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Música

Buttate via le chitarre (di nuovo)

O perché per la musica elettronica il periodo attuale è il migliore da molto tempo a questa parte.

Emptyset live @Unsound 2012, foto di Niccolò Cevenini

Musicalmente parlando, il proverbiale “orlo del collasso” è stato sorpassato da tempo: siamo oltre la crisi, in uno stato di caos totale che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si sta traducendo in uno dei periodi più prolifici e creativi da molti anni a questa parte. “Tempi interessanti”, come dicono i cinesi per mandarti a morire ammazzato ma anche—Žižek insegna—un’epoca la cui stessa instabilità offre enormi opportunità. Sto parlando, in particolare, di un mondo che per pura comodità definiremo “musica elettronica”, fino a poco tempo fa rigidamente organizzato in aree di genere, prima fra tutte quella tra la roba da ballare e quella più astratta, rumorosa, “sperimentale” (aggettivo ormai più imbarazzante che altro). L’atteggiamento ipercontemporaneo, appunto, ha iniziato a guardare oltre la fissa di far muovere il culo, oltre le pugnette di una certa avanguardia, e anche oltre l’ignoranza e la caciara a tutti i costi del noise, mentre paradossalmente le accetta tutte e tre insieme. Ipercontemporaneo, appunto, eppure certi atteggiamenti erano stati già previsti negli anni Novanta, quando l’elettronica “per tutti” era ancora adolescente, e certi miscugli non facevano neanche troppo strano. Si parlava tanto, infatti, di “Intelligent Dance Music” (IDM), una forma di techno incapace di limitarsi alla strutture-base della cassa dritta col bassone, a cui stavano stretti anche i tempi spezzati della drum’n’bass. Una forma di apertura mentale però tradita dalle star del genere, a una certa scivolati in un pozzo senza fondo di seghe mentali autoreferenziali, primo fra tutti l'ormai bollitissimo Aphex Twin. Ci fu anche un altro fenomeno, però, molto più di nicchia e per questo anche invecchiato meglio, che rispondeva al nome di Isolazionismo. La nascita del “movimento” fu segnata dalla compilation del ’94 intitolata, appunto, Ambient 4: Isolationism. Curatore della faccenda era Kevin Martin, oggi noto a tanti come The Bug, che allegò al dischetto anche un breve saggio in cui spiegava in cosa quella musica fosse diversa dal resto della Ambient in circolazione. Secondo Martin quella era musica fatta da gente che, tappata in studio senza comunicazione con l’esterno, cercava di manipolare il flusso di informazioni a cui veniamo sottoposti ogni giorno dai media, filtrandolo attraverso le loro ossessioni private. Tornando ai nostri tempi, se da una parte l’onnipresenza di computer e smartphone ci spinge tutti verso una forma continua di isolazionismo, allo stesso tempo internet ha reso impossibile non comunicare sempre, mettere un freno all’informazione che ci si riversa in testa. Una condizione, questa, esplorata molto bene da James Ferraro nel suo Farside Virtual e, più recentemente, dai videogiochi apocalittici di Fatima Al-Qadiri e Gatekeeper. Una condizione che ha generato il collasso di cui parlavamo prima, e che invita a fare musica usando le scorie, intese sia come i rimasugli di quelli che un tempo si chiamavano “generi musicali” ora ridotti più che altro allo spettro di un’estetica e/o di un’epoca, sia come oggetti sonori di scarto. Dai rumori d’ambiente ai riff tamarroni delle più becere forme di house che ti sono passate per le orecchie da ragazzino: tutto fa brodo e parte di un immenso calderone  di esperienze. È molto liberatorio, dopo anni di virtuosismi dance, ascoltare artisti che vengono dal noise buttarsi sulla cassa dritta e sfruttare la loro stessa incompetenza nell'ambito come un vantaggio e non un handicap. Un esempio su tutti: Pete Swanson. Un'attitudine che si esprime in mille modi diversi: dalle tastierine analogiche di Heatsick alla violenza terzomondista di Vatican Shadow e Cut Hands alla post-dubstep erotica e ansiosa di Andy Stott e Vessel e al noise ritmico degli Emptyset... E poi ancora: house dilatata e fosforescente, techno post-industriale, rumori acidi sbriciolati, dub esoterico o narcotico, archeologia musicale, missioni nell'oltrespazio e ambient da fattanza. Soprattutto è un fiorire di label dall’identità fortissima nonostante la varietà di suoni che spingono, su tutte Blackest Ever Black, Tri Angle, Spectrum Spools, Modern Love e PAN Act. Sonoramente, l’unica caratteristica rintracciabile in tutti questi artisti è quel sottile livello di paranoia dato dalla ripetitività, atmosfera perfetta per gli anni più incasinati dell’epoca informatica, come se la liberazione si ottenesse attraverso l'overload o l'overdose, la disintegrazione dell'identità.
