’hai tenuto in vita per tutta la tua carriera.
Perché sono me stesso, solo un po’ esasperato. Che poi, se vai a indagare, alla fine, il personaggio è sempre uno. Lo stesso Albanese fa Epifanio, o Alex Drastico, o Pier Piero, ma non sono tanto diversi. Alla fine è come quando dicono che uno scrittore scrive sempre lo stesso libro. Praticamente potresti usare qualsiasi espediente, potresti metterti, per dire, una bombetta, ed essere un altro personaggio. Ti puoi camuffare un po’ dal punto di vista coreografico, però alla fine sei sempre te stesso. Pensa a Carlo Verdone, che a me piace molto. I personaggi sono sempre quelli: l’ipocondriaco, e gli altri. Cioè, sono quelli, i personaggi. Fa sempre se stesso. Prende delle parti di sé. C’è il cafone, l’ipocondriaco nervoso, quello tutto preciso.
Quello che dice, “Allora alle 20.51 ti aspetto qua. Sai, mia moglie.” Quello che fa diventare matta la moglie. Io non vedo tanta differenza, se non nei testi. Ecco, devo dirti, leggendo molta attualità riesco ad avere tanti ingredienti che poi amalgamo e faccio diventare un pezzo comico. Può trattarsi del riscaldamento globale piuttosto che del protocollo di Kyoto: in quelle cose lì poi metto delle mie robe che dovrebbero far ridere. La radice di quello che faccio è soprattutto il lavoro sul testo. Tu hai sempre scritto tutti i tuoi testi?
Sì, scrivo sempre io. Ho fatto otto libri. Li ho quasi tutti. Forse mi sono perso i primi.
Ho fatto con la Bompiani nel ’94 Animale da fosso, sono partito subito con una buona casa editrice. Poi sono andato da Baldini & Castoldi e ne ho fatti due: Vantarsi, bere liquore e illudere la donna e Uomo da badile. Poi ne ho fatti quattro con Kowalski, dopo la migrazione di tutti i comici dalla Baldini & Castoldi alla Kowalski, e poi basta. E l’ultimo, Mi sono iscritto al registro degli indagati, è uscito con la Rizzoli, però è sempre legato al fatto che l’editor della Kowalski si è spostato alla Rizzoli. Cioè, seguo le persone, è come se io e te adesso diventiamo amici, tu vai, per dire, a Panorama e tra un anno io faccio l’intervista sempre con te ma per una testata diversa. Alla fine segui sempre il tuo editor. A me piacciono molto i tuoi libri, perché in realtà sono estremamente simili a quello che fai dal vivo, sul palco o in televisione. Mentre li leggo, li immagino letti direttamente con la tua voce; a differenza di altri comici che magari scrivono libri distanti dal loro stile, o da quello che dicono di solito. E mi chiedevo proprio cosa ne pensi riguardo il fatto che oltre al testo è molto importante la tua interpretazione.
Molto. Rizzoli mi ha parlato di realizzare un audiolibro. Allo stesso modo di Camilleri. Vogliono che io legga il mio libro, ma hanno delle perplessità di tipo commerciale: non su di me, ma sull’audiolibro in generale, che non ha mercato. Sì può fare, tanto ti metti lì un pomeriggio, lo registri e lo puoi fare. Secondo me funzionerebbe.
Dici che, allegato a libro, la gente lo ascolterebbe?

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Io lo ascolterei molto volentieri. Una parte molto forte della tua comicità è rappresentata dal tuo modo di parlare, dai tempi che hai. Quant’è ragionato questo?
Per niente. È solo il mio modo di parlare. Non c’è uno studio voluto sul tempo. Quindi il trucco è tutto nel materiale.
Sì. Anzi, ad un certo punto, senza volerlo, mi sono reso conto che più produci materiale più ripercorri le stesse strade, in modo non consapevole. Mi rendo conto che riscrivo dei pezzi che sono leggermente cambiati. Me ne accorgo dopo: magari mi capita di andare a vedere in archivio e di dire, “Ma questa roba qua l’ho già scritta!” È come un jazzista che fa la stessa armonia. Alla fine percorri quella strada lì, poi lo confronti con quel pezzo là… ed è quasi uguale al pezzo del 1998. Sarà un po’ diverso, ma il 95 percento è uguale. Magari con riferimenti all’attualità diversi.
