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Perché in Italia i Soprano non se li è mai cagati nessuno

Sullo strano rapporto tra italo-americani e italiani e come veniamo ancora percepiti nel mondo.

I Soprano sono considerati universalmente una delle migliori serie tv mai realizzate. Più importante ancora:sono stati il primo esempio di narrazione televisiva seriale di qualità assoluta, il punto di non ritorno dove la tv americana ha messo la freccia e ha superato in tromba l’industria hollywoodiana impegnata a produrre in eterno sempre gli stessi film con sceneggiature considerate "sicure”. Cose talmente alienanti che l’apice drammaturgico che vi aspetta nelle multisale oggi è diventato il rischio di trovare nei pop corn un dente della commessa fatta di shaboo che ve li ha venduti, un messaggio dal mondo reale, quello dove accadono ancora delle storie che non presuppongano l’uso di supereroi ed effetti speciali.

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Dai Soprano in poi le serie tv di qualità si sono candidate al ruolo di forma più complessa, articolata e meglio scritta della società contemporanea, mettendosi in diretta competizione con i romanzi.

Lo showrunner dei Soprano era David Chase, e dalla sua writer's room è uscita gente come Matthew Weiner, l’inventore di Mad men, amabile serie che quando esci dall’ufficio ti permette di guardare qualcuno che lavora in ufficio fino a più tardi di te, e Terence Winter, il creatore di Boardwalk Empire, una serie ambientata ad Atlantic City che vi spiega che razza di enorme affare per mafiosi sia il proibizionismo nel caso foste il figlio di Giovanardi e stimaste vostro padre.

Tutto questo è stato già detto e ripetuto da molti dopo la morte improvvisa di James Gandolfini. Nessuno però sembra ricordare che quando la serie sbarcò in Italia sull’onda del successo americano fu un flop clamoroso. Non l’aiutarono la collocazione oraria né le aspettative del pubblico italiano che dalla tv era abituato a farsi rifilare dei pastoni inoffensivi scritti e recitati con i piedi, serie che è possibile abbandonare non dico per andare in bagno ma anche per alcune puntate senza perdere nulla di significativo.

“Nella seconda stagione di 89 puntate da 20 minuti Nunzia ha preso un caffè al bancone ma la barista Assunta l’ha guardata con ostilità, il perché lo scopriremo nella terza stagione, ma ci sono pochi dubbi che il segreto sia nascosto nel suo torbido background, durante il periodo in cui faceva gli scout senza un’autentica dedizione nei confronti del corpo.”

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Cose da cui non riesci a scollarti insomma.

Eppure non può essere stato solo questo. Ancora oggi che le serie americane in streaming sono diventate il mezzo con cui la popolazione italiana sotto i 203 anni fruisce la televisione, Soprano non sono certo uno dei titoli più gettonati nel nostro Paese.

Ovviamente ho una mia teoria a riguardo.

I S_oprano _sono la storia di un mafioso italo-americano del New Jersey che all’interno del famoso motto “La prima generazione costruisce, la seconda mantiene, la terza distrugge,” fa la parte della seconda generazione.

Tony Soprano è un boss mafioso imborghesito diviso fra il desiderio di avere una vita famigliare normale e le sue feroci esigenze lavorative. Ammira la decisione della generazione precedente alla sua e vede chiaramente lo sfascio che aspetta la sua azienda di famiglia a causa dell’inadeguatezza delle nuove leve, inadeguatezza alla quale non è del tutto immune nemmeno lui, visto che difficilmente Santo Trafficante sarebbe andato dall’analista come fa lui.

Tony è sospeso nella terra di mezzo fra passato e futuro, sa come andrebbero fatte le cose per essere un boss con i controcazzi ma al tempo stesso ha anche degli istinti da abitante dei sobborghi che cozzano con i suoi doveri di gangster.

Insomma è un personaggio sfaccettato, interiormente combattuto, tirato fra due estremi fra i quali non riesce a decidersi, perché in fondo non può. Il dilemma che ti tiene lì a guardare lo show è tutto qui. Semplice ma efficace.

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Al tempo stesso è anche un dilemma profondamente americano. La società statunitense è una società intimamente violenta che si sforza continuamente di occultare questa sua caratteristica essenziale. L’esplicitazione del gangsterismo alla Mr. Hyde di Tony Soprano parla quindi alle corde profonde dell’audience americano. Dice: sì, avremo anche le villette a schiera e ci piace fare i barbecue con i vicini ma sotto sotto siamo dei killer, come hanno scoperto a proprie spese gli abitanti del resto del pianeta.

