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Una giornata coi migranti nella Stazione Centrale di Catania

A quasi un mese dall'accordo sui migranti tra Unione Europea e Turchia, e soprattutto dalla chiusura pressoché definitiva della rotta balcanica, la situazione in Sicilia sembra essere tornata indietro di due anni.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT

Uno sbarco nel porto di Catania. Foto per gentile concessione di Alessia Lai della Croce Rossa Italiana.

A distanza di quasi un mese dall'accordo sui migranti tra Unione Europea e Turchia, e soprattutto dalla chiusura pressoché definitiva della rotta balcanica, la situazione in Sicilia sembra essere tornata indietro di due anni.

Solo qualche giorno fa, più di 600 persone sono state salvate al largo delle coste libiche e fatte arrivare ai porti di Pozzallo e Augusta; stando agli ultimi dati del Viminale, inoltre, gli sbarchi nel 2016 hanno registrato un più 25 percento rispetto all'anno scorso—un numero che nei prossimi mesi è prevedibilmente destinato a salire. In sostanza, la blindatura dei confini orientali costringerà i migranti a partire nuovamente dalla Libia e quindi ad attraccare soprattutto nei porti siciliani.

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Il problema principale è che in Sicilia il sistema di accoglienza è sottoposto a una forte pressione. A Trapani, Pozzallo e Lampedusa gli hotspot—i nuovi centri di identificazione voluti dall'Unione Europea—hanno già mostrato tutti i loro limiti; i centri di accoglienza, invece, il più delle volte non riescono a gestire il costante afflusso di migranti.

Catania rappresenta un caso particolare. Nonostante sia stata designata come il quartier generale dell'agenzia europea Frontex per la "gestione della fase emergenziale degli arrivi di migranti," è l'unica grande città del Sud Italia senza un dormitorio comunale o pubblico—se si eccettuano le diocesi e le parrocchie. Questo vuol dire che, dopo un eventuale e breve periodo nei centri di accoglienza, i migranti che arrivano in città spesso e volentieri finiscono in strada. A essere più precisi, nella stazione centrale e nei suoi dintorni.

Per capire quale sia effettivamente la situazione a Catania, sono andato proprio lì, alla stazione, il luogo in cui i migranti vivono alla giornata "perché non hanno i mezzi per prendere un aereo e andarsene e la maggior parte di loro vuole restare in Europa, anche da illegali," come mi ha detto Alessia Lai, coordinatore della comunicazione sull'emergenza migranti per l'Emergency Appeal FICR.

Alessia Lai, a sinistra.

Foto dell'autore.

Io e Alessia ci siamo incontrati a ridosso di uno stradone trafficato, dal quale avevo notato un baracchino che poteva essere scambiato benissimo per quello di fruttivendolo ambulante, se non ci fosse stata accanto un'ambulanza della CRI.

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Anche se avevo intuito che si trattasse del safe point—"uno spazio informativo e di orientamento a servizi di assistenza sanitaria, di alfabetizzazione, di socialità" e di distribuzione di "kit igienici, vestiario, coperte" per i migranti—sono rimasto perplesso: avevo immaginato qualcosa di più strutturato.

In realtà, ripensandoci, quel contesto quasi di fortuna—composto da un tavolo, due panche e qualche volontario—era perfetto per attirare i migranti. Si trovava proprio accanto alla stazione, dove io avevo parcheggiato la macchina e la maggior parte dei migranti parcheggia la propria vita in attesa di una burocrazia che non comprende del tutto, tra panchine sulle quali dormire e la sede della Caritas dove alle 17 consuma l'unico pasto della giornata.

Le motivazioni per cui i migranti si trovano in questa situazione di sospensione sono diverse e partono tutte dall'identificazione al momento dello sbarco. A differenza degli hotspot, in cui chi transita deve fornire le impronte e viene di fatto trattenuto, a Catania i migranti vengono fotosegnalati e trasferiti in centri di prima accoglienza; nei casi in cui la loro richiesta di asilo venga respinta, finiscono molto spesso proprio alla Stazione. Sono quasi tutti provenienti dall'Africa Sub-sahariana, da "paesi terzi" considerati "sicuri"—ossia in cui non ci sarebbe la guerra.

