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Dopo 50 anni, il caso del Mostro di Firenze è ancora un enorme mistero

Dopo quasi 50 anni dal primo duplice omicidio legato al caso, la vicenda del Mostro di Firenze è ancora aperta, e alcune recenti rivelazioni potrebbero ribaltare le accuse contro Pacciani e i Compagni di Merende.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Pietro Pacciani. Immagine via Facebook.

Nella giornata di ieri, 1 marzo 2017, è stata diramata la notizia della morte di Fernando Pucci, l'ultimo "compagno di merende" ancora in vita. La testimonianza di Pucci—che durante il processo era diventato noto come "teste Alfa"—era stata decisiva per la condanna in primo grado di Pacciani, Vanni e degli altri compagni di merende. Per questo motivo abbiamo deciso quindi di riproporre questo articolo, in cui è riassunta l'intera vicenda. 

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Senza dubbio quella del Mostro di Firenze è stata la vicenda di cronaca nera più famosa e dibattuta d'Italia: un agglomerato di psicosi, delitti maniacali, voyeurismo, presunti colpevoli e teorie investigative che ha legato otto duplici omicidi in un periodo storico durato oltre 17 anni, e che continua a propagarsi ancora oggi attraverso libri in continua uscita, forum e canali YouTube interamente dedicati all'argomento.

Per chi fosse digiuno della questione, quello del Mostro di Firenze è stato un caso di assassino seriale maniacale le cui modalità di esecuzione erano quasi da manuale: il killer—che ha operato presumibilmente dalla fine degli anni Sessanta fino al 1985—aggrediva coppiette appartate in macchina in zone isolate delle campagne attorno a Firenze e in procinto di avere rapporti sessuali, sempre in notti di novilunio che precedevano giorni festivi. Per compiere i delitti ha sempre utilizzato la stessa pistola, una Beretta calibro 22 Long Rifle caricata con proiettili Winchester serie H provenienti da due scatole da 50 colpi. Dopo aver ucciso le vittime il killer allontanava la donna dal compagno, e con un coltello—dalle perizie del medico legale Mauro Maurri, un coltello da sub—le asportava il pube e il seno sinistro. Terminato questo rituale, poi, si accaniva ancora sul cadavere maschile sferrandogli qualche coltellata.

Al di là delle modalità, il motivo di tanta mitizzazione a livello di massa, è dovuto principalmente al fatto che quello del Mostro di Firenze è stato il primo caso di serial killer mediatico della storia italiana: il primo in grado di eguagliare a livello di attenzione e iconografia casi americani come quelli di Ted Bundy, John Gacy e Richard Ramirez, alla cui caccia si è dato un rilievo televisivo mai visto prima—cosa che in un certo senso ha lanciato la figura del superpoliziotto anche in Italia, con esempi come Ruggero Perugini e Michele Giuttari—e il cui processo è diventato celebre a causa di una serie di situazioni grottesche—la poesia di Pietro Pacciani in aula, l'inno al Duce di Mario Vanni, le deposizioni esilaranti e le teorie esoteriche e macabre di alcuni testimoni.

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Il secondo motivo che spinge l'interesse ancora oggi, invece, è che nonostante Pietro Pacciani e i "Compagni di Merende" siano generalmente—e ufficialmente, dalle procure di Firenze e Perugia—considerati quantomeno gli esecutori materiali di almeno quattro degli otto duplici omicidi, il caso è piuttosto controverso, e secondo moltissimi esperti, figure professionali coinvolte direttamente nella vicenda, e appassionati di cronaca nera, non si è mai giunti a individuare neanche uno dei reali colpevoli. Molte di queste teorie si basano su un fatto incontrovertibile: la pistola utilizzata in tutti gli omicidi legati al caso, la Beretta calibro 22, non è mai stata trovata; e non ci sono prove che fosse in possesso né di Pacciani, né di nessuno dei Compagni di Merende.