Insomma, questa è la musica che ci meritiamo oggi, un suono sempre in bilico tra mente e corpo, tra ballo, ascolto immersivo e violenza: il rave in cameretta e la cameretta nel rave, il rumore ovunque; metà di questa gente viene dai club, l’altra metà dal noise e dalla sperimentazione. Oltre a questo, sembra diffusa la voglia di liberarsi una volta per tutte dei cliché del “rock”, tenendone solo l’urgenza viscerale per affermare un tipo diverso di cultura musicale e di approccio.

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I festival europei non sembrano impermeabili a quanto accade: l’Unsound di Cracovia è diventato meta ufficiale di pellegrinaggio per chi segue questa nuova non-scena, e anche il nostrano C2C Alfa Romeo MiTo si è mostrato molto aperto sotto questo punto di vista. Ho infatti deciso di affrontare l'argomento proprio con alcuni degli artisti che hanno partecipato al festival torinese. Uno, Karl O’Connor detto Regis, viene dalla musica industriale, e sono vent’anni che non smette di farla scopare con la techno. Nell’altro angolo, invece, ci sono i Raime, Tom Halstead e Joe Andrews. Due ragazzi inglesi cresciuti a pane e jungle che ora suonano una elegantissima elettronica “doom”. In comune hanno l'essere usciti per  Blackest Ever Black—forse la migliore label tra quelle emerse negli ultimi anni—oltre che la voglia di attraversare l'oscurità senza rimanerci infognati dentro.

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REGIS

VICE: La tua posizione nel mondo della musica, techno e non, è strana, anche contraddittoria. Si parla sempre di te come di un pioniere e un’icona e, allo stesso tempo, come di un outsider. Come pensi di essere arrivato a questo?
Karl O’Connor: Credo si faccia anzitutto molta confusione. Quando ho iniziato, io stesso non sapevo cosa volevo essere esattamente. Sapevo di voler avere a che fare con la musica, ma non necessariamente come artista. Pensavo di essere più portato per gestire una label. Poi il mio socio Tony "Surgeon" Childs fece un album, fantastico, e mi ispirò a farne uno anche io. Da lì la gente iniziò a dirmi “ehi, questa roba spacca,” iniziarono a notare che ero un artista e non se lo sarebbero mai aspettato. Credo che in fondo lo volessi davvero, ma credo anche che questa continua indecisione non mi abbia mai portato a fare le mosse giuste per garantirmi una carriera di successo. Ma vengo percepito come un outsider perché è quello che sono, è lo spirito con cui mi sono approcciato alla musica dance fin dall’inizio. A dire il vero neanche mi è mai interessata troppo, la musica dance. Prima ancora che questa esistesse io ero già un fanatico di musica elettronica, poi arrivò il 1988 e di colpo tutta la gente con cui andavo a scuola si scoprì presa da questo nuovo genere. Per me era: “no, brutti cazzoni, non vi importa davvero una sega della musica elettronica, siete sempre gli stessi hooligan che mi menavano a scuola…” O meglio: che provavano a menarmi, ovviamente.