Il safe point della Croce Rossa alla stazione centrale di Catania. Foto dell'autore.

Di fronte al mare e vicina al porto, per chi si trova in questa situazione la Stazione di Catania è una sorta di punto di snodo: se da un lato c'è chi ci trascorre le giornate per rimanere in Sicilia o comunque in Italia, dall'altro è il luogo da cui partono gli autobus per Roma e Milano, prime vere tappe per arrivare in Europa.

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Inoltre, una recente inchiesta della procura di Palermo ha portato alla luce l'esistenza di una rete di trafficanti di esseri umani che operava proprio alla stazione di Catania, con contatti sia in Libia che nelle città europee. Le donne e gli uomini, che molto spesso non parlano l'italiano, si interfacciano direttamente con loro e comprano biglietti e "pacchetti di viaggio" a un prezzo più che quintuplicato.

Per quanto riguarda i migranti che vivono per strada, Alessia mi ha spiegato che "o sono stati giudicati 'migranti economici' e hanno ricevuto il foglio di via, un documento in cui c'è scritto che entro 7 giorni dovranno abbandonare l'Italia; o hanno chiesto asilo successivamente, ma non sono stati ripresi in carico da una struttura di prima accoglienza e non hanno un posto dove stare; oppure hanno ricevuto il diniego e sono usciti dal circuito di protezione."

All'interno del safe point della CRI a Catania. Foto dell'autore.

In tutti questi casi, paradossalmente, i migranti finiscono in Stazione e preferiscono rimanerci, perché i tentativi di auto-organizzazione per trovare un alloggio tra connazionali non sempre vanno a buon fine. Ad esempio, lo scorso agosto è scoppiato un enorme incendio in un palazzo occupato da migranti e senzatetto, che come risultato ha portato al totale sgombero dello stabile e quindi costretto gli inquilini a tornare a vivere in strada.

Nonostante mi trovassi al safe point già da un po', i miei primi tentativi di parlare con qualche migrante non sono andati a buon fine: mentre un ragazzo proveniente dalla Guinea mi ha detto che sarebbe stato troppo doloroso ripercorrere la sua storia, un altro in risposta si è messo a dormire su una panchina.

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La maggior parte era disposta a parlare soltanto con Mamadou, un mediatore culturale di CRI. Mamadou è arrivato su un barcone a Lampedusa nel 2011 dal Senegal, e dopo un anno passato in un centro a Napoli è stato trasferito a Catania. Qui ha frequentato una scuola serale, preso il diploma di terza media e a poco a poco è riuscito a costruirsi una nuova vita.

Grazie a lui sono riuscito a entrare in contatto con un ragazzo del Mali da poco maggiorenne e con il permesso di soggiorno. Voleva vivere in Germania, ma è stato respinto ed è tornato in Italia. Anche se non ha voluto dirmi il suo nome, mi ha spiegato di essere passato al safe point per avere delle delucidazioni su come poter ottenere la carta di identità.

Mamadou, mediatore della CRI. Foto di Alessia Lai.

Oltre a offrire un orientamento legale e sanitario, uno dei servizi più utili del safe point è il RFL (Restoring Family Links), grazie al quale un migrante viene aiutato a riprendere i contatti con la famiglia di cui ha perso le tracce.

"Chi fa richiesta ha due alternative: o inserisce la sua foto in 'trade the face,' un grande poster in cui la propria immagine circola all'interno del circuito di Croce Rossa sul sito europeo, oppure compila un Treasing con le sue informazioni anagrafiche e quelle di chi sta cercando," mi ha spiegato il responsabile ufficio RFL di Catania Silvia Dizzia. "Una volta spedito alla sede di Roma, le informazioni inserite in questo documento verranno notificate alla CRI nello stato europeo o africano in cui si vuole rintracciare il proprio familiare."

