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Pietro Cocco: La mia formazione è legata alla fotografia. Da subito mi sono specializzato nello still life, disciplina con la quale ho realizzato la maggior parte dei miei lavori. Essendo attratto dalle arti visive mi capita spesso di pensare a progetti non strettamente legati alla fotografia, il video è uno dei medium che preferisco utilizzare quando ne ho la possibilità. Da tempo porto avanti una ricerca che ha delle regole estetiche molto definite. In base al mezzo che ho deciso o che mi viene richiesto di utilizzare, mi piace poterle plasmare e vedere come si evolvono.Come descriveresti il tuo stile? A mio parere è quasi plastico.
L'appunto più frequente che mi fanno riferito al mio lavoro è, "sembra 3D". Questa definizione mi piace molto, soprattutto perché non è quello il mio obiettivo ma la cura delle luci e la scelta degli elementi porta a un risultato di questo tipo. Per quanto riguarda lo still life negli ultimi anni sto cercando di portare la mia ricerca verso un'estetica più pittorica che si rifà alle nature morte del primo Novecento. Mentre quando ritraggo le persone l'ispirazione arriva dal cinema degli anni tra i Quaranta e i Settanta, in cui trovo la luce un elemento estetico molto più presente e meno ovattato di adesso, fino ad Aki Kaurismäki per i nostri tempi.
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Fabrica Files 01-06, il primo libro che mi fece pensare alla fotografia come un effettivo mezzo creativo. La scoperta delle 15 compilation The New Wave Complex quando avevo circa vent'anni. Le creazioni di Robi Alfano. Libri e film di Alejandro Jodorowsky. La scena del sogno in La prigioniera di Henri-Georges Clouzot.Come si lavora in Italia in questo momento? C'è spazio per "innovare" oppure siamo ancora, in qualche maniera, indietro?
Si lavora bene, lo spazio per l'innovazione c'è ma mi sento di scindere la risposta in base alle realtà lavorative con cui ho a che fare quotidianamente. Le realtà più giovani sono quelle che ti danno la possibilità di sperimentare e creare progetti più "spinti" a livello creativo. La stessa intesa è più rara da trovare quando ci si interfaccia con ambienti più istituzionali, nati con canoni estetici diversi e consolidati da decenni ma che sempre più spesso dimostrano un'apertura verso linguaggi più contemporanei. Trovare il giusto equilibrio e riuscire a parlare a entrambe le realtà è forse la parte più complessa e appagante del mio lavoro.Vedo che hai lavorato con Mecna per la cover del suo ultimo album. Credi che l'arte stia diventando in qualche maniera "cross-mediale"? Mi spiego: sempre più artisti, a prescindere da dove arrivino—musica, scultura, cinema, etc—tendono a contaminare e a farsi contaminare da altri medium artistici. Esempio lampante è Mecna che oltre che fare il rapper fa il grafico. Penso anche ad avanguardie estere, come FKA Twigs o Holly Herndon, che con la loro musica hanno saputo impostare un vero e proprio codice comunicativo che ha trasceso la musica in sé. Cosa ne pensi?
La considero assolutamente una contaminazione positiva. L'arte penso sia sempre stata cross-mediale, adesso in modo più evidente e diffuso. Riuscire a creare un prodotto completo che racchiuda musica, immagine (ed in alcuni casi un messaggio) di qualità fa del musicista un artista completo e non può che elevarne il livello. Spesso mi ritrovo ad avere grossa considerazione di artisti dei quali non sono "fan" ma di cui riconosco la ricerca artistica che sta dietro, in questi casi è evidente uno studio molto accurato che spesso deriva dalla passione e consapevolezza di ciò che si sta facendo e non solo dalle regole di marketing.
Fatti ispirare dall'esterno e lavora per creare un linguaggio che sia tuo.Questa è l'idea di cambiamento di Pietro Cocco. Qual è la tua? Condividila su #Campaign4Change.