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Questo è un po’ in generale il mio problema con il mondo dance, la gente lo vive come un passatempo, come il golf. La gente va a ballare come se stesse andando a giocare a golf. Però ho notato che la generazione immediatamente successiva alla nostra, e quella emersa negli ultimi cinque/sei anni, hanno in comune il fatto di essere piene di gente molto motivata e appassionata. Infatti credo che questo periodo sia davvero ottimo, musicalmente. Il migliore da molto tempo a questa parte. Mi capita di parlare con gente di diciotto o vent’anni che sa tutto di tutto, ha un botto di dischi e conosce qualsiasi cosa sia uscita dagli anni Cinquanta a oggi. Però per un sacco di tempo non è stato affatto così: dalla fine degli anni Novanta a pochi anni fa la situazione è stata davvero orribile. Al momento la cosa più interessante è che sperimentazione, noise, e astrazione completa si sono finalmente riappacificate con la musica dance, e viceversa. Però tu queste cose le fai da quasi vent’anni.
Sì, capisco cosa vuoi dire. Io credo che tutti i musicisti che si stanno muovendo in quella direzione stiano semplicemente sfruttando tutte le opportunità che hanno a disposizione. Personalmente, sono sempre stato piuttosto consapevole dei miei limiti e delle mie capacità. Credo che questo valga anche per Surgeon: non scendiamo mai a compromessi. Il che è un bene, non scendere a compromessi è sempre un bene, però col tempo è utile anche assorbire un po’ di quello che ti succede attorno, in modo che ti faccia magari prendere delle decisioni diverse dal solito. In realtà negli anni non è cambiato niente: faccio musica allo stesso modo di sempre, che è anche l’unico in cui sono capace di farla. Comunque quando ci sei dentro da abbastanza tempo ti accorgi anche della ciclicità di queste cose: magari oggi una roba è underground e un’altra più sulla bocca di tutti, poi si alterneranno qualche tempo dopo. È una doppia elica, tipica di questo genere di cose. Questo però mette in discussione l’idea di “musica dance” in sé, di musica per far ballare la gente. A te è mai importato davvero qualcosa di spingere le persone a muoversi?
In tutta onestà ho sempre creduto che se generi abbastanza rumore, se c’è abbastanza pressione sonora che viene fuori dall’impianto, qualcosa succede per forza. Sai, in realtà sono sempre stato contro il ballo, pensavo che ballare fosse una cagata e preferivo pogare, semmai. Però ho sempre voluto che la mia musica fosse ipnotica e generasse degli stati di… be’ “trance”, nel senso più buono possibile del termine—che si è perso da tipo cent'anni. Quello che trovavo grandioso nella techno era questa capacità di spezzare il DNA tradizionale del rock’n’roll. È musica mantrica, non ci sono interruzioni con gli applausi tra un pezzo e l’altro, non ci sono bis, non devi montare la batteria.. niente di tutto questo, solo un grosso mantra costante. Tornando alla tua domanda: sì dai, voglio che la gente si muova, ma non è assolutamente mai stato il mio scopo principale. Non credo neanche di di capire bene come funzioni. È per questo che la tua musica non segue nemmeno le strutture canoniche della techno? Break, rullate e crescendo sono praticamente banditi dai tuoi pezzi.
È una cosa che ho imparato molto presto, dal mio primo 12”, Speak To Me. Essenzialmente si tratta di rumori e suoni che variano molto poco e molto gradualmente, intorno a un beat… Quello che ho sempre notato è che, nonostante ci siano così poche variazioni, la gente gradualmente inizia a ballare. Poi a un tratto, completamente dal nulla, esplodono e si lasciano andare. Non è niente di strano, gli esseri umani sono fatti così: una volta che il tuo cervello è entrato in sequenza, è semplicissimo lasciarsi andare. Credo che tutti quei trick, invece, servano a prendere la strada più semplice. Sono scelte, va bene così. La gente ha modi diversi di fare musica. Quindi quello che suoni lo suoni soprattuto per te stesso?
