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A9N4: Molti nemici

Pensiero e memoria

Un racconto di Ed Park.

Ed Park ha quello che si può definire un curriculum di tutto rispetto. È stato editor del Voice Literary Supplement e uno dei fondatori di Believer. Ha insegnato scrittura creativa alla Columbia University e cura Invisible Library, una raccolta online di tutti i libri immaginari che popolano la narrativa. Niente male, vero? Oggi continua a occuparsi di letteratura per Amazon Publishing.
Il suo primo romanzo, Personal Days, ha ricevuto il plauso del New York Times ed è stato nominato per il PEN Hemingway Award, il John Sargent Sr. First Novel Prize e l’Asian American Literary Award. È stato inoltre inserito nella top ten di narrativa 2008 del Time e selezionato dall’Atlantic tra i “dieci momenti di cultura pop” del decennio.
Nel tempo libero registra cover di pezzi new wave anni Ottanta e propone acrostici e anagrammi attraverso il suo spassosissimo account Twitter, @thaRealEdPark. Quando non è occupato in una di queste attività scrive saggi in cui esamina, per fare un esempio, la connessione tra la logica magica dei libri per bambini e Borges, e racconti come quello che trovate qui sotto.
In “Pensiero e memoria”, l’autore di un romanzo intraprende un tour per presentare il suo libro. Peccato soltanto che le cose non vadano come previsto: il narratore incontra una misteriosa donna con un occhio di vetro e uno strano tatuaggio proprietaria di due corvi parlanti, i cui nomi rimandano al seguito di Odino nella mitologia norrena, per poi scoprire i romanzi di un autore di fantascienza che speriamo di ritrovare su Invisible Library.
Per accompagnare il testo abbiamo scelto le illustrazioni dell’artista di San Francisco Yina Kim. I suoi lavori hanno evocato in noi quello stesso senso di assurdità spettrale accompagnata dal pathos inquietante e familiare che ci ha trasmesso il racconto di Ed.

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Illustrazioni di Yina Kim.

1.

Nel 2008, all’uscita del mio primo romanzo Un albero che cresce a Baghdad, l’editore mi organizzò un tour di presentazione sulla West Coast. A volte la gente accorreva a fiumi, a volte no. Ma era sempre bello vedere il mio pubblico. Anche se penso dovrei chiamarlo il pubblico. I più non avevano letto il mio libro. E anche se si trattava di narrativa, incentrata principalmente su cose di cui avevo sentito parlare più che di esperienze vissute in prima persona, ai presenti avrei potuto dire che era un’autobiografia e che nelle pagine aperte di fronte a me, ogni pita vegetariana consumata e ogni pensiero formulato corrispondevano a realtà. A nessuno importava veramente del libro. Volevano sapere soltanto cosa avevo fatto in Iraq, qual era ora la mia posizione nei confronti della guerra e se sarei tornato.
Generalmente avevo un pubblico più che adulto. E scoprii che mi piaceva autografare i libri. O meglio, mi piaceva la parte in cui la penna entra in contatto con la carta. Avevo anche iniziato ad aggiungere il simbolo della pace al mio nome. Avrò stretto un migliaio di mani.

2.

Arrivato al fine settimana stavo iniziando a dare i numeri. A Seattle mi ero alzato alle 6 di mattina per fare un’intervista con un’emittente radio di Los Angeles. Ma perché mai a quell’ora? Non c’erano differenze di fuso tra le due città. Sarà una di quelle radio che non ascolta nessuno, pensavo, e dopo aver agganciato non ero nemmeno convinto che quella appena conclusasi fosse stata un’intervista. Mi aveva davvero chiesto del mio stato di salute, della dieta, della mia schiena malandata? Avevo per caso chiamato mia madre, per istinto? O forse era stato un sogno? Mi capitava di fare sogni del genere, pensando di essermi svegliato mentre in realtà dormivo ancora. Mi capitava di fare sogni in cui spegnevo la sveglia, ancora e ancora, fino a riemergere dalle grinfie del sonno grato e in affanno.

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3.