Il caso in realtà sarebbe ancora aperto, dopo quasi mezzo secolo, almeno per quanto riguarda la famosa teoria dei mandanti (coloro che avrebbero incaricato Pacciani di commettere gli omicidi) e a quanto pare il Ros dei carabinieri di Firenze starebbe seguendo una pista legata a un imprenditore tessile di origine tedesca. Secondo altri invece la verità sarebbe incanalata altrove, e a questo proposito i carabinieri avrebbero nuovamente sottoposto all'attenzione di alcuni medici legali la documentazione dell'ultimo duplice omicidio del 1985, spinti anche dalle rivelazioni scaturite dal documentario Scopeti - L'ultimo delitto del Mostro, realizzato dal regista Paolo Cochi e in seguito dalle azioni che l'avvocato fiorentino Vieri Adriani ha messo in atto negli ultimi anni per mandato dei parenti delle ultime due vittime. Secondo la ricostruzioni di Cochi, infatti, ottenute tramite perizie professionali, nell'ultimo duplice omicidio ci sarebbero delle evidenze che smonterebbero totalmente l'impianto accusatorio verso i Compagni di Merende.

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Pietro Pacciani al processo. Immagine via Facebook.

Per capire in che modo, dobbiamo un attimo focalizzarci sulle dinamiche che hanno portato alle sentenze passate in giudicato di Mario Vanni e Giancarlo Lotti.

Nel 1984 era stata istituita una squadra speciale per indagare sugli omicidi del Mostro, la SAM (Squadra Anti Mostro), diretta da Ruggero Perugini: all'epoca la psicosi collettiva era totale, e procura e giornalisti ricevevano quotidianamente segnalazioni da parte di privati cittadini su chi potesse essere il vero colpevole. Nel 1985 una lettera anonima aveva suggerito sospetti su un contadino di Mercatale, Pietro Pacciani, che l'anno successivo finì in carcere a causa delle accuse di abusi sessuali da parte delle figlie.

Fu in quel periodo che Pacciani entrò nel mirino della SAM, e nel 1991 divenne il principale sospettato: i motivi che spinsero Perugini a concentrarsi su Pacciani erano in buona parte dovuti al suo profilo psicologico e ai suoi trascorsi giudiziari. Pacciani era un uomo violento—come risultò anche nel processo—sessualmente deviato e noto guardone, ma soprattutto nel 1951 era finito in carcere con l'accusa di omicidio. Pacciani aveva sorpreso l'allora fidanzata in compagnia di un altro uomo, e dopo aver ucciso quest'ultimo con molteplici coltellate aveva obbligato la fidanzata ad avere un rapporto sessuale davanti al cadavere.

Il particolare determinante che diede il via alla vicenda Pacciani, però, era legato a una dichiarazione che lui stesso aveva fatto ai carabinieri durante l'interrogatorio del 1951: "Ho visto la mia ragazza che mostrava il seno sinistro all'altro uomo, e sono stato preso da una rabbia furiosa." Il riferimento al seno sinistro, l'allontanamento dall'amante e l'accanimento verso il cadavere maschile secondo la SAM erano tutti particolari che facevano combaciare il profilo di Pacciani a quello del Mostro di Firenze (nel video caricato poco sopra, infatti, Ruggero Perugini si sta riferendo a Pacciani quando parla di "incubo di tanti anni fa"). Le prove esistenti contro Pacciani, però, si dimostrarono insufficienti durante il processo, e dopo una condanna in primo grado, un'assoluzione in appello e un annullamento del processo in cassazione, entrarono nelle dinamiche del Mostro di Firenze Giancarlo Lotti e Fernando Pucci, amici di Pacciani, che allora venivano definiti i testimoni "Alfa" e "Beta" del processo, ma che poi, insieme a Mario Vanni, divennero i Compagni di Merende.

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Lotti e Pucci erano notoriamente affetti da ritardo e disturbi mentali—Pucci era invalido al 100 percento in quanto affetto da oligofrenia—ma le loro testimonianze furono determinanti per arrivare alle condanne di Vanni e Lotti—Pacciani era morto nel 1998—perché appunto Giancarlo Lotti si autoaccusò (accusando allo stesso tempo Pacciani e Vanni) di quattro degli otto duplici omicidi, pur contraddicendosi numerose volte e non riuscendo a fornire elementi oggettivi. In particolare la sua testimonianza divenne decisiva perché riuscì a ricostruire l'ultimo duplice omicidio del 1985, spiegando come e quando era avvenuto: domenica 8 settembre.