Assolutamente sì! Ho un appuntamento con l’eternità! [ridiamo sguaiatamente tutti e due] Ahahah, gran risposta, cazzo!
È tutto autocentrato, completamente… Ma come sei arrivato a sviluppare il tuo suono, considerate le influenze ampie che hai sempre rivendicato? Mi pare tu abbia detto che Mick Harris ti ha insegnato a non rinnegare le tue influenze, a prescindere dal tipo di musica che decidi di fare…
Be’, sono sempre stato molto attaccato alle mie influenze. In maniera ossessiva. Sono anche una persona tremenda, nessuno può dirmi se un disco è bello o meno. Quello che mi ha sempre detto Mick è semplicemente: “crea le tue cose nella maniera in cui ogni persona minimamente intelligente dovrebbe fare, vai e non guardarti indietro.” A molti interessa creare un sound che funzioni nei club, e questo va bene per il 99 percento delle persone, creare qualcosa che sia club-friendly, e vada bene per i DJ set. A me no, io sono sempre stato un po’ “scomodo”, ma non per scelta. È la mia indole. È una cosa tipica degli artisti di Birmingham. Tu, Mick Harris, Justin Broadrick. Zero compromessi, e mille progetti composti da una, massimo due persone.
È vero. Li conosco tutti da una vita. Tanto tempo fa lavoravo in un negozio di dischi e loro venivano tutti regolarmente, anche Nik Bullen e Kevin Martin… Ricordo anche il primissimo concerto dei Godflesh, nell’88 di spalla ai Suicide. Riguardo Birmingham… è sicuramente molto diversa da città come Manchester, in cui c’è sempre stata una grossa scena, e la gente si rende conto anche della grossa tradizione che si trascinano dietro. Anche se in realtà non era così figa come dicono: molte della band classiche facevano davvero cacare, anche se ce ne erano di ottime. A Birmingham non c’è mai stato niente del genere. Storicamente siamo legati al metal, ai Black Sabbath. È la seconda città d’Inghilterra, ma è sempre stata una città industriale dove non succede niente di interessante, e quando succede viene ignorata o fatta a pezzi, perché alla gente non frega niente. Per cui, tutti noi che facevamo musica underground in città, anche se ci prendevamo molto sul serio, tendevamo molto a prenderci per il culo da soli. Una specie di autoironia nera. Comunque qualcosa di molto interessante e molto isolato c’è sempre stato: i Prefects, una delle migliori punk band di sempre, e ovviamente i grandissimi Swell Maps. Ma non abbiamo mai avuto un locale importante, a causa del bigottismo della borghesia di Birmingham che fa parte tutta della stessa famiglia e domina il centro. Tu e Surgeon avete appena riattivato il progetto British Murder Boys con un nuovo EP, Where Pail Limbs Lie, come mai avete deciso di tornare insieme e perché vi eravate separati?
Fondamentalmente ci siamo accorti che avevamo creato qualcosa di molto bello ma lo stavamo rovinando: non funzionava come doveva perché finivamo sempre per suonare a serate dance, mentre per noi doveva essere una cosa diversa dal solito. Abbiamo anche avuto dei problemi tra noi perché non ci siamo mai davvero parlati come avremmo dovuto, c’era molta tensione e stavamo uscendo di testa ma che ci vuoi fare, è il rock’n’roll…  Poi ci siamo incontrati un paio di anni fa e abbiamo capito di non poter prescindere artisticamente l’uno dall’altro. Ora stiamo lavorando a delle cose molto più cerebrali, diverse da quello che abbiamo fatto in passato. Non vi ho mai visti live, ma da quanto ho avuto modo di vedere in video, mi pare che il vostro approccio fosse piuttosto diverso dal solito set techno, molto più fisico e brutale. Spesso interagivate direttamente col pubblico.