Ma la cosa che mi stupisce è che io non mi ricordavo di averlo già scritto, quel pezzo. Sì, certo, perché tu lo trovi buffo nella tua testa. E poi avrai scritto migliaia di pezzi.
Sai, le prime volte, avevo anche paura di perdere il repertorio. E invece non lo perdi, perché comunque è un meccanismo che paradossalmente è anche un limite. Mi rendo conto adesso, avendo quella rubrica quotidiana che ho sul Foglio—“Innamorato fisso”—e dovendo scrivere due, tre pezzi al giorno, a volte mi fa pensare che forse abbiamo raschiato il fondo del barile. Cioè, alla fine della fiera, erano quelle 1.000 storie, non di più. Secondo me le abbiamo quasi fatte tutte. Ma in realtà non è che finisci, perché tutto questo lo metti giù nel cinema, nel teatro… Hai mai fatto cinema? Ti interessa?
No, mai. Una volta mi ha chiamato Mazzacurati, poi dopo non so cos’è successo. Forse non è stato nemmeno mai fatto. E Andrea De Carlo mi aveva chiamato per una sceneggiatura. Anche se poi non se n’è fatto niente, solo degli appuntamenti. In Italia succede che a un comico, quando ha abbastanza successo, gli fanno fare dei film. Spesso non sono altro che allungamenti del loro materiale su due ore o, peggio ancora, dividono il film direttamente in sketch. Però io come attore ti vedrei, se un regista ti desse la possibilità di improvvisare, magari in un ruolo non comico. Secondo me funzioneresti.
Sì, ma infatti le due proposte che mi hanno fatto erano da comprimario. Mi hanno dato da leggere i copioni e io non avevo ruoli principali, ma secondari. Come per esempio un barista di provincia. Se vedo un film in cui il barista sei tu, a me fa ridere.
Sì, infatti, però magari ti fanno vedere per cinque minuti. Non erano occasioni di chissà quale genere, non ho perso questi grandi ruoli. Giusto una questione di curriculum. Il grande e compianto Mitch Hedberg faceva un pezzo dove diceva, “Ora ho successo come comico, e gli agenti mi dicono, ‘Ok, tu che sei un comico, mi scrivi una sceneggiatura?’ È una cosa assurda. È come se uno passasse la vita a migliorarsi come panettiere, e quando finalmente ce la fai, viene uno e ti dice, ‘Ok, tu che sei un panettiere, riesci a crescere il grano?’” Com’è che i comici in Italia, raggiunto un certo livello, devono per forza fare “il film”?
Per una questione di tornaconto commerciale. Se vedi quelli che hanno iniziato con Non-Stop nel ’77, c’erano Massimo Troisi, Verdone, i Giancattivi—Alessandro Benvenuti, Francesco Nuti, Athina Cenci: l’evoluzione per tutti è il cinema. Se ci pensi, anche Villaggio ha iniziato con L’altra domenica. L’anomalia in realtà è non fare l’evoluzione che ti porta al cinema. È come il consigliere di circoscrizione che si ferma e non raggiunge la Camera. L’evoluzione è quella lì, se poi uno ce la fa o meno, chissà. È l’evoluzione, se hai successo in TV è giusto, se no cosa fai lì? O fai il conduttore show-man come Fiorello , e fai 10.000 persone nei Palasport, o fai Grillo. Anche Benigni era a Non-stop, faceva anche lui L’altra domenica con Arbore. Benigni faceva quei tre minuti in TV, poi ha vinto l’Oscar. Arbore e Enzo Trapani sono stati due geni della televisione italiana. Comunque, io dico che se uno è bravo a fare il comico, e ha i suoi tempi, e sa il suo mestiere—mestieri con i suoi metri di giudizio specifici—la capacità o meno di fare un film non c’entra. Non credo che il cinema debba essere il metro di giudizio sul tuo lavoro di comico. Sono due cose diverse.
È vero, una roba su cui posso darti ragione però un altro conto è se il comico si mette a fare anche il regista. Volendo può scrivere la sceneggiatura, può essere attore, ma se è un comico perché fa la regia? Che poi non la fa mai, mette solo la firma. C’è l’aiuto-regista. Un’altra cosa che penso spesso guardando la tua comicità è che tu reciti quello che scrivi, il tuo testo, con la tua sensibilità comica personale. Tu scrivi una cosa e la leggi e poi, a un certo punto, quando hai finito il pezzo, dici proprio “Basta. Ho finito il pezzo,” oppure, “Bon, sto pezzo era brutto”.