E qui arriviamo alla ricostruzione dell'avvocato Vieri Adriani e alle perizie che smonterebbero questa tesi: sul corpo di Nadine Mauriot, l'ultima vittima femminile, furono trovate delle larve di mosca, che secondo gli anatomopatologi hanno bisogno di più di 24 ore per formarsi su un cadavere. Inoltre il giorno del ritrovamento da parte della polizia, il corpo senza vita della donna era stato mosso per verificare l'escissione del pube, vanificando la perizia sul rigor mortis che sarebbe stata in grado di determinare l'ora della morte con precisione. Secondo queste ricostruzioni, quindi, il giorno dell'ultimo duplice omicidio sarebbe stato sabato 7 settembre, e non domenica: particolare che smonterebbe in modo netto l'attendibilità di Lotti come testimone e potrebbe essere in grado di cancellare vent'anni di indagini.

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Ma nel caso in cui il processo dovesse realmente riaprirsi, ipotesi che per adesso è piuttosto peregrina, quale pista alternativa potrebbe essere percorribile? Per Mario Spezi, giornalista che segue il caso dal duplice omicidio del 1981 e autore con Douglas Preston del libro Dolci Colline di Sangue - Il Romanzo sul Mostro di Firenze, l'unico appiglio concreto per individuare il reale colpevole è soltanto uno, la pistola.

"Stranamente questo venne considerato un fattore secondario da chi condannò i Compagni di Merende, e lo è ancora per quelli che continuano a ritenerli colpevoli," mi ha detto quando l'ho sentito al telefono, qualche giorno fa. La ricerca della pistola, poi, secondo Spezi, porterebbe sulle tracce di un uomo che nella vita reale ha un nome e un cognome, ma che nel suo libro il giornalista per motivi legali chiama "Carlo": un uomo nato alla fine degli anni Cinquanta, figlio di uno dei personaggi coinvolti in questa vicenda, e che attualmente è ancora in vita. Questa ipotesi sarebbe stata suggerita a Spezi dai carabinieri stessi, all'inizio degli anni Duemila: "io avevo mantenuto dei buoni rapporti con i carabinieri, che in quegli anni stavano continuando le loro indagini. E furono proprio loro a dirmi che esisteva una denuncia, fatta da uno dei protagonisti della vicenda, che porterebbe al personaggio di 'Carlo'."

La Beretta calibro 22, e i proiettili Winchester serie H, diventano una costante dei delitti del Mostro già nell'ottobre del 1981, all'epoca di quello che la procura di Firenze considerava temporaneamente il terzo duplice omicidio legato al caso: un esame balistico approfondito, infatti, aveva dimostrato che il percussore della pistola marcava i bossoli dei proiettili nello stesso identico modo, e quindi il Mostro aveva sempre utilizzato quell'arma (sia nei delitti del 1974 che in quello del 1981).

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Nel 1982 però, dopo il quarto delitto, secondo le ricostruzioni ufficiali, un maresciallo che negli anni Sessanta prestava servizio a Signa, e che di cognome faceva Fiori, si ricordò di un altro caso del genere avvenuto nella cittadina nel 1968, il cui fascicolo era in mano alla procura di Perugia, che l'aveva gestito. Da quanto si ricordava la dinamica degli omicidi era molto simile, quindi decise di riprendere in mano il fascicolo e trovò repertati dei proiettili marca Winchester serie H segnati dallo stesso percussore. Anche in quel caso si era trattato di un duplice omicidio—quando furono uccise le vittime, Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, si erano appartate in macchina per fare l'amore dopo essere state al cinema, con il figlio Natalino che dormiva sul sedile posteriore. Quello del 1968, quindi, sarebbe stato il primo delitto del Mostro.

Mario Spezi, però, offre una versione decisamente diversa di come andarono le cose nel 1982. "Quello che all'epoca era il giudice istruttore, il colonnello Olinto Dell'Amico, mi firmò una dichiarazione—che conservo ancora—in cui mi confidava che a riportare l'attenzione sul delitto del 1968 non fu un ricordo di Fiori, ma una lettera anonima che conteneva un articolo di giornale dell'epoca, su cui c'era scritto 'andatevi a rivedere questo caso a Perugia'."

"Questo particolare è molto importante," ha continuato Spezi," perché getta una luce diversa su quanto avvenuto in quell'occasione. Chi, se non qualcuno che sapeva come erano andate le cose all'epoca ed era coinvolto in qualche modo, avrebbe conservato un articolo di giornale su un fatto di cronaca nera di 14 anni prima? Come se non bastasse, poi, chi lo inviò era a conoscenza di particolari importanti sul caso del '68, come il fatto che fosse stato seguito dalla procura di Perugia, e che i proiettili sarebbero stati compatibili."