Purtroppo abbiamo sempre subito i limiti tecnici legati al viaggiare. Non abbiamo mai avuto  modo di portare con noi più di un paio di laptop, mentre la nostra idea era di costruire dei live molto più complessi e ambiziosi. A quel punto quello che puoi fare in un club è creare caos! Questo si ricollega alla tua domanda di prima sul ballare: suonare in un club vuol dire avere a tua disposizione un sacco di gente in una condizione stupenda. Puoi interrompere lo stato ipnotico di cui ti parlavo, e a quel punto succede di tutto. Soprattutto un sacco di violenza, quando ci capita di venire fraintesi. Spesso siamo finiti in rissa, una volta un tizio che era stato buttato fuori dal club per avere cercato di colpirci ha tirato una molotov contro la porta. Un’altra volta uno si è dato fuoco ai capelli perché era incazzatissimo con noi. Me lo ricordo bene, è successo nel nord della Spagna. Un paio di volte io stesso sono stato buttato fuori dal club… Il problema vero è stato quando la gente ha iniziato ad aspettarsi che succedessero queste cose, e a venire solo per fare macello. Questa idea di manipolazione psichica e provocazione viene direttamente dai Throbbing Gristle, no?
Certo. È una parte fondamentale della nostra formazione. In generale c’è un atteggiamento assurdista tipicamente inglese che ci piace molto adottare. Non si tratta di fare incazzare la gente, e nemmeno di volerli educare con un messaggio, piuttosto di sfidarli e scuoterli. Spesso hai usato tematiche legate al controllo, all’autorità, alla violenza. Anche questo fa molto vecchia scuola industrial.
Si, ma è anche una roba molto adolescenziale, qualcosa che fa parte della musica da sempre. Controllo sociale, morte, violenza… fa tutto parte della musica con cui sono cresciuto. Però certo, sono cose che mi interessano seriamente. Anche se, per dirti la verità, quando abbiamo usato la voce di Jim Jones in “Hate Is Such A Strong Word” era più per riportare a una nuova generazione quello che avevano fatto gli Psychic TV in Thee Last Supper. Pensavamo fosse un nostro dovere, avevamo anche molto più materiale a nostra disposizione di quanto ne avessero loro. In ogni caso, ora il massacro di Jonestown sembra qualcosa di lontanissimo, non credo potrebbe succedere niente di simile oggi perché la gente non è più manipolabile come un tempo. Ora tutti sono molto più svegli, ci sono ragazzini che a otto anni già vanno su internet e sanno tutto. Siamo grandi fan degli Psychic TV da sempre, io organizzavo spesso dei benefit per il Temple Ov Psychick Youth, anche se ci stavo dentro soprattutto per il sesso libero… ahaha. No, davvero, era molto interessante, c’era dentro della politica, era una quasi-religione, soprattutto era trasgressivo e pericoloso, il che fa sempre presa su una mente giovane. Credo di potertelo dire, Martin Dust dei Black Dog era a capo della sezione di Sheffield del tempio. Magari non vuole che si sappia… ma chi cazzo se ne frega! È una persona molto interessante, dovresti conoscerlo.

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I PTV sono stati anche fondamentali per il passaggio dall’industrial alla acid house.
Certamente. Jack The Tab fu un album fondamentale, anche se tutto sommato non era il massimo al livello di dance. Quando uscì mi dissi: “ecco, questa è la vera acid house.” Genesis P-Orridge fu molto saggio a usare il talento di collaboratori come Dave Ball dei Soft Cell per quel disco.