“Sì, basta, non sto bene.” Sì, è vero. Tutto di un colpo. “No, no, basta, basta, ho finito.” Parlando fuori dai denti, ho sempre avuto delle belle recensioni, ma non c’è mai stato il salto di qualità commerciale. Significa vendita di libri, proposte di pubblicità: non c’è mai nessuno che mi ha mai parlato della pubblicità della Vodafone o del caffè Hag, cose a cui avrei avuto il piacere di dire di no. Perché non me l’hanno mai proposto. Allora, la mia è sempre stata una roba per gente tipo te: tu sei uno che se ne intende. Però la gente, diciamo, non lo capisce. Ha altro da fare. E secondo te perché?
È una questione di omologare i gusti, e poi è anche bello così. Se uno che è abituato a vedere i quadri di Giovanni Fattori, con il cavallo e il fieno, vede un quadro di Pollock, è chiaro che gli viene un momento un po’ così. Perché è quella roba, è sempre stato così… è giusto che sia così, non lo sarebbe, altrimenti. Stai dicendo che il tuo modo di fare comicità è—
Io voglio che lo dici tu! Il tuo modo di fare comicità è particolare, è ricercato, è intellettuale, è diverso dagli altri.
Sì, ma non è volutamente. Non è per snobismo.

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Forse però piace agli snob.
È vero, piaccio agli intellettuali, a quelli istruiti. Non è un caso che scrivi su Il Foglio, che tra i quotidiani è quello più da intellettuali. Riguardo il pezzo che hai scritto qualche settimana fa, quello che ti hanno pubblicato non nella rubrica ma in mezzo. Quello sulle scuole per i dromedari. Era fantastico perché c’erano le notizie vere intorno e in mezzo il tuo, ma non era presentato come un tuo pezzo comico.
Ah già. [ride] Sì, era inventato. Sono quattro anni e mezzo che ci scrivo, dal 2006. E queste ragazze della redazione del Foglio di cui parli?
Sì è vero, infatti sono stato male, chiama qualcuno, sto male. [ride] Chi è che hai visto, che sei stato male? Andiamo su in redazione, dai, sto male. È finito tutto qui. È fantastico che le chiami per nome, ma sono i nomi veri?
Sì, alcuni sono i nomi veri delle impiegate. In generale, ogni volta che parli dei rapporti uomo-donna a me fa sempre molto ridere. Volevo chiederti una cosa riguardo la tua evoluzione, perché quando guardo gli sketch passati, eri molto più dark. Eri davvero, davvero inquietante.
Ero molto più fidanzato. Ero più spaventato. Parlavi di droga, di alcol, di stupro ma anche di cose assurde. Però erano molto più violenti. Tipo la tonnara dei bambini in una fogna della CGIL. Ed erano anche molto più lunghi.
Sì. Cose come Pederastia nelle saune. Ma alla fine, dove vai, una volta che hai messo la bomba all’Ortomercato, o quando hai buttato i rifiuti tossici e i bambini nel Lambro? Poi basta. Adesso faccio solo robe di esaurimenti senza motivo, scabbia—che va presa per forza—altre malattie. Energie alternative.
Certo. Bio-gas. Oppure pisciare nei serbatoi dei pullman. Mi piace anche notare i diversi riferimenti che fai a elementi dell’attualità. Ad esempio, c’era un periodo in cui parlavi spesso di Gian Antonio Stella.
Sì, è vero. Era nel periodo di uscita del libro La casta, si parlava molto del cattivo costume. Che se ci pensi è una storia molto banale. Dire, “Eh sì, rubano.” Eccerto. A me piacerebbe qualcuno che facesse l’apologia del reato. Non è che io come persona me ne compiaccio, però se vogliamo fare i corretti non facciamo questo mestiere. Non so fino a che punto esser corretto faccia ridere. “La CO2 inquina,” ho capito. Abbiamo dei comportamenti tali, dopo che fai? Già che siamo sull’argomento, a me personalmente annoia molto il costante umorismo su Berlusconi. È una cosa che tu non fai. Mi annoia non per ragioni politiche, ma perché è noioso e troppo facilotto.