Il problema sotteso al personaggio di Tony Soprano riguarda quindi le forme della vita sociale americana, (la risposta all’inconscio conformismo familiare dei sobborghi residenziali, quello che anni dopo sarà  deriso fino all’eccesso da una serie come Desperate Housewives) ma viste attraverso gli occhi di un personaggio la cui prima caratteristica sociale è quella di essere un gangster italo-americano, quindi “Altro” e un altro ben definito.

Il problema però è che qualsiasi italiano che guardi una puntata dello show capisce al volo che la famiglia Soprano è molto più “americana” che “italo”. Né i Soprano né i personaggi che gli ruotano attorno sanno parlare correntemente italiano, ad esclusione di qualche parola pronunciata con un fortissimo accento americano, che emerge ogni tanto come il ricordo di un tempo lontano ormai perduto ma ancora fortemente simbolico.

Tutta l’italianità residua si esplicita in una versione ibridata e appesantita della nostra cucina, resa come un barocco rito evocativo fatto di salsa di pomodoro, e in un abbigliamento caricaturale di quello che secondo gli americani dovrebbe essere “un italiano”. Il mafioso italo-americano è sgargiante, sbruffone e fondamentalmente insicuro e infedele. Insomma più che un gangster è un gangsta rapper. Il contrario del mafioso italiano.

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La mafia vera e propria, quella in Italia, è invece un para-stato che si muove a specchio rispetto alle istituzioni e non ha bisogno di celebrare il proprio potere perché la sua forza sta proprio nell’essere così radicata da non doversi mostrare per essere temuta. In una città mafiosa, tutti sanno chi è il boss ma nessuno lo dice. Questa è la mafia a cui noi italiani siamo purtroppo stati abituati sin da bambini. Quando la mafia spara significa che è in crisi, quando tace prospera. Queste sono cose che ogni italiano sa fin troppo bene.

Dinamiche criminali di questo tipo non possono riuscire nel contesto sociale americano, in cui i clan italo-americani sono “altro” rispetto a tutto il corpo sociale e hanno perso la base di immigrati italiani poveri e ghettizzati da tagliaggiare e dai cui prendere la manovalanza. Dopo l’arricchimento che indebolisce le nuove generazioni, è questa una delle principali ragioni dell'irrevocabile crisi dei clan d’oltreoceano, almeno di quelli che non sono riusciti a investire i loro capitali nell’economia legale.

Tutta la distanza incolmabile fra i mafiosi del New Jersey e il loro Paese di origine si consuma nell’episodio in cui Tony Soprano si reca a Napoli. Sono due mondi talmente diversi che fanno fatica anche solo a comunicare fra di loro.

E l'aspetto strettamente criminologico è solo la più evidente delle radicali differenze fra "italiani" e "italo-americani", ma è molto più rapido dire quello che ancora abbiamo in comune: qualche piccolo aspetto simbolico e nient'altro.

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Ora non fraintendetemi: la serie rimane ottimamente scritta perché non pretende mai in alcun momento di parlare di “italiani” bensì sempre di “italo-americani”.

Eppure da spettatore a livello profondo senti che quell’”italo” un po’ ti riguarda comunque. Se non altro perché è il filtro ermeneutico attraverso cui ti guarderà la prossima turista americana che ti scoperai e a cui, benché abbia speso 120 mila dollari l’anno per la sua università privata, scoppierebbe la testa a sentire parole come “filtro ermeneutico”, ma che fortunatamente compensa attraverso la ben nota gioia semi-animale del sesso americano che tutti noi abbiamo imparato ad apprezzare prima in streaming poi nella nostra camera da letto se abitiamo in una città d’arte.

Per questo a guardare I Soprano da italiano, pur sapendo che è una storia americana e tutto il resto, si prova sempre la sensazione inconscia che la serie stia parlando in modo infedele di te, una specie di versione minore (per il rispetto del profondo valore artistico della serie) del disagio che si prova a vedere cose tremende come Jersey Shore.

Insomma fai tutti i distinguo che vuoi ma alla fine vedendo uno show come I Soprano ti rendi conto che è l’idea che il mondo si sta facendo di te, mentre tu sai bene che l’Italia, nel bene e nel male, è tutta un’altra cosa.

Segui Quit su Twitter: @quitthedoner

Intanto, oltreoceano: 

Ti amerò per sempre, Tony Soprano