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RAIME

VICE: Il tema del giorno è questa sorta di riconciliazione tra elettronica sperimentale e “dance”, o comunque elettronica da club. C’è un’enorme scena che ha imparato ad attingere alle fonti più disparate. Perché pensate stia succedendo, e come la vivete voi?
Joe Andrews: Credo ci siano due ragioni fondamentali. La prima è la normale ciclicità del gusto musicale: negli ultimi cinque/dieci anni è andato di moda un genere di elettronica molto pulito e minimale e ovviamente la gente si è stufata. Quando questo accade si cerca qualcosa di nuovo, e di solito è l’esatto contrario di quello che va di moda. Se vai a Berlino oggi, invece di quel sound minimale che dominava fino a poco tempo fa, ti può capitare più facilmente di ascoltare gente come Marcel Dettmann o Ben Klock, che fanno un tipo di techno molto pesante, simile allo stile di metà anni Novanta. Allo stesso tempo, chi fa musica è ovviamente influenzato da molte cose diverse e grazie a internet.. be’, è un’ovvietà ma è anche molto importante: non hai più bisogno di ficcarti in qualche negozio polveroso a scartabellare per ore nella sezione “psichedelia anni Sessanta” né di spendere centinaia di euro per spaziare con gli ascolti. In questo modo abbiamo tutti l’opportunità di creare un suono che ci rispecchi maggiormente.
Tom Halstead: Sì, in questo modo riesci a “unire i punti”, trovare sentimenti e atmosfere simili in territori apparentemente diversi. Ad esempio, per noi è stato molto interessante ritrovare la paranoia e l’ansia che ci sono in molta jungle anche nel doom metal o nel primissimo Industrial. Sono significanti e sfumature che costituiscono un linguaggio comune. Esplorare, a quel punto, significa anche iniziare a chiedersi come digerire quello che scopri e renderlo parte del tuo lavoro.

Paranoia e ansia.. direi che sono piuttosto evidenti nel vostro suono, ma non è tutto qui, no?
Joe: No, certamente i sentimenti di paranoia e ansia sono una parte fondamentale di quello che facciamo, ma spero si capisca che sono coinvolte anche emozioni di tipo diverso. Credo che nel nuovo album in particolare il senso di angoscia sia affiancato da dei pattern e delle linee di synth o archi più emotivamente confortevoli. Credo che questa dialettica chiarisca cosa la paranoia e l’ansia possono rappresentare se inserite in un certo contesto. Se presentate così come sono non vorrebbero dire granché, ma la realtà delle cose è che la gente vive questo tipo di sensazioni tutti i giorni e mai in maniera semplice, possono assumere connotati molto diversi se inserite in un diverso scenario, sia fatto di emozioni umane che, non so… di immagini.. o una struttura fisica. Credo che questo atteggiamento nei confronti delle cose sia molto più produttivo. Oltre a questo senso d’ansia piuttosto claustrofobico, io ho sempre sentito nella vostra musica una certa bellezza malinconica.
Joe: Assolutamente! Potremmo dire che è un modo di trovare la bellezza nella decadenza delle cose… è qualcosa che abbiamo sempre ricercato nella jungle e con cui siamo fissati da sempre. È un’area molto vasta da sfruttare. Tornando al doom metal, quando abbiamo iniziato ad ascoltare quel tipo di musica era perché ci sentivamo una certa fisicità con cui riuscivamo a identificarci e che, ci siamo resi conto, aveva molto in comune con la primissima dubstep, che era molto potente ma anche piuttosto scura e soffocante. Questo tipo di continuità si può davvero esplorare, non solo riconoscere. Molto spesso il vostro modo di comporre mi comunica più idee di spazio che di tempo. Quasi come se fosse architettura e non musica…
Tom: Credo dipenda molto dal modo in cui usiamo i suoni di percussioni. Sono lo scheletro dei nostri pezzi, nel senso che tutto il resto gli si sviluppa attorno. Cerchiamo sempre di limitare la nostra musica all’essenziale usando suoni molto specifici. Questo ha effettivamente più a che fare con l’architettura che col creare dinamiche con cui… far muovere la gente, per esempio. A dire il vero, secondo me, fa anche muovere… In una maniera piuttosto inusuale.