A Portland, il mio contatto, Jonas, mi aveva portato a pranzo in un posto che offriva solo cibo coltivato e prodotto localmente. C’erano haggis di mare e biscotti della fortuna artigianali. Jonas mi somigliava vagamente. Aveva le mie stesse sopracciglia e orecchie, e la cosa era al tempo stesso fonte di disturbo e conforto. Mentre mangiavamo mi spiegò che l’Oregon era nato come uno stato per soli bianchi.
“O Negro,” dissi d’impulso.
“Cosa?”
“È l’anagramma di Oregon.”
“Oh, cavolo. Ci ho passato 13 anni e non ci avevo mai fatto caso. Be’, lo scrittore sei tu.”
Salimmo in macchina. Jonas mi dilettò con storie sugli altri scrittori che aveva portato in giro per la città, dilungandosi su chi gli era piaciuto, chi era pieno di sé e chi puzzava. Poi chiese se mi andava di fare una partita a ultimate frisbee in un parco, coi suoi amici. Ero esausto, e avevo paura che fosse una specie di test. Se avessi rifiutato, al prossimo scrittore di passaggio in città sarebbe certamente giunta voce del fetente stronzo presuntuoso che ero.
Finsi di non aver sentito. Alla radio diedero la notizia della morte di un autore di fantascienza, Vernon Bodily.
Aveva scritto oltre un centinaio di romanzi.
“Allora?” chiese Jonas. “Che ne dici, una partitella a ultimate?”
Accennai alla mia povera schiena, citando la discutibile intervista radio di Los Angeles come prova.
Jonas mi lasciò in hotel, dove cercai di scrivere una lettera a una donna di nome Mercy Pang. La carta, lavorata a sbalzo, era così bella che fui colpito dal blocco dello scrittore e mi concessi tre ore di sonno. Riaperti gli occhi iniziai a fissare il soffitto, chiedendomi dove fossi. Sul muro la luce creava una serie di cerchi sovrapposti, riflesso dell’acqua all’esterno. Non riconobbi l’enorme poltrona che stava di fronte a me, né il secchiello del ghiaccio, il tappeto, le tende. Non c’era rumore. Pensai che forse era il 1979 e io mi trovavo nella casa in cui sono cresciuto, steso sul divano, a immaginare cosa avrei fatto nel giro di dieci anni, poi 20, poi 30. Era uno dei giochi che facevo. A volte pensavo a una parola o un’immagine e usavo gli impulsi cerebrali per inviarla al me del futuro. Così questo ero io, e stavo mandando un messaggio indietro nel tempo, al bambino di una volta? Non ero nemmeno sicuro ci fosse ancora.

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  1. A Berkley lessi alcuni passi dal mio libro durante una serata transgender a microfoni aperti, in una libreria che non aveva nulla delle leggendarie librerie della città. Sembrava più un commissariato di polizia con qualche mensola qua e là. Non ero transgender, purtroppo, ma il mio agente non era riuscito a rimediare altro. Una volta dentro pensai che forse tutti i presenti erano transgender, o almeno gli altri lettori. Immaginai tutti gli uomini essere in realtà donne, e tutte le donne uomini.
    Mimi, l’organizzatrice, salì sul palco e mi presentò. Il mio non è un nome difficile, ma lo pronunciò male. Subito pensai: è canadese. Aveva il tipico aspetto della persona che parla in inglese ma pensa spesso in francese. Salutai il mio pubblico con un tono innaturalmente basso che pensavo avrebbe potuto farmi passare per un transgender.
    Ma poco importava, perché il passaggio che avevo scelto era del tutto inappropriato. Parlava di una squadra di falsari che si era introdotta di nascosto nel seminterrato del museo di Baghdad per sostituire alcuni manufatti mesopotamici con le loro copie. Ma avevano scelto il momento sbagliato. Erano scoppiati dei disordini in strada. I proiettili facevano tremare l’edificio, e alla fine non si riusciva più a distinguere tra icone e brocche vecchie di millenni e quelle uscite una settimana prima dalla fornace. I falsari erano fuggiti lasciando tutto nel museo, originali e copie.

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Continua nella pagina successiva.

