Ho assistito all'inferno del Cairo

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Ho assistito all'inferno del Cairo

Lo sgombero dei sit-in pro-Morsi è finito in massacro.

Ieri, la notizia dello sgombero dei sit-in pro-Morsi da parte di polizia ed esercito non ha colto nessuno di sorpresa. A sorprendere è stata piuttosto la rapidità con cui le autorità sono intervenute. Al calare del sole, il conteggio delle vittime aveva già superato i 200. Nelle ore successive, il numero di morti sarebbe salito a 525. Fin dalla rivoluzione del 2011 il Cairo e l'Egitto in generale hanno vissuto in un clima di instabilità politica e sociale, ma nel corso dell'ultimo mese le violenze sono sfociate in un nuovo livello di brutalità.

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Da più di un mese, ovvero fin dalla deposizione di Morsi, decine di migliaia di suoi sostenitori sono accampati nella parte orientale della capitale per protestare contro il colpo e richiedere il ritorno dell'ex Presidente. Per settimane i servizi di sicurezza hanno minacciato di intervenire, e domenica sera la stampa ha diffuso la notizia dell'imminente sgombero del sit-in di Rabaa al-Adaweya. Il ministro dell'Interno aveva promesso una procedura "graduale" e divisa in più giorni. Ma nella realtà, quanto accaduto dalle 6 di mattina di mercoledì non ha avuto niente di graduale, e la brutalità ha condotto alle dimissioni del vice presidente ad interim Mohammed El Baradei.

I primi resoconti suggerivano che all'alba la polizia avesse interrotto il sit-in con lacrimogeni e colpi di armi da fuoco, ma dal momento che le linee telefoniche erano sovraccariche, i dettagli risultano difficili da confermare. Quando io stessa ho provato ad avvicinarmi, tutte le strade verso Rabaa erano bloccate. Poliziotti e soldati stazionavano su entrambi i lati della strada, irremovibili. Ho passato la mattinata nei dintorni, nascosta dietro macchine nel tentativo di ripararmi dai proiettili di gomma esplosi dalla polizia. In due occasioni sono stata colpita, procurandomi dei lividi sulle gambe.

Nel frattempo molte famiglie erano tornate a Rabaa per assistere allo sgombero. "Me ne sono  andata ieri sera per recuperare un po' di sonno," mi spiega Mai Arafa, una farmacista reduce di un'intera settimana a Rabaa. "Il mio fidanzato è ancora qui, non vuole andarsene," continua, aggiungendo di essere pronta a rientrare nel sit-in nel caso trovasse un modo per avvicinarsi. "Non posso abbandonarlo, e non posso abbandonare la causa."

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Come tanti tra i presenti, Mai mi dice che non è lì per lealtà a Morsi, ma per sostenere un'idea e difendere un processo democratico che considera una delle poche vittorie tangibili dalla rivoluzione del 2011.

"Non sono una sostenitrice dei Fratelli Musulmani, ma ho votato per Morsi. E il modo in cui è stato sottratto alla sua gente rappresenta un'ingiustizia per tutti."

Eppure tanti non sono d'accordo. Il colpo costituisce un altro elemento di polarizzazione nella società egiziana, fatto particolarmente evidente nella giornata di ieri. Fin dal mattino, i residenti di Rabaa si sono raccolti dietro i militari intonando, "L'esercito e il popolo sono una mano sola." Nel frattempo, colonne di fumo si sollevavano dal vicino sit-in.

Alle 2 di notte sono finalmente riuscita a oltrepassare le barricate. Oltre quella zona regnava il caos. Pochi giorni prima i manifestanti mi hanno detto che non si sarebbero ritirati, e quasi tutti sono rimasti fedeli alla loro promessa. Mentre donne e bambini si accalcavano sotto le tende blu, gli uomini stavano davanti alle forze di sicurezza in evidente disparità. Per settimane aveva circolato la voce che i manifestanti avessero accumulato armi in vista del massacro. Ma di fronte a me vedevo solo pietre, raccolte da terra o ricavate dal marciapiede e lanciate oltre il labirinto di barricate che aveva fatto di Rabaa una fortezza impenetrabile—almeno nella mente dei suoi occupanti.

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Nel vicino ospedale da campo, il numero di feriti e cadaveri ha superato rapidamente quello del personale medico. La strada all'esterno era diventata un corridoio di spari; eppure, per raggiungere l'ambulanza era necessario attraversarla.

Alcuni non ce l'hanno fatta. Accanto a un'ambulanza al limitare del sit-in, ho osservato un gruppo di ragazzi trasportare un amico ferito. Non è riuscito ad arrivare fino all'altro capo della strada.

Nel corso delle ore i cadaveri hanno iniziato a accumularsi su due file. Persino la vicina moschea ha aperto le sue porte alle vittime, diventando essa stessa un obitorio. Intorno si erano raccolti donne e bambini, senz'altra scelta che cercare rifugio tra i morti.

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