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Per quel duplice omicidio, però, era già stato individuato un colpevole: il marito di Barbara Locci, Stefano Mele, che avrebbe ucciso la moglie per gelosia. Una conclusione di per sé strana, perché la Locci, secondo le testimonianze di varie persone, durante il loro matrimonio aveva avuto una serie infinita di amanti—in paese veniva soprannominata l'Ape Regina—e alcuni di questi avevano vissuto addirittura con la coppia con il benestare del marito. La ricostruzione di quell'omicidio, però, fu piuttosto complicata: Mele dimostrò di essere stato presente sul luogo del delitto quella notte, ma durante gli interrogatori accusò diverse persone di aver compiuto materialmente l'omicidio. Fra questi c'era Salvatore Vinci, un uomo di origine sarda che era stato uno degli amanti della Locci, e che per un periodo aveva abitato nella loro casa, instaurando con Barbara un rapporto morboso.

Alla fine Mele—dopo un confronto faccia a faccia—aveva scagionato Vinci prendendosi tutta la colpa, ma anni dopo, intervistato da Spezi, era tornato a far pensare che quella sera ci fossero più persone presenti sulla scena del delitto, e che la pistola per uccidere la moglie e il suo amante gliela avesse fornita proprio Vinci. Queste dichiarazioni non furono le sole a testimoniare la presenza di Vinci la notte del duplice omicidio del '68: quella notte infatti era presente anche Natalino Mele, figlio della Locci e di Stefano Mele, che in un'intervista registrata anni dopo da Spezi per conto di Chi l'Ha Visto? dichiarò che in quell'occasione aveva visto sia suo padre che Salvatore Vinci sulla scena del delitto, ma che gli era stato raccomandato da sua zia di non dire niente al processo.

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Secondo questa ricostruzione, quindi, la pistola che sparò quella notte apparteneva a Salvatore Vinci. Quanto raccolto da Spezi in anni di inchieste giornalistiche ed interviste, quindi, potrebbe far pensare che sia quest'ultimo il Mostro di Firenze. Eppure esistono delle differenze molto evidenti fra il delitto del 68' e i successivi.

Gli omicidi di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco non furono di stampo maniacale. "Barbara Locci venne uccisa con un movente, in quanto non solo aveva numerosi amanti, ma prestava a quest'ultimi ingenti somme di denaro appartenenti alla famiglia di Mele," mi ha detto Mario Spezi. Sul corpo delle vittime, poi, non c'erano tracce di nessun rituale: nessuna escissione di seno e pube, nessun oltraggio sul cadavere maschile. L'unico dettaglio che collegherebbe questo caso con i successivi sarebbe la Beretta calibro 22 e i bossoli dei proiettili.

La pistola, quindi, deve essere passata di mano. Ed è qui che la teoria di Spezi si concentra sul personaggio di "Carlo": Salvatore Vinci aveva un figlio, che portò con sé in Toscana dalla Sardegna dopo la morte prematura della moglie; un ragazzo con cui aveva un pessimo rapporto e che dopo un litigio—in cui gli sarebbe stato puntato un coltello alla gola—aveva cacciato di casa. "Carlo" si era rifugiato dallo zio, Francesco Vinci, un individuo con piccoli precedenti penali che a sua volta fu poi trattenuto in carcere perché sospettato di essere il Mostro di Firenze.

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Nel 1974, però, quattro mesi prima del secondo duplice omicidio legato al Mostro di Firenze—il primo vero delitto del Mostro secondo Spezi—Salvatore Vinci aveva denunciato alla polizia di Firenze un'effrazione con furto della sua abitazione da parte del figlio "in cui non aveva saputo spiegare cosa gli fosse stato sottratto," spiega Spezi in varie interviste. Ed è proprio in questa occasione, secondo la teoria del giornalista, che "Carlo" si appropria della pistola.

Nel settembre di quell'anno la Beretta calibro 22 uccise Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, e sul corpo della ragazza venne praticata la prima escissione del pube che avrebbe reso macabramente famoso il Mostro di Firenze. Dopo averla uccisa, poi, l'assassino aveva affondato lievemente la punta del coltello sul suo corpo per 94 volte, disegnando un percorso che dallo sterno arrivava fino al pube; un dettaglio che secondo Spezi diversifica questo delitto non solo da quello del 1968, per la sua matrice maniacale, ma rende il profilo dell'assassino molto diverso da quello di Pietro Pacciani.

