Si è appena conclusa la 62esima Berlinale, quel festival del cinema che c'è in Germania dove si vince l'Orso d'Oro. Nota per essere decisamente meno modaiola dei festival mediterranei e complice anche un periodo dell'anno e un clima non proprio amichevole, la Berlinale ha sempre un programma vastissimo, e soprattutto, sfiancante.
Immaginate di andare al cinema circa sette volte al giorno e dover prendere la metro tra un film e l'altro, perché ve li proiettano da una parte all'altra della città; immaginate di fare ogni volta la coda col pubblico tedesco, che non solo è più consapevole e informato di voi, ma spinge anche più forte del peggiore studente del DAMS in attesa di vedere Abel Ferrara in conferenza stampa; cosa ancora più drammatica, immaginate che per vedere i film in concorso dovrete escludere tutti gli altri 760, quelli della retrospettiva (quest'anno Hommage a Meryl Streep, e piango forte perché mentre sto scrivendo mi ridanno Kramer vs. Kramer proprio dietro casa), quelli del Forum, dove il pubblico incontra gli autori (perso Werner Herzog con Death Row, quattro episodi di un doc sulla pena di morte), i corti e le anteprime del cinema tedesco, per non parlare dei documentari e delle festicciole di quartiere (Berlinale goes Kiez, ovvero come piazzarti il festival tra i turchi o gli alcolizzati di Kottbusser Tor, ché qui è tutto molto democratico). Una specie di festival dell'ansia e del senso di colpa, dove quello che non riesci a vedere è più di quello che vedi. Ma, nonostante tutto, ecco cosa abbiamo portato a casa. CAPTIVE di Brillante Mendoza, Filippine
Come se non bastasse, si presume pure che lo spettatore sia demente e abbia bisogno di “indicatori di crudeltà” che lo avvisino: “Ehi, sta per arrivare il male, guarda, questo è un simbolo della malvagità, ora vedrai delle scene violentissime e crudeli” e via di zoom su animali orrendi della giungla (ragni, pipistrelli, cobra, ecc.) che fanno la cacca sulla speranza di liberarsi degli ostaggi. Il desiderio di realismo e imparzialità ricercato da Mendoza attraverso inquadrature “tipo documentario” con frequenti (e irritanti) cambi di fuoco che si scontrano con la fitta vegetazione della foresta filippina, si traduce però in personaggi privi di profondità e tratteggiati così vagamente da sembrare schizofrenici. Escluse un paio di scene molto ben fatte (la morte del capo dei ribelli e un parto bello dettagliato durante uno scontro a fuoco), Isabelle Huppert fa fatica a rimanere una “bravissima”, soprattutto se, dopo aver subito ogni tipo di crudeltà, è subito lì pronta a fare le trecce ai terroristi perché dai, ci sono i bambini soldato e abbiamo carità cristiana da dare via come il pane. JAYNE MANSFIELD’S CAR di Billy Bob Thornton, Stati Uniti
Immaginate di andare al cinema circa sette volte al giorno e dover prendere la metro tra un film e l'altro, perché ve li proiettano da una parte all'altra della città; immaginate di fare ogni volta la coda col pubblico tedesco, che non solo è più consapevole e informato di voi, ma spinge anche più forte del peggiore studente del DAMS in attesa di vedere Abel Ferrara in conferenza stampa; cosa ancora più drammatica, immaginate che per vedere i film in concorso dovrete escludere tutti gli altri 760, quelli della retrospettiva (quest'anno Hommage a Meryl Streep, e piango forte perché mentre sto scrivendo mi ridanno Kramer vs. Kramer proprio dietro casa), quelli del Forum, dove il pubblico incontra gli autori (perso Werner Herzog con Death Row, quattro episodi di un doc sulla pena di morte), i corti e le anteprime del cinema tedesco, per non parlare dei documentari e delle festicciole di quartiere (Berlinale goes Kiez, ovvero come piazzarti il festival tra i turchi o gli alcolizzati di Kottbusser Tor, ché qui è tutto molto democratico). Una specie di festival dell'ansia e del senso di colpa, dove quello che non riesci a vedere è più di quello che vedi. Ma, nonostante tutto, ecco cosa abbiamo portato a casa. CAPTIVE di Brillante Mendoza, Filippine
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Il film del regista filippino è iniziato sotto il segno della comicità: quando, come prima cosa, è apparsa sullo schermo la scritta “A French-Filippino-German-British Production”, il solitamente rispettoso pubblico tedesco non ha potuto fare a meno di scoppiare in una grassa risata. Purtroppo il lavoro non riesce mai davvero ad emanciparsi da un ritornello narrativo che alla terza volta diventa ripetitivo e alla quarta quasi ridicolo. Quando gli abitanti di un piccolo villaggio e alcuni missionari occidentali vengono presi in ostaggio da un gruppo di fondamentalisti islamici, la tiritera è sempre la stessa: sballottati per la giungla, vengono intercettati dai militari del governo filippino, sparatoria, gli ostaggi si disperdono/vengono feriti/gridano, primo piano di Isabelle Huppert che strilla fortissimo, vittoria dei ribelli che gridano "Allahu Akbar" coi fucili in aria.