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Alcune volte, però, accade anche il contrario. "Può capitare il caso limite in cui il figlio di qualcuno sia partito per esempio, dal Cairo, ma non sia arrivato vivo. Quindi, tramite le autorità, mandiamo delle foto per l'identificazione del corpo alla famiglia."

Mentre osservavo un modulo di Treasing vuoto, inaspettatamente un ragazzo mi ha chiesto cosa ci facessi lì. Era Babacar, un ventottenne senegalese che vive in Italia da circa sette anni, lavora come muratore tre/quattro giorni a settimana e può permettersi di condivide un appartamento con altri due ragazzi di Dakar in una zona abbastanza centrale di Catania.

"Io sono stato fortunato, perché appena sono arrivato ho trovato lavoro in un ristorante ad Agrigento e ho avuto la possibilità di fare i documenti," mi ha spiegato. Quando il locale però ha chiuso, Babacar ha deciso di trasferirsi qui. Dopo aver finito i soldi e dormito per due giorni in strada, è stato aiutato da un gruppo di connazionali incontrati al mercato.

"Passo spesso dalla Stazione e aiuto come posso," mi racconta. "Quando so che qualcuno cerca personale passo. L'ultima volta, per esempio, ho dato il mio cellulare a un ragazzo malese che non parlava con la famiglia da tre mesi e alla fine era felicissimo. Nel mio piccolo cerco di dare una mano, perché non dimentico mai che qualcuno ha aiutato me per primo. L'Europa è difficile per tutti."

Babacar alla stazione centrale di Catania. Foto dell'autore.

L'ultima battuta di Babacar ha reso chiaro che se una bella storia come la sua è stata difficile, quelle dei migranti considerati irregolari lo sono ancora di più. Quando gli ho chiesto perché nessuno di loro avesse voluto parlare con me, mi ha detto che si trattava di paura mista a limiti linguistici, ma che anche la Reflex al collo non aiutava. Il timore di essere identificati e spediti indietro è forte.

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Poco dopo, uno dei tanti amici di Babacar che passava di lì—bazzicano tutti in Stazione—ha accettato di parlare con me. Sako ha 22 anni e anche lui è originario del Senegal. Durante questi primi quattro mesi in Italia ha dormito per strada, parla poco l'italiano, mangia ogni giorno alla Caritas e ha compilato con la CRI "i documenti, ma il processo è lungo" e deve aspettare. Spera di trovare presto un lavoro, una casa e di "dormire tranquillo."

Migranti al porto di Augusta. Foto di Alessia Lai.

Come mi ha spiegato più tardi il Presidente CRI di Catania, Stefano Principato, uno dei loro compiti, anche se per vie traverse, è di "trovare una soluzione" alle richieste respinte. Se un migrante non può essere considerato un rifugiato politico, e non è idoneo a usufruire della sussidiaria, può provare ad avvalersi delle protezione umanitaria della durata di due anni. In sostanza, se non sei considerato un perseguitato politico, o in pericolo di vita, in quanto il tuo paese non è in guerra, puoi provare almeno a chiarire che hai affrontato un viaggio in cui hai rischiato la vita.

Oltre ai consulti legali e al supporto durante gli sbarchi, "noi di CRI abbiamo capito però che dovevamo fare qualcosa in più, per questo sono nati i safe point," ha detto Stefano. "La cosa più importante è che si dimentica molto spesso che i migranti sono persone, persone ai margini, lontane dalle famiglie, il più delle volte sole. Anche se non abbiamo la possibilità di poter fornire soluzioni abitative, offriamo un supporto, un ritrovo, una semplice parola di conforto, perché nessuno dovrebbe mai essere privato del contatto umano di cui tutti abbiamo bisogno."

E in effetti, per quanto la Stazione Centrale di Catania sia uno dei tanti luoghi d'Italia in cui sono drammaticamente visibili gli effetti di alcune scelte politiche, l'atmosfera attorno al safe point mi è sembrata fino alla fine distesa. Come se quelle mezze giornate di martedì e giovedì potessero dare conforto e speranza a chi ne ha bisogno.

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