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Cosa non abbiamo imparato dal cinema di Claudio Caligari

Con soli due film, Caligari è stato capace di zittire vaste generazioni successive di autori italiani innovativi ed engagé. E dopo la sua scomparsa, questa è soltanto una delle cose su cui il suo cinema deve farci riflettere.

Una scena di

Amore Tossico, di Claudio Caligari, morto ieri all'età di 67 anni.

C'è un'intervista in cui Caligari racconta che ha cominciato a girare le prime immagini riguardanti l'eroina sul finire degli anni Settanta, nei Circoli Proletari Giovanili che lui stesso frequentava.

Spiega che entrava nelle stanze e c'erano un sacco di persone buttate per terra, una scena che fu la prima cosa a cui pensò quando molti anni dopo la rivide identica, però in un film in cui i protagonisti erano fatti di crack ed erano americani, Jungle Fever di Spike Lee.

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In questo aneddoto ci sono più o meno tutti i riferimenti fondamentali del cinema di Caligari, dall'approccio documentaristico e militante, all'estetica americana, un po' cowboy—"l'incrocio fra Scorsese e Pasolini" dice nella stessa intervista, ed è una definizione perfetta.

L'interesse nel raccontare la droga che poi è diventato la sua opera di culto, Amore Tossico, nasce in maniera assolutamente naturale, visto che nell'Italia del 77 l'eroina si diffondeva nelle realtà politiche giovanili a una velocità sconfortante, facendo esplodere all'unisono tutte le possibili speranze di un futuro per Autonomia o anche semplicemente di coesione ed effettività dell'azione politica.

Questo processo di distruzione totale a velocità fotonica viene raccontato in Amore Tossico in maniera violenta ed onesta, con tutte le caratteristiche che l'hanno poi reso immortale: una è l'uso di attori non professionisti, ma di tossicodipendenti che Caligari ha passato mesi a seguire e conoscere prima di girare, per fare in modo che si potessero aprire con lui e portare loro stessi il materiale narrativo su cui lavorare.

Un'altra è il linguaggio dei protagonisti: non fa nessuno sforzo di andare incontro allo spettatore, limitandosi a registrare lo slang dei tossici delle periferie romane senza alcun filtro né di decenza né di comprensibilità. È uno degli elementi più immediati e d'impatto del film—lo stesso termine "tossico" è diventato di uso comune in Italia dopo il successo clamoroso del film, per dire.

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Una cosa che colpisce rispetto ai (pochi) altri film dell'epoca sul tema è l'assoluta mancanza di auto censura o di giudizio verso i personaggi. Caligari non prova mai a giustificare le azioni di Cesare o degli altri né prova a dargli una qualche direzione forzando il significato degli eventi, intuendo che è questo a rendere il film davvero politico e disturbante per chi guarda—il fatto che non ci sia nessuna intenzione di edulcorare la realtà, nessuna intenzione di aggiungere un piano di fruibilità specifico per lo spettatore all'interno della storia.

È difficile paragonare Amore Tossico con altri film sulle droghe, anche venuti molto dopo. Anche nei più riusciti quasi sempre manca l'immersione totale e fastidiosa nell'acqua bollente a cui ti costringe la storia di Caligari durante tutta la visione. In compenso quasi tutti contengono—nel migliore dei casi—una sorta di epica del farsi piuttosto artificiosa e virata su significati più rassicuranti di un blando ribellismo esistenziale borghese e abbastanza vuoto, ma tutto sommato molto più colorato, pulito e distribuibile nelle sale.

Dopo Amore Tossico ci sono stati moltissimi anni di silenzio, non necessariamente volontario. Il cinema militante si andava esaurendo non solo come forma espressiva, ma anche come rete operativa. Il mercato istituzionale del cinema italiano, nonostante il grande successo del primo film, non era esattamente in attesa con le braccia spalancate.

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Il secondo film di Caligari, L'odore della notte, esce nel 1998 e ha fra i protagonisti Valerio Mastandrea, che un sacco di anni dopo diventerà il produttore dell'ultimo film di Caligari (le cui riprese sono terminate poco tempo fa e che tutti speriamo fortissimo uscirà postumo nella migliore forma possibile).

La difficoltà che ha avuto nel tempo Claudio Caligari a portare al grande pubblico i suoi film, nonostante l'indiscutibile e riconosciuta qualità delle sue opere, non è esattamente inspiegabile. Una cosa molto evidente che viene fuori dal suo approccio al cinema è l'idea che per raccontare compiutamente un fenomeno sociale—ma anche solo qualcosa di veritiero su un essere umano—si deve essere disposti ad affrontarne anche le parti respingenti e difficili da guardare, che non è proprio un concetto molto amato dal pubblico borghese che siamo noi tutti.

Onestamente mi sforzo, ma non riesco a immaginare in nessun modo un'integrazione delle opere o delle istanze di Caligari nel sistema culturale gommoso e idrorepellente che ci siamo costruiti nel tempo. Il tipo di impegno intellettuale attivo espresso da Caligari ha il potere di provocare una dissenteria fulminante e potenzialmente fatale a tutti i Fabio Fazio e i Jovanotti nell'arco di miglia, si capirà dunque perché va gestito con prudenza.

Credo comunque che uno dei punti più importanti rimanga il senso che Caligari dava all'onestà intellettuale del racconto, come strumento di lotta e di verità, e anche come con soli due film sia stato capace di zittire vaste generazioni successive di autori italiani innovativi ed engagé potrebbe—forse—rivelarsi qualcosa su cui farsi delle domande.

Ma adesso l'importante è tornare a concentrarsi tutti insieme sui reali problemi del nostro cinema, chiaramente consistenti nel fatto che sia stato ingiustamente snobbato nei festival che contano, perché comunque come si sono permessi a non dare neanche un premio a un italiano.

Quelle merde dei francesi.

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