Effettivamente non ci vuole tanto. Cosa ci vuole a dire “È andato con una ragazzina minorenne, aveva la minigonna, l’ha toccata…” OK, va be’, ma che testo è? È come dicevi tu prima: per me è più interessante, al di là dello schieramento politico, qualcuno che dice, “A Berlusconi piacciono le belle ragazze diciottenni in minigonna. Chiamalo scemo.” Non amo i comici moralisti.
È chiaro, adesso va molto, ma poi non so quanto sia strumentale. La CO2, piantiamo gli alberi, il Maestro Abbado che non ha voluto il compenso per la Scala ma vuole mettere giù 90.000 alberi a Milano. Solo che ha rotto le palle perché vuole scegliere lui il posto. E il sindaco gli fa, “Maestro Abbado, facevo prima a pagarle il cachet. Prima di tutto, il vivaio non me li regala 90.000 alberi, se poi vuole anche decidere lei dove piantarli…” Probabilmente il suo agente gli ha detto che tirano molto le pale eoliche, l’energia alternativa. Allora poi non sai più fino a che punto è strumentale o quanto uno è convinto. Insomma, siamo tutti d’accordo che non vogliamo respirare il piombo. Mica sono scemo. Poi vedi che arriva uno con il Porsche Cayenne da 4.000 di cilindrata e dice, “Sono Bono degli U2.” Eh, calma. Vanno anche in giro per il tour con 60 camion e sei aerei.
Infatti lì diventa strumentale. Che furboni, eh? Se uno dice, “Io sono Briatore e mi comporto come tale,” non condivido, ma almeno è chiaro. Il nomade, ad esempio, si presenta in quanto tale e sai che è nomade e tu ti aspetti che sia così. A me hanno ciulato 36.000 euro in BOT Parmalat. Si presentano con la cravatta, “Piacere, come sta?” Il nomade, invece—senza dire niente, perché io li stimo, anzi vorrei anche ad abitare con loro, a Triboniano, così non pago l’acqua—non ti confonde. Invece a me chi mi ha confuso e mi ha ciulato tutti i risparmi, 36.000 euro, con le obligazioni Parmalat, è stata una banca, non me l’ha vendute un nomade. Il nomade a me non ha fatto niente. Quindi ti infastidisce l’ipocrisia, la falsità.
Se tutto è in buona fede, se uno è molto romantico, allora lo giustifico anche se è miliardario. Se è di animo buono. Ma ho notato che ci sono persone che strumentalizzano le nostre legittime contestazioni del sistema per fare soldi. Come gli U2, come dicevi tu. Tu non sei mai scontato quando attacchi qualcuno o qualcosa e lo fai con una leggerezza che è il contrario della foga indignata del comico arrabbiato, che non mi piace.
Come Grillo. Ti parlo fuori dai denti: io non so quanto sia convinto o quanto abbia trovato un modo molto più elegante per vantarsi. Lui aveva tentato con il cinema, aveva fatto un film—come l’evoluzione di Non-stop di cui abbiamo parlato. Poi il film non è andato bene e si è buttato su questa specie di Savonarolismo, questo predicare. Però siamo sempre lì, tu per andarlo a vedere devi pagare il biglietto al Forum. Ci hai mischiato dentro il partito, anche. Che poi può anche essere giusto, quello che dice. Ma non è quello che dice, è la forma. Allora non sei un comico, perché non mi stai facendo ridere. Sei un politico. E tu, a livello politico?
Io sono d’accordo anche nel dare le case ai pederasti. Io stesso sono un pederasta. Guarda che io pubblico tutto.
Chissenefrega Senti, un’altra cosa che ho notato è che la tua comicità non piace a tutti. Però, a quelli a cui piaci, piaci tantissimo. L’hai notato anche tu?
È vero, e io li ringrazio. Però se vai a vedere il mio amico Cornacchione su YouTube, il pezzo “Povero Silvio”, conta 250 mila visualizzazioni, io arrivo a 5, 10 mila. Cioè, io ringrazio, però sono come i voti. E ogni voto conta. Tu come intellettuale per me vali, come opinion leader dovresti trascinarne 100. So che ho degli estimatori che fanno tendenza, magari anche dei cantanti che venivano lì a farmi i complimenti, però come numeri il mio libro vende 5.000 copie. Che poi siano il primario dell’ospedale o comunque tutte persone molto intelligenti, non conta. Alla fine io li ringrazio.