Come se non bastasse, si presume pure che lo spettatore sia demente e abbia bisogno di “indicatori di crudeltà” che lo avvisino: “Ehi, sta per arrivare il male, guarda, questo è un simbolo della malvagità, ora vedrai delle scene violentissime e crudeli” e via di zoom su animali orrendi della giungla (ragni, pipistrelli, cobra, ecc.) che fanno la cacca sulla speranza di liberarsi degli ostaggi. Il desiderio di realismo e imparzialità ricercato da Mendoza attraverso inquadrature “tipo documentario” con frequenti (e irritanti) cambi di fuoco che si scontrano con la fitta vegetazione della foresta filippina, si traduce però in personaggi privi di profondità e tratteggiati così vagamente da sembrare schizofrenici. Escluse un paio di scene molto ben fatte (la morte del capo dei ribelli e un parto bello dettagliato durante uno scontro a fuoco), Isabelle Huppert fa fatica a rimanere una “bravissima”, soprattutto se, dopo aver subito ogni tipo di crudeltà, è subito lì pronta a fare le trecce ai terroristi perché dai, ci sono i bambini soldato e abbiamo carità cristiana da dare via come il pane. JAYNE MANSFIELD’S CAR di Billy Bob Thornton, Stati Uniti
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Billy Bob Thornton, l'uomo con la faccia più gommosa dopo Ron Perlman, ha inaugurato il capitolo “famiglie disfunzionali” alla corte del Festival del Cinema di Berlino. Eppure, nonostante il cast della madonnina (Robert Duvall, John Hurt, Kevin Bacon), la vicenda degli americani Caldwell che si riuniscono per la prima volta con gli inglesi Bedford per un funerale non prende mai il volo. Anche se con qualche invenzione spassosa e una sceneggiatura piacevole, l'intrecciarsi delle relazioni dei “fratellastri”—ormai adulti ma ancora incasinatissimi—è sempre troppo simmetrica e prevedibile, in contrasto con la confusione dell'evento conciliatore e con l'instabilità delle due famiglie. Non appare fluido l'incontro tra i due gruppi umani, gli americani chiassosi ma sempre onesti con se stessi e gli altri, e gli inglesi, educati e composti ma in fondo in fondo birichini e doppiogiochisti. Neanche il bel personaggio di Billy Bob Thornton, un ex pilota della marina che c'è rimasto sotto con la guerra, e Robert Duvall in LSD riescono a inserirsi armoniosamente nel motivo della “famiglia disfunzionale”, motivo che appare composto da linee narrative tra loro distanti e scollate: quella che dovrebbe svilupparsi come una trama unica e complessa raggiunge solo parzialmente la “catarsi del volemmose bene” e molla qua e là alcune vicende secondarie, le quali, prive di una regia paracula che riesca a supplire i buchi della storia, perdono non solo il loro senso narrativo ma anche cinematografico—tanto da apparire quasi gratuite. A rendere comunque il film godibile, nonostante la durata eccessiva, sono una colonna sonora appropriatissima e l'Alabama del 1969, tutta grano, sudore e thè freddo alla pesca.