Tom: Certo, può succedere, ma non ci è mai interessato avere groove. Ecco, questa è la cosa davvero interessante in tutto questo rimescolamento di musica dance e sperimentale: non si capisce mai se è musica per il corpo o per la mente.. o per entrambe.
Joe: Onestamente questo è proprio quello a cui volevamo arrivare noi quando abbiamo iniziato, combinare entrambe le possibilità per creare qualcosa che fosse più potente di una delle due da sola. Fare musica in studio per noi significa avere a che fare con questa battaglia costante.. no, aspetta, battaglia è una parola troppo drammatica. Si tratta di mantenere un equilibrio, sarebbe semplice lasciarsi andare ed essere molto più sperimentali o aggressivi, ma preferiamo trattenerci e lasciare magari più spazio al ritmo, e ancora: trattenere anche il ritmo per evitare che prenda troppa importanza rispetto al resto e così via. Mantenere costante l’equilibrio serve anche a mantenere sempre un certo livello di tensione. Ora non vorrei scivolare troppo nel fricchettone, ma vi interessa anche usare la ripetizione e il suono per generare degli stati di coscienza alterati?
Tom: Ci interessa più il “racconto”, cercare di comunicare un messaggio, o meglio: le nostre idee, il più chiaramente possibile. Ovviamente, considerato che la musica si sviluppa nel tempo, hai bisogno creare una via d’accesso e di sviluppare la “narrazione”: iniziare in un punto e finire in un altro. Non lo definirei un viaggio o un trip, è più come un racconto, appunto. Un racconto fortemente basato sulla ripetizione, come praticamente tutta la musica elettronica.
Joe: Sì, credo che questo mostri semplicemente da dove veniamo, qual è stato il nostro percorso come ascoltatori. Abbiamo ereditato le strutture tradizionali della musica elettronica.
Ma c’è un’altra cosa che volevo dire riguardo alla domanda di prima: hai detto che non volevi usare un certo tipo di termini che suonerebbero troppo fricchettoni, e anche io preferirei evitarli, perché suonano piuttosto datati o… …pretenziosi?
Joe: Può darsi. Fatto sta che stiamo comunque parlando di cose che hanno a che fare con la spiritualità e con la possibilità di sfiorare qualcosa di più alto di te stesso. È sempre stata un’ambizione comune a molti musicisti, pittori… artisti in generale. Nessuno di noi due è religioso, in nessun senso. Però siamo convinti ci sia un’idea di “altro” che la musica emana sempre e comunque, molto più della religione o della vita stessa.
Tom: Qualcosa… di lontano da te ma con cui senti un’affinità.. di alieno ma allo stesso tempo attraente e coinvolgente. Con un suono così minimale immagino facciate moltissima attenzione ai dettagli, no?
Joe: Troppa, forse. In studio siamo dei veri control freak: ci riascoltiamo le tracce duecento, trecento volte, rieditandole in continuazione. È un processo molto rigoroso ed è dettato dalla necessità di poter comunicare le nostre idee il più chiaramente possibile. Ma questa comunicazione di cui parlate prevede un vero e proprio messaggio o no?
Joe: Forse sì, ma mi sa che è ambiguo per noi tanto quanto per gli altri… In passato avete detto che vi sta molto a cuore il concetto di fatalismo. In che senso?