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Il tuo video più cliccato ha 13.000 visualizzazioni. Magari ti prendi male, però secondo me di quelle persone ce ne sono tante che l’hanno visto da due computer diversi.
Addirittura! Però è vero. Quindi può essere che si riduce ancora. Ma non succederà per i libri spero. Io di Vantarsi, bere liquori, illudere la donna ne avrò comprate tre copie, da regalare. Mi dispiace. Ma usi il computer?
No. E quindi i tuoi pezzi li scrivi a mano?
Sì. La mattina, per esempio, per Il Foglio. Ogni mattina. Per Che tempo che fa—vado tra 15 giorni, e di solito vado una volta al mese. Lì faccio una riunione il giovedì con gli autori dove gli do un po’ di materiale, cinque o sei pezzi, e loro me li scelgono. Mentre per il libro, abbiamo raccolto la rubrica del Foglio, che ci ha dato il permesso. Non è altro che una raccolta della rubrica. A proposito di opinion leader, immagino che Giuliano Ferrara sia un tuo fan.
Sì, infatti, è stato lui a farmi chiamare, a propormi la rubrica. Anche io lo stimo. Io andai al Foglio grazie a Maria Rosa Mancuso, che fa le critiche del cinema, lei veniva a vedere gli spettacoli del vecchio Zelig. Poi, essendo lei una giornalista del Foglio, presumo che mi abbia segnalato alla redazione. E invece per quanto riguarda il tour comico, lo spettacolo, il cabaret tradizionale?
Probabilmente dovrei farlo con la cooperativa del teatro di Milano, me lo volevano produrre. Anche nel teatro c’è un piccolo investimento iniziale, devi affittare i teatri e devi partire un anno prima, non è come i circoli ARCI, che li chiami e dici, “Vengo a suonare lì il prossimo mese.” Poi cosa devi fare? Devi avere un regista teatrale, un musicista. Bisognerebbe farlo. Spettacoli lunghi ne hai fatti, no?
Sì nei club, nei circoli ARCI, alle Feste dell’Unità. E lì facevi spettacoli lunghi? Al massimo di che durata?
Un’ora. Un’ora è tanta. È un bel lavoro, impegnativo.
L’ho fatto fino al 2000. L’ultimo spettacolo si chiamava Il pubblico all’uscita si lamenta. E il pubblico alla fine si lamentava davvero. L’hai chiamato così prima dello spettacolo, però.
E infatti. L’ho fatto apposta a far male. Sai, se tu sei bravo a fare i 100 metri, e ti chiamano a fare la maratona, poi puoi anche stufare, ecco. Alla fine comunque non andava così male. Tu ti divertivi a farlo?
Non particolarmente, era pesante. Tutte le sere, un’ora con gli spostamenti, sempre con lo stesso materiale, che poteva cambiare un pochino a secondo di dove fossi. Se ero a Como parlavo del Lago, ovviamente. Molto della tua comicità ha dei riferimenti precisi a piazze, vie, paesi e molte sono cose lombarde o milanesi o comunque del Nord. È stato un limite della tua comicità?
Sì. Qualche tempo fa Paolo Rossi non faceva ridere da Firenze in giù, e viceversa Lando Fiorini, non è detto che funzioni a Milano. Adesso la TV ha omologato tutti i gusti, però fino a 50 anni fa c’erano dei comici che erano legati al territorio, come le maschere la commedia dell’arte. Anche tu sei così, una maschera della commedia dell’arte di Milano. Quando tu parli di Porta Genova io ti vedo e mi fa ridere pensarti che passeggi lì.
È vero, il Libraccio, quelle robe lì. Però può essere anche un limite perché uno di Palermo magari non ride… Secondo te cos’è che fa ridere di te? Quando tu scrivi un pezzo, come ti accorgi che il testo fa ridere? Come lo distingui da un pezzo che non fa ridere?
Quando fa ridere anche me. È banale. Tipo Amicone, il direttore di Tempi, una sera era da Lerner e ha detto, “No, io non capisco questa roba di definire lo spazzino come operatore ecologico, il nano lo svantaggiato verticale.” [ride] Fa ridere perché è comicità involontaria. Tu lo sapevi che si dice così? [ride] Lo svantaggiato verticale! Ha ha.