WAS BLEIBT (Home from the weekend) di Hans-Christian Schmid, Germania
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Secondo film sulle famiglie problematiche in concorso, Was bleibt (aka “ciò che rimane”) può essere facilmente riassunto con: il film delle camicie belle. Tutti indossano camicie stiratissime, col collo alla coreana, di seta, lunghe, corte, chiare, morbidissime, sicuramente comode. Forse il regista ha voluto suggerirci l'equazione “abbigliamo confortevole = problema interiore”? Sembrerebbe di sì, perché vita dei protagonisti scorre solo apparentemente liscia come il bianchissimo piano cucina della loro villetta immersa nella natura. Due figli adulti con carriere avviate si riuniscono per il fine settimana a casa dei genitori, due splendidi non ancora sessantenni. Ma la mamma è pazzina! Depressa o bipolare non si capisce, fatto sta che ad un certo punto scompare. Pur con una trama esilissima il film scorre abbastanza (forse merito anche della colonna sonora dei The Notwist), ma quello che rimane alla fine è ben poco… E se il senso del titolo è proprio apostrofare la “innere Zerrissenheit” come un male relativo, il messaggio passa a fatica. Una nota positiva però bisogna riconoscerla: anche se all'inizio si ha l'impressione di vedere una Muccinata alla tedesca (leggi: casa meravigliosa, personaggi che fanno lavori creativi, attori normali ma a loro modo belli, ampie librerie e rispetto per le cose di gusto e cultura, e via dicendo), i tedeschi lasciano comunque trapelare una strisciante e costante irrequietezza che, a differenza di come affrontano il disagio i drammi italiani, non è mai davvero placata: non c'è litigio o sfogo che tenga, la loro angoscia rimane.
KEBUN BINATANG (Postcards from the zoo) di Edwin, Indonesia
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Che film carino! La combinazione dialoghi in indonesiano – sottotitoli in tedesco mi aveva inizialmente scoraggiato, ma essendo (con gran vergogna) parecchio ignorante sul cinema asiatico mi ero dimenticata che spesso non è molto loquace ma riesce a raccontare senza troppo dire. E così è anche perPostcards from the zoo: ecco la storia di Lana, abbandonata piccolissima nel giardino zoologico di Jakarta e adottata dalla veterinaria del parco, nonché dagli altri animali, prime fra tutti le giraffe. Ma se lo zoo rappresenta l'inesauribilità della natura, pur ristretta nel piccolo spazio di un parco, anche la città non è da meno. Grazie all'incontro con un cowboy prestigiatore (e che bel fieu!), Lana scopre che al di là del muro c'è qualcos'altro che vale la pena di scoprire… Ma il film non si riduce a una parabola tipo topo di campagna vs topo di città o a un banalissimo Bildungsroman a tappe: le due realtà non sono affatto speculari, bensì complementari, si comprendono a vicenda e alternano la loro presenza nella “formazione” di Lana. Anche se non accompagnato da movimenti di camera, la narrazione è tutta in soggettiva; ma lo sguardo delicato e naive di Lana è fresco, la sua innocenza non è forzata come in certi film postIl ragazzo selvaggiodove per rappresentare la scoperta del mondo la protagonista deve pronunciare suoni gutturali e avere tanti peli sotto le ascelle. La fotografia regala esattamente quelle cartoline a cui il titolo si riferisce: lunghe sono le inquadrature dello zoo di domenica, dove le famiglie di Jakarta si riversano svogliate per fare quattro passi, in un clima sonnolento e polveroso (che credevo esistesse solo a mezzogiorno ad agosto, in Italia), tutti a spasso in una decadenza pigra ma non fiacca, mentre Lana osserva, gentile, mimetizzata come e insieme agli altri animali del giardino.Speciale film brutto fuori concorso: HAYWIRE di Steven Soderbergh
La decisione di mettersi in coda al Cinemaxxx di Potsdamer Platz invece di mangiare qualcosa dopo otto ore di digiuno è la conferma che sono una donnetta, una normalissima femmina senza cervello che guarda certi film perché ci sono i fighi dentro. Non ci posso fare niente, me ne hanno messi ben tre tutti insieme: primo Ewan McGregor, qui una specie di burocrate quattrocchi un po' secchione ma che comunque porta avanti la baracca; poi il “grandioso” Michael Fassbender, che ha una parte piccolissima e noiosa e comunque è sempre vestito; e infine il mio preferito, Bill “escono dalle fottute pareti” Paxton, nel ruolo del padre scrittore di romanzi storici e coi baffi! Evidentemente Soderbergh non si è reso conto del potenziale di testosterone che ha radunato nel suo film (ci sono anche Michael Douglas che hum, dai, e Banderas, se vi piace il genere) perché ci fa vedere solo la tremenda, irritante, bruttona, pachidermica protagonista Gina Carano, nel ruolo di un'abilissima agente speciale ex marine, che, ohibò!, a una certa vogliono tutti fare fuori. La sua somiglianza con Manuela Arcuri ha reso la visione ancora più insopportabile, soprattutto quando si dà le botte con Fassybender, durante la sequenza più spassosa dell'intera Berlinale. Morale: un film d'azione molto noioso, il cui continuo cambio di location e piani temporali non rende la trama intricata ma solo apparentemente confusa, finale WTF?!, case tipo Frank Lloyd Wright, tutto facilmente riassunto dal trailer qua sopra.@ccpu