Joe: È legato a quanto dicevo prima sul gusto per la decadenza. L’idea comune di “futuro” è cambiata piuttosto radicalmente negli ultimi cinquant’anni. Negli anni Cinquanta e Sessanta c’era un’idea molto utopica di futuro alla Jetsons, nonostante la paranoia per la guerra nucleare, esisteva ancora l’idea che la tecnologia e l’ingegno umano potessero creare un futuro migliore. Ora invece, specie per quanto riguarda l’ambiente, sembra piuttosto chiaro a tutti che l’ingegno umano ha prodotto l’esatto opposto. Ecco: questa è una cosa che trovo estremamente contemporanea nella vostra musica. Molto spesso sembra descrivere un processo di distruzione molto lento ma totale e inevitabile. Anni fa l’incubo era che tutto finisse col botto di una bomba atomica, o comunque a causa della guerra, ora invece l’apocalisse sembra un processo di sgretolamento molto sottile.
Tom: Giusto. La malinconia di cui parlavamo all’inizio, in effetti, è legata al concetto di perdita. La morte delle ideologie così come la morte di tutto quanto contempli un futuro utopico, anche la techno di Detroit… Trovate che la techno di Detroit fosse utopistica?
Joe: In realtà era piuttosto distopica, ma tendeva comunque a glorificare parecchio le macchine, il modo in cui potevano estendere le possibilità umane. Credo che questo atteggiamento sia cominciato con i Kraftwerk, Computer World e tutta quella roba là… Per cui, comunque, nella scena di Detroit le macchine erano ancora viste come qualcosa di positivo. Non credo si possa dire lo stesso della nostra musica. E qual è invece il vostro rapporto con la tecnologia?
Joe: Ovviamente la sfruttiamo il più possibile. Non siamo neanche di quelli che usano molta strumentazione analogica o simili, allo stesso tempo ultimamente cerchiamo di sfruttare suoni che non sembrino venire direttamente da una macchina. Soprattutto nel nuovo album, abbiamo campionato molti strumenti organici: abbiamo fatto delle session con un paio di batteristi e un violoncellista. Inoltre Tom ha registrato delle improvvisazioni di chitarra molto lunghe, di cui poi abbiamo utilizzato dei brevi frammenti. C’è una traccia proprio nel nuovo album, lo splendido Quarter Turns Over a Living Line, che si intitola "Exist In The Repetition Of Practice". La trovo una frase interesante perché gli si potrebbe dare un significato molto positivo, un’idea di disciplina e perfezione, o anche molto negativo, l’idea di essere intrappolati nella routine o nelle abitudini sociali.
Joe: È più un riferimento al nostro modo di lavorare, che come ti dicevo è molto ripetitivo e rigoroso per cui, sì, c’entra con la disciplina. Ad ogni modo, quasi tutti i titoli che usiamo sono dei tentativi di creare delle espressioni significative e ambigue allo stesso tempo: hanno tutte un significato molto profondo, sensibile ma fondamentalmente inafferrabile. Non so se possiamo dire che cerchiamo la perfezione: sicuramente continuiamo a lavorare finché non siamo soddisfatti. Questo può non significare nulla per chi ci ascolta, ma sicuramente serve a farci stare in pace con noi stessi. Parliamo di, Blackest Ever Black. Kiran Sande, che la gestisce, sembra avere un’idea molto chiara, per quanto eclettica, dei suoni che gli interessano. Voi siete stati fondamentali per la crescita dell’etichetta, non fosse altro perché la prima uscita era un vosto EP.
Tom: Abbiamo conosciuto Kiran attraverso un amico comune, fu una gran fortuna perché  proprio in quel periodo avevamo finalmente prodotto un disco di cui eravamo molto contenti e ci sentivamo pronti per farlo uscire. Ci siamo accorti subito che il suo approccio a un certo tipo di estetica coincideva esattamente col nostro.
Joe: È uno molto coerente, e credo che questo si noti sempre di più ad ogni disco che pubblica. Incontrare una persona del genere per noi è stato.. be’ non credo assolutamente nel destino ma, cazzo, è stato un incontro davvero fortunato. Avevamo tutti fame della stessa cosa e, incredibilmente, siamo riusciti a trovarla insieme.

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