“È venuto qui a cercarla uno svantaggiato verticale.” “Chi?” “Uno svantaggiato verticale!” [ride] Che poi al massimo se non vuoi offenderlo lo chiami “nanetto”. No? Questo in uno spettacolo fa ridere.
Loro nemmeno si sono scomposti. Era parte di un discorso serio. Ma mi ha fatto molto ridere. Quindi quanto tu scrivi pensi, “Se fa ridere me, va bene.” Non hai un pubblico in testa.
No. Le robe che divertono me, presumo che divertano anche gli altri. Quello è il tuo metro.
Poi succedono robe strane. Una volta sono andato in provincia di Oristano a fare uno spettacolo e mi sono detto, “Io qua con i miei testi non vado da nessuna parte”. Ci credi, fu una delle serate migliori della mia vita. “Io qua, in provincia di Oristano, che parlo di Famagosta, del tram 2, dove vado? Per me stasera va male.” E invece, fu una serata memorabile, con i bis, non andò così bene nemmeno a Zelig. E non erano universitari, era gente normale, che non ti aspettavi. Ci sono molte sorprese che non ti aspetti. Per me era già tanto che non mi fischiassero. È stata la serata più bella che ho fatto nella mia vita.

Quando il pubblico risponde, ti aiuta?
Sì, quello aiuta. E se è freddo?
Vai avanti, il pubblico è generoso. È difficile che un pubblico fischi, è come al cinema, al massimo aspettano che tu finisca, in silenzio. Io non vado spesso a spettacoli di cabaret, ma anni fa sono andato a vedere Paolo Hendel che faceva battute già sentite, ma tutti morivano dal ridere e mi hanno contagiato. La risata è contagiosa.
Sì, quello sì. È chiaro che hai soddisfazione se vedi che il pubblico si diverte, se no poi diventa anche un comizio. Se con i pezzi sui pannelli solari, non ridono, è un problema. Il fatto che tu non faccia sempre ridere a molte persone per te è anche un gioco, una cosa che usi. O sbaglio?
Sì, metto le mani avanti, tanto quelli che non ridono non li tocco proprio. Non cerco di correre dietro a quelli lì. È anche legittimo. Anche perché se li segui rischi di smettere di piacere a quelli a cui facevi ridere.
Meglio, perché sono molti di più. [ride] Se così fosse mollerei i miei 5.000 per prendere il milione. Ma non si può. Quali sono i comici che ti hanno ispirato?
Io vedevo Cochi e Renato, il Drive-in, i primi Fantozzi, Boldi, Salvi… come mestiere. Grillo mi faceva molto ridere. 30 anni fa, a Non-stop. E adesso?
Corrado Guzzanti, Crozza, e poi… aiutami tu. Io amavo e amo tantissimo Frassica.
Sì è vero, lui faceva tanto, tanto ridere. Quelli che non ti piacciono? Tre nomi si possono fare?
Forse il Bagaglino, ma poi in realtà non è vero, perché Gullotta mi piace, Pippo Franco anche. Però sinceramente… possiamo fare il gioco di chi mi piace di più? Dai.
Non mi piace molto Celentano. Si formano dei gruppi tra i comici? Quelli che vanno d’accordo tra di loro e si fanno ridere a vicenda?
Sì. Io sono molto amico di Cornacchione, di Aldo, Giovanni e Giacomo, di Albanese. Anche con Max Pisu, siamo amici. Sei spesso definito come un comico che piace agli altri comici.
Sì, è vero. Lo dicono quando fanno le interviste, quando gli fanno queste domande qua. Secondo te, la tua comicità ha influenzato altri comici?
No, non credo. Siamo tutti coetanei. Io seguo Zelig, ma è più roba di animazione turistica. Anche per esempio questa roba dell’animazione, con i pupazzi di gommapiuma, vestiti da pirata. Mah. Non ho visto nessuno come me. Quello che fai tu, Carlo Barcellesi, con Maurizio Milani, l’hanno fatto anche altri comici, senza magari cambiare il nome come Banfi o Abatantuono o Pozzetto. Sono la versione esasperata di loro stessi: il pugliese, il terrunciello, il milanese. Questo filone non c’è più. Ora ci sarebbe solo tipo Maurizio Milani che fa Mauri il PR o Mauri il benzinaio.
Sì. Io vestito da canguro. Maurizio il cangurotto.

Foto di Alan Chies