"Pacciani nel 1951 aveva ucciso in modo non premeditato e aveva colpito il rivale con una furia selvaggia—che non è riscontrabile nel Mostro di Firenze—in modo disorganizzato e rozzo, lasciando tutte le prove possibili. Il Mostro non lasciava prove, era freddo e pulito nei suoi rituali anche quando necessitavano di tempo," mi ha chiarito Spezi. "Ma non solo, Pacciani dopo l'omicidio obbligò la fidanzata ad un atto sessuale: il Mostro di Firenze non faceva mai niente di sessuale alle proprie vittime, un particolare che suggerirebbe una sua presunta impotenza. E il personaggio di 'Carlo' ha alle spalle un matrimonio annullato per insufficienza sessuale denunciata dalla moglie."

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Ma i particolari che secondo Spezi renderebbero il profilo di "Carlo" molto più simile a quello del Mostro di Pacciani sono anche altri: "'Carlo' da piccolo assistette all'omicidio della madre, e ha sempre sofferto moltissimo dell'assenza della figura materna. È vissuto in un ambiente, prima con il padre e poi con lo zio Francesco, fatto di disordini sessuali e di grande degerazione. Tanto che a 14 anni se ne andò di casa per un litigio violentissimo. Conosceva benissimo la zona del Mugello, dove vennero perpetrati gli omicidi, ed è sempre vissuto a non più di 3-4 chilometri dai luoghi dei delitti. Nel 1974 poi, dopo il duplice omicidio, 'Carlo' lascia Firenze per trasferirsi in Sardegna: in quel lasso di tempo i delitti del Mostro si interrompono, ricominciando nel 1981, anno in cui 'Carlo' torna a vivere in Toscana."

L'identikit del Mostro di Firenze pubblicato dalla polizia nel 1981. Immagine via Facebook.

Ora: può lasciare piuttosto basiti il fatto che nonostante Spezi abbia esposto questa teoria—basata su deduzioni e non su prove concrete, come specificato spesso anche da Spezi—in svariate occasioni televisive, e che l'abbia argomentata in un libro tradotto anche negli Stati Uniti, utilizzando in quel caso il vero nome di "Carlo", non sia mai stato querelato. Ma leggendo il finale del libro si scopre che non solo Spezi ha ricostruito la vita e i sospetti su "Carlo": alla fine di questo lavoro, nei primi anni Duemila, lo ha anche intervistato.

Dopo averlo raggiunto presso la sua abitazione vicino Firenze, insieme al coautore Douglas Preston, Spezi ha interrogato "Carlo" sugli avvenimenti di quegli anni, e sui personaggi che aveva attorno. In quella occasione, secondo quanto si legge nel libro, Carlo riconosce immediatamente Spezi, facendolo entrare in casa con piacere, e si dimostra disponibile a parlare.

"Si prese gioco di noi per buona parte del tempo, sorridendo alla nostre domande incalzanti e rispondendo in un modo che sembrava quasi voler alimentare i nostri sospetti. Anche se alle domande esplicite ha sempre risposto negando. A un certo punto, però, parlando del litigio con il padre, Salvatore Vinci, 'Carlo' si lasciò sfuggire un particolare che ci lasciò di sasso : 'Una volta [io e mio padre] avemmo una rissa, e io lo bloccai al muro, piantandogli alla gola il mio coltello da sub'."

Quella di Spezi, comunque, è soltanto una delle innumerevoli ricostruzioni e deduzioni sulle eventuali piste alternative a quella dei Compagni di Merende: c'è chi ipotizza che il Mostro in realtà fosse un uomo in divisa, che poteva manipolare le indagini; chi crede che dietro a tutta la vicenda ci fosse una setta che utilizzava le escissioni del Mostro per compiere dei riti esoterici; e chi addirittura arriva a ipotizzare che il Mostro di Firenze fosse un fantomatico medico svizzero che grazie ad alcune pergamene egizie era riuscito a mummificare la figlia, ma che non potendo mummificare anche le mucose aveva bisogno delle escissioni del pube per applicarle alla mummia.

Tutte queste supposizioni entrano comunque nell'ottica di una vicenda di cronaca nera che non ha precedenti nella storia italiana, né per le controversie del caso, né per le modalità con cui è stata raccontata e vissuta. Ma che soprattutto non è ancora chiusa dopo quasi 50 anni.

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