  1. Poco dopo Mimi mi offrì una birra locale con delle rune sull’etichetta.
    “Sei canadese?” le chiesi.
    “Sono in tanti a pensarlo. Immagino sia per il tatuaggio.” “Quale tatuaggio?”
    Si voltò e sollevò la maglietta. All’inizio pensai a un nevo vinoso. Era una foglia d’acero.
    “Mi piacciono le foglie d’acero, tutto qui.”
    “Sei trans?” le chiesi.
    “Vorresti che lo fossi?”
    Scrollai le spalle.
    “Ho un occhio di vetro,” rispose. “Non ti conosco abbastanza e ho le mani sporche. Altrimenti lo toglierei.”
    “Qual è quello di vetro?” Ci stavamo fissando a vicenda.
    “Indovina.”
    “Il sinistro.”
    “La mia sinistra o la tua sinistra?”
    “La tua.”
    “Right.”
    “Right? Nel senso di destra o di giusto?”
    “Right, right.”
    “Quindi…”
    “Avvicinati,” disse.

Quella sera Mimi mi portò a Los Angeles in macchina. Doveva andarci comunque, apparentemente. In un’area di sosta si tolse l’occhio di vetro e indossò una benda da pirata. Mi sarei dovuto offrire di guidare, ma non so usare il cambio manuale. Sul sedile posteriore c’era una grossa gabbia per uccelli in cui i suoi due corvi da compagnia, Pensiero e Memoria, continuavano a salutarsi.
E non nella loro lingua cinguettata e gracchiante, ma in quella degli uomini. Lo ripetevano continuamente, “Ciao, ciao.” Sembravano una coppia di anziani confusi, ogni volta felici di rincontrarsi anche se si erano già rincontrati pochi secondi prima. Mimi avrebbe dovuto lasciarli al fratello, il legittimo proprietario.
“Cosa fa tuo fratello?” le domandai.
“È un autore di fantascienza.”
“Lo conosco?”
“Probabilmente no. Non ha mai pubblicato niente. Solo qualche fan fiction online.”
“Hai sentito, è morto Vernon Bodily. Aveva scritto più di cento libri.”
“Ce ne saranno cinque che valgono qualcosa,” rispose, ma non riusciva a ricordare i titoli. Osservai i fari tracciare la strada nella notte. La radio era spenta, e dietro Pensiero e Memoria mugolavano nel sonno, sognando come sopravvivere all’accumularsi di frustrazioni da corvi.
  1. Il mio reading principale a Los Angeles fu cancellato. Il posto si chiamava Book Ark. Arrivai con mezzora di anticipo e mi dissero che c’erano state delle infiltrazioni d’acqua nella sala. In più, aggiunsero, i miei libri non erano ancora stati consegnati. Con una scusa gli avrei creduto; ma due sembravano più un tentativo di copertura. Il manager si mostrò dispiaciuto e mi disse che avrei potuto prendere un libro a mio piacimento, a patto che non trattasse di arte.
    “Non c’è problema,” risposi. “L’arte non mi piace.”
    Dico sempre cose che non intendo realmente dire, riempio le frasi. E dopo penso che forse le intendevo sul serio.
    Mi diressi verso il reparto di fantascienza e cercai la lettera B. C’era un unico, sottile libro di Vernon Bodily, con spazi vuoti a entrambi i lati che suggerivano come la sua morte avesse fatto aumentare le vendite. Il libro si chiamava Maneggiare con cura.
    Presi un muffin dal bar della libreria e mi spostai in un negozio di dischi, ma non comprai nulla. Chiamai Mimi senza ottenere risposta. Il messaggio della segreteria era una registrazione del “Ciao” di Pensiero e Memoria. “Ciao,” dissi, rivolgendomi più ai corvi che a Mimi.
    “Addio.”

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  1. La mattina successiva andai alla piscina dell’hotel con un po’ di carta da lettere. Era dall’inizio del tour che cercavo di scrivere una misera lettera a Mercy Pang.
    Finora avevo raccolto quattro pagine, tutte partenze false. Mercy era impegnata in un ritiro per scrittori di sei settimane, nel Dakota del Nord. Non c’erano telefoni né internet. L’unica soluzione era la carta, e dal momento che ero in giro, sentivo di doverla tenere al corrente dei miei spostamenti. Ma non sapevo cosa dire. La situazione si era chiusa in maniera un po’ ambigua, prima della mia partenza per la West Coast. Nessuna sceneggiata, solo un’e-mail in cui diceva, “Credo che mi piacciano gli uomini.”
    Sbucò il sole, andando a creare un reticolo vacillante sul fondo della piscina per via della luce che si faceva strada attraverso l’acqua. Lo scrissi nella lettera, per poi tracciare una grossa X sul foglio. Tutti quegli incipit sembravano scritti da qualcun altro. Pensai di mandarglieli direttamente, sarebbero state le mie missive abbandonate. Mercy aveva una discreta familiarità con le rinunce; un’esperta a tutti gli effetti. Era la persona più intelligente che conoscessi, ma non riusciva mai a portare a termine qualcosa. Diceva sempre di essere stanca, ma poi non riusciva ad andare a letto. Persino dormire era un’attività fallimentare, per lei. Di notte metteva la mascherina per gli occhi e i tappi nelle orecchie e alzava al massimo il dispositivo per il rumore bianco. E nonostante quello, continuava a rigirarsi e muoversi.
    In piscina un nuotatore, maschio o femmina, difficile a dirsi, era impegnato in una vasca a farfalla, così privo di schizzi e scorrevole bracciata dopo bracciata da non sembrare nemmeno umano, ma parte di un enorme orologio vivente. Presi un foglio bianco, scrissi, “Cara Mercy,” e mi fermai, lasciando solo quelle due parole.

A mezzogiorno avevo appuntamento per un’intervista con un giornalista del LA Times. Dovevamo incontrarci al Barney Greengrass, un ristorantino che faceva da succursale al famoso Barney Greengrass di New York, al piano superiore del Barneys dell’omonima catena con sede a New York. Mi misi ad aspettarlo. O aspettarla? Di cognome faceva Lane, e i risultati su Google mi riportavano soltanto ai suoi articoli. Presi posto e mi accomodai, finalmente solo con la mia copia di Vernon Bodily, un trio di racconti. Nel primo, un coraggioso esploratore spaziale di Terraplex, città fluttuante delle dimensioni di un pianeta, si sta avvicinando al limitare dell’universo conosciuto. È in viaggio da 10.000 anni, ma ha trascorso la maggior parte del tempo in stato di congelamento.
Tutti i suoi cari sono morti da secoli. Presto accederà a un’area interamente al di là della comprensione umana e aliena. Si prepara, chiude gli occhi. C’è un rumore, simile all’esplosione di una membrana. Osserva lo schermo dei comandi. La sua navicella piramidale fluttua nella luce. Dietro di lui, sullo schermo, c’è quello che sembra un enorme blocco beige, un pacchetto immenso. Vede il foro a forma di stella da cui è uscita l’astronave. Sotto, in caratteri della lingua franca alti un chilometro, c’è scritto “maneggiare con cura.”
  1. Alle tre di quel giorno salii su un taxi per l’aeroporto. Le valigie pesavano un quintale. A metà strada il traffico si bloccò, come se qualcuno avesse staccato la spina di un frullatore, e feci un altro tentativo con la lettera per Mercy. Le raccontai di Seattle, Portland e Berkeley, del pubblico transgender e dell’organizzatrice con la benda sull’occhio, dei corvi con quei nomi buffi. Le raccontai di quanto era stato difficile mentire alle domande, dato che tutti credevano avessi combattuto in Iraq quando in realtà ero lì come giornalista embedded— non uno di quei professionisti brizzolati impegnati in una missione per la verità, ma un freelance mandato lì da Cigar Aficionado per scrivere un pezzo corredato da opinioni e analisi sul futuro degli umidificatori del Paese. Raccontai a Mercy di O Negro e dell’artista del nuoto a farfalla in piscina.
    Dopo aver scritto il mio nome, disegnai un simbolo della pace. Era il mio tentativo più riuscito, fino a quel momento. Reclinai il capo e guardai fuori dal finestrino, verso le nuvole. Ci fu un altro di quei momenti in cui ripensavo al me di nove anni, a bordo della station wagon dei miei, quando in direzione del campo estivo di violino mi chiedevo dove mi avrebbe portato la vita.
    Mi aveva portato lì. Ero la stessa persona, un corpo che si muove nel tempo. Fino a che punto? In alto sulla mia testa volavano due uccelli, e anche se sapevo che non si trattava di Pensiero e Memoria, aggiunsi un PS in fondo alla lettera e scrissi che sì, erano loro.

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