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La vicenda di Pino Maniaci mi ha fatto capire che le icone dell'antimafia non servono a nulla

"In chi dobbiamo credere ora?," mi sono chiesto da siciliano dopo la notizia di Pino Maniaci. La verità però è che nel pormi quella domanda stavo facendo un'enorme minchiata.

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L'altro giorno, dopo aver letto la notizia dell'accusa di estorsione a Pino Maniaci, mi sono sentito tradito e incredibilmente deluso: la procura di Palermo aveva notificato un provvedimento di divieto di dimora al direttore di Telejato "per aver ricevuto somme di denaro e agevolazioni dai sindaci di Partinico e Borgetto, onde evitare commenti critici sull'operato delle amministrazioni." Queste somme sarebbero state "strappate" con la minaccia.

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Ora, se sei cresciuto in Sicilia e nella vita vuoi fare il giornalista, Pino Maniaci era l'esempio da seguire. "Se anche lui è un delinquente, allora quali speranze restano nella lotta alla mafia?," mi sono chiesto. "Quale futuro può ancora avere il movimento antimafia? E io, in chi posso credere adesso? "

La verità però è che nel pormi questa domanda stavo facendo un'enorme minchiata, come si dice in Sicilia. Il motivo è semplice: la vicenda di Pino Maniaci—ancora da verificare—con l'antimafia non c'entra nulla. Né c'entra con la speranza di sconfiggere la mafia. Perché nella caduta del mito di Pino Maniaci il problema non è la mafia, ma la creazione del mito, del simbolo, dell'eroe.

Il limite mostrato in questi anni dal movimento antimafia è proprio questo: il nutrirsi di simboli. Nella lotta alle mafie, che è una lotta prima di tutto culturale, associazioni, magistrati e giornalisti vengono a turno caricati di poteri soprannaturali che finiscono per schiacciarli, spesso distruggendo (quando c'è) tutta la loro portata positiva. Questo meccanismo diventa pericoloso soprattutto quando viene attuato dalle istituzioni.

Matteo Renzi durante la sua diretta sui social #Matteorisponde ha spiegato: "Pino Maniaci era considerato un'icona dell'antimafia. Sembrava ci fosse un attacco della mafia contro di lui e gli ho telefonato. Oggi le indagini hanno dimostrato che non era così e non rifarei quella telefonata che era di solidarietà contro la mafia." Richiamando la sacralità offesa dell'icona, il presidente del Consiglio—che in questo caso sembra non ricordarsi che un'indagine non equivale a una condanna—delegittima non solo tutte le lotte che Telejato, e il suo direttore, hanno per anni portato avanti ( cercare alle voci dott.ssa Saguto e Cappellano Seminara), ma anche tutti coloro che in quelle battaglie hanno creduto.

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Perché in fondo la presenza di un simbolo permette di scaricare addosso a lui tutte le responsabilità. Credere che la mafia possa essere sconfitta da un eroe aiuta a vivere meglio, permette di occuparsi di altro.

Ma le icone hanno un altro enorme difetto: dividono. Non è un caso che le principali reazioni istituzionali puntino il dito contro il tradimento della causa. "Il direttore di Telejato ha più volte manifestato totale disprezzo per le autorità costituite, le forze dell'ordine e la magistratura," ha detto il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Lo Voi. Dall'altro lato della barricata Salvo Vitale, compagno di lotte prima di Peppino Impastato e poi proprio di Pino Maniaci, ha attaccato la Procura di Palermo parlando di "Un video ben costruito, […] un'operazione studiata a tavolino per gettare discredito su di lui e sulla sua emittente. Tutto calcolato. Sono autentici esperti sui metodi per distruggere una persona."

Lo stesso, prevedibilmente, è successo fra intellettuali e giornalisti, molti dei quali hanno immediatamente preso la strada dell'"io l'avevo detto." Tra i primi c'è stata Sara Dellabella sul sito dell'Espresso, doveracconta di come Pino Maniaci la volesse insistentemente a lavorare per Telejato "finché un giorno, di fronte all'ennesima telefonata, gli dissi che avrei accettato la sua proposta solo dopo aver visto i libri contabili e la bozza del contratto che avrei dovuto sottoscrivere. Da quel giorno non l'ho più sentito e non ha risposto più alle mie telefonate. Il 'mito' del giornalista antimafia aveva mostrato il suo lato peggiore." Poi è stato il turno di Domenico Valter Rizzo sul suo blog del Fatto Quotidiano, dove apre con la frase, "L'unico ricordo che mi è rimasto impresso di Pino Maniaci è la sua spocchia." La sensazione è in palio ci sia proprio quel simbolo: il distintivo di eroe dell'antimafia.

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Personalmente trovo di gran lunga più condivisibile quanto detto per esempio da Riccardo Orioles, che descrive un Pino Maniaci oggi ubriaco di una "povera nobiltà" ma comunque "uno dei migliori cronisti che ho conosciuto."

Perché il punto è questo: l'antimafia è, e deve essere, fatta di uomini e donne. Gli eroi non esistono. Come ha ribadito anche Franco la Torre, figlio di Pio, sindacalista e politico ucciso dalla mafia nel 1982, "L'antimafia è una battaglia per la democrazia, di tutti. […] Non mi piace quando definiscono così mio padre. Mio padre faceva solo il suo lavoro."

Nel frattempo Pino Maniaci è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari. Accompagnato dal suo avvocato Antonio Ingroia (quello che da pm non disdegnava l'etichetta di "simbolo dell'antimafia"), Maniaci ha poi parlato di ritorsione della procura palermitana per le sue denunce contro Silvana Saguto, l'ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Aprendo di fatto un nuovo capitolo della guerra dell'antimafia contro l'antimafia.

Ora al gip toccherà decidere se rinviare a giudizio l'uomo Pino Maniaci. Quanto al simbolo, per quello i colpevoli siamo noi. Ha ragione Claudio Fava quando dice: "A noi resta il torto di una nostra colpevole ingenuit à: esserci fidati in buona fede dei fumi d 'incenso. Che con la lotta alle mafie non c 'entrano